Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 24531 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 24531 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 04/09/2025
ORDINANZA
Sul ricorso n. 23218-2016, proposto da:
DEI NOME , cf. CODICE_FISCALE, elettivamente domiciliato in Roma, presso la Cancelleria della Corte di cassazione, rappresentato e difeso dagli avv. NOME COGNOME e NOME COGNOME
Ricorrente
CONTRO
RAGIONE_SOCIALE , cf NUMERO_DOCUMENTO, in persona del Direttore p.t., elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende –
Controricorrente
Avverso la sentenza n. 523/27/2016 della Commissione tributaria regionale della Puglia, sez. staccata di Foggia, depositata il 2.03.2016; udita la relazione della causa svolta nell’ adunanza camerale del 26 giugno 2025 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
Operazioni inesistenti – Detraibilità Iva e deducibilità costi – Configurabilità
FATTI DI CAUSA
Dalla sentenza impugnata si evince che a seguito di verifica fiscale per le annualità dal 2007 al 2009 l ‘Agenzia delle entrate notificò a Dei Antonio tre distinti avvisi d’accertamento, con cui contestò il coinvolgimento in operazioni inesistenti, con conseguente recupero di un maggior reddito imponibile.
Il contribuente impugnò gli atti dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Foggia, che con sentenza n. 109/06/2013 accolse parzialmente le doglianze, dichiarando infondate le riprese a tassazione ai fini Irpef ed Irap e confermando l’indetraibilità dell’Iva.
Entrambe le parti, ciascuna per quanto soccombente, appellarono la decisione dinanzi alla Commissione tributaria regionale della Puglia, sez. staccata di Foggia. Il giudice d’appello, con sentenza n. 523/27/2016, rigettò le ragioni del contribuente e accolse quelle erariali.
La Commissione regionale ha riportato quanto contestato dal contribuente sulla indetraibilità dell’Iva , per essere a suo dire non provata l ‘ine sistenza delle operazioni riportate nelle fatture, nonché in ordine alla decadenza dell’Agenzia dal potere accertativo, in ordine alla nullità dell’accertamento per difetto di motivazione, e perché eseguito dall’ufficio regionale e non provinciale dell’Agenzia delle entrate, in ordine alla carenza di legittimazione passiva del Dei, cui gli atti impositivi erano stati notificati in luogo della sua ditta. Ha quindi richiamato le doglianze dell’ufficio, ossia che la ditta del COGNOME, unitamente ad altre cartiere, aveva posto in essere un giro di false fatturazioni al fine di creare falsi crediti d’imposta da utilizzare in compensazione di altri tributi oltre che di contributi previdenziali. Peraltro, con altre società possedute dal medesimo contribuente (RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE) aveva eseguito compensazioni d’imposta ai fini Iva e Irap, utilizzando crediti del tutto inesistenti derivanti da importi relativi ad annualità precedenti, e ciò al fine di far apparire regolari le posizioni contributive ed assicurative, Inps e Inail, per ottenere certificazioni necessarie al conseguimento di appalti (DURC).
Nella motivazione ha, quindi, innanzitutto rigettato l’appello del contribuente, evidenziando che il giudice di primo grado aveva esaminato gli atti istruttori, da cui era emersa la natura di cartiera delle società facenti capo al Dei, ed ha rilevato che nei ricorsi introduttivi questi non aveva
RGN 23218/2016
d’altronde contestato minimamente i rilievi contenuti negli opposti avvisi d’accertamento; ha ritenuto infondata l’eccepita decadenza dell’ Amministrazione finanziaria dal potere impositivo, verificando al contrario l’ampia tempestività della notificazione degli atti; ha rigettato la doglianza di difetto di motivazione degli avvisi d’accertamento per difetto di allegazione dei pvc, il cui contenuto risultava riprodotto nei suoi elementi essenziali negli atti impositivi notificati, ha riconosciuto l’efficacia , ai fini accertativi, della verifica eseguita dall’ufficio regionale dell’Agenzia; ha infine rigettato l ‘ eccepita omessa pronuncia sulla carenza di legittimazione passiva del contribuente, per essere stato eseguito l’accertamento nei confronti d ella ditta e non a titolo personale, laddove la notifica degli atti era stata indirizzata a quest’ultimo, per trattarsi di una ditta coincidente come tale con la persona fisica.
Esaminando quindi l’appello erariale, ne ha accolto le ragioni, rilevando come risultasse dimostrata la natura di cartiere delle società che risultavano aver operato con il Dei (RAGIONE_SOCIALE), accertamenti non contraddetti dalla difesa del contribuente. Correttamente, quindi l’ufficio aveva confermato i ricavi dichiarati, riconoscendo per intero le spese per lavoro dipendente, ma recuperando i costi emergenti dalle sole fatture emesse dalle menzionate società (con evidenza oggettivamente inesistenti).
Il ricorrente ha censurato la sentenza con tre motivi, chiedendone la cassazione, cui ha resistito l’Agenzia delle entrate con controricorso. La Procura Generale della Corte di cassazione, nella persona del Sostituto procuratore generale NOME COGNOME ha depositato memoria con cui ha chiesto il rigetto del ricorso. Il ricorrente ha illustrato ulteriormente le proprie difese con memoria depo sitata ai sensi dell’art. 38 0 bis.1 c.p.c.
Nell’adunanza camerale del 26 giugno 2025 la causa è stata discussa e decisa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo il ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 14, comma 4 -bis della legge n.537/1993 e della violazione e falsa applicazione dell’art.8 , comma 2, del D.L: n.16/2013, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.
Sostiene che la CTR si sarebbe limitata con poche righe ad affermare la non conformità alla legge della pronuncia di primo grado, senza neppure tener conto dei principi in tema di costi, così come disciplinati dall’art. 14, comma 4 bis, della l. n. 537 del 1993.
Il motivo è infondato.
Deve intanto rammentarsi che, a seguito della introduzione dell’art. 8, comma 2, del d.l. n. 16 del 2012, convertito con modificazioni in l. n. 44 del 2012, e della conseguente novella che ha interessato l’art. 14, comma 4 bis, della l. 24 dicembre 1993, n. 537, è stato chiarito il significato, la portata ed i limiti interpretativi della disciplina regolatrice le operazioni inesistenti, soggettivamente ed oggettivamente tali, anche quando relazionate a condotte penalmente rilevanti.
Nello specifico l’art. 8 prevede che «1. Il comma 4-bis dell’articolo 14 della legge 24 dicembre 1993, n. 537, è sostituito dal seguente: “4-bis. Nella determinazione dei redditi di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale o, comunque, qualora il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’articolo 424 del codice di procedura penale ovvero sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’articolo 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’articolo 157 del codice penale. Qualora intervenga una sentenza definitiva di assoluzione ai sensi dell’articolo 530 del codice di procedura penale ovvero una sentenza definitiva di non luogo a procedere ai sensi dell’articolo 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza di motivi diversi dalla causa di estinzione indicata nel periodo precedente, ovvero una sentenza definitiva di non doversi procedere ai sensi dell’articolo 529 del codice di procedura penale, compete il rimborso delle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione prevista dal periodo precedente e dei relativi interessi”. 2. Ai fini dell’accertamento delle imposte sui redditi non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica i componenti positivi direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a
beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati, entro i limiti dell’ammontare non ammesso in deduzione delle predette spese o altri componenti negativi. In tal caso si applica la sanzione amministrativa dal 25 al 50 per cento dell’ammontare delle spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati indicati nella dichiarazione dei redditi. In nessun caso si applicano le disposizioni di cui all’articolo 12 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, e la sanzione è riducibile esclusivamente ai sensi dell’articolo 16, comma 3, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472. 3. Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 si applicano, in luogo di quanto disposto dal comma 4-bis dell’articolo 14 della legge 24 dicembre 1993, n. 537, previgente, anche per fatti, atti o attività posti in essere prima dell’entrata in vigore degli stessi commi 1 e 2, ove più favorevoli, tenuto conto anche degli effetti in termini di imposte o maggiori imposte dovute, salvo che i provvedimenti emessi in base al citato comma 4-bis previgente non si siano resi definitivi. Resta ferma l’applicabilità delle previsioni di cui al periodo precedente ed ai commi 1 e 2 anche per la determinazione del valore della produzione netta ai fini dell’imposta regionale sulle attività produttive».
Ebbene, si è chiarito che ai sensi dell’art. 14, comma 4-bis, della l. n. 537 del 1993 – nella formulazione introdotta con l’art. 8, comma 1, del d.l. n. 16 del 2012, cit. – l’acquirente dei beni può dedurre i costi relativi ad operazioni soggettivamente inesistenti, anche nell’ipotesi in cui sia consapevole del loro carattere fraudolento, salvi i limiti derivanti, in virtù del d.P.R. n. 917 del 1986, dai principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità, mentre è esclusa la deducibilità dei costi delle operazioni oggettivamente inesistenti (Cass., 7 dicembre 2016, n. 25249; 6 luglio 2018, n. 17788; 15 marzo 2022, n. 8480).
Un ulteriore limite alla deducibilità è dunque relazionato alla diretta utilizzazione di quei costi o spese per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo. A tal fine si è affermato che in tema di tassabilità dei proventi da attività illecita, in forza della richiamata disciplina, norma integrante ius superveniens, astrattamente più favorevole al contribuente e quindi avente efficacia retroattiva, l’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero, con la richiesta di rinvio a giudizio, è sufficiente ad escludere la deducibilità dei costi e delle spese dei beni o delle
prestazioni di servizi direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo (Cass., 5 dicembre 2019, n. 31789; 1 aprile 2021, n. 9077; 20 ottobre 2021, n. 29142; 15 settembre 2023, n. 26678; 19 marzo 2024, n. 7275; 6 febbraio 2025, n. 2951). Ed ancora che, ai sensi dell’art. 14, comma 4-bis, cit., devono ritenersi costo o spesa direttamente “utilizzati” per il compimento del delitto, ed in quanto tali non deducibili, anche quelli sostenuti in un momento successivo al perfezionamento della fattispecie delittuosa ogni qual volta il loro sostenimento trovi titolo nell’assunzione, da parte dell’agente, di una obbligazione strutturalmente funzionale alla realizzazione del delitto (Cass., 28 dicembre 2017, n. 31059; 5 dicembre 2019, n. 31789; 1 settembre 2022, n. 25686; 15 ottobre 2024, n. 26786).
Peraltro, l’indeducibilità dei costi direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitti non colposi non discende in modo “automatico” dalla declaratoria di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione del reato, spettando al giudice tributario valutare incidentalmente la rilevanza penale della condotta (Cass., 4 aprile 2019, n. 9419).
Quanto poi alle operazioni oggettivamente inesistenti, la giurisprudenza ha intanto chiarito che la disposizione di cui all’art. 8, comma 1, del d.l. n. 16, cit., secondo cui non sono ammessi in deduzione costi e spese di beni o prestazioni di servizi direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo, è invocabile soltanto in caso di operazioni soggettivamente inesistenti e non anche in caso di operazioni oggettivamente inesistenti.
Quanto a queste ultime, grava quindi sul contribuente l’onere di provare la natura fittizia dei componenti positivi del reddito che, ai sensi dell’art. 8, comma 2, del d.l. cit., siano direttamente afferenti a spese o ad altri componenti negativi relativi a beni e servizi non effettivamente scambiati o prestati e non devono pertanto concorrere alla formazione del reddito oggetto di rettifica, entro i limiti dell’ammontare non ammesso in deduzione delle predette spese o altri componenti negativi (Cass., 19 dicembre 2019, n. 33915; cfr. anche 20 aprile 2016, n. 7896; 8 ottobre 2014, n. 21189). Si è infatti ulteriormente specificato che per le operazioni oggettivamente inesistenti non vi è simmetria, né automatismo biunivoco tra costi per
acquisti inesistenti e ricavi dichiarati, ciò che giustifica l’onere della prova gravante sul contribuente in merito alla corrispondenza tra ricavi e costi attinenti a beni non effettivamente scambiati (Cass., 17 luglio 2018, n. 19000).
Ebbene, se già la perimetrazione dell’ambito applicativo de lle regole sulla detraibilità o meno dei costi in materia è sufficiente a dare risposta negativa- alla doglianza del ricorrente, essa è con evidenza ancor più infondata quando si esamini la motivazione della decisione criticata. In essa non è affatto vero che il giudice regionale si sia limitato a una affermazione assiomatica, priva di ragioni. Al contrario, il giudice regionale ha messo in evidenza che l’Agenzia aveva dimostrato la fondatezza dell’ inesistenza delle operazioni formalmente poste in essere tra le società e il Dei, provandone la loro stessa natura di cartiere -come dichiarato dai rispettivi legali rappresentanti-, l ‘ assenza di strutture operative, l’assenza dell’esercizio di operazioni sul mercato, l’omessa presentazione di dichiarazioni fiscali. Inoltre, ha evidenziato che tali elementi non risultavano neppure contestati nei ricorsi (cfr. ultimo capoverso di p. 7 della sentenza, e prosieguo a p. 8).
Si tratta con evidenza di un accertamento in fatto, che contraddice del tutto la doglianza del ricorrente, che va dunque rigettata.
Con il secondo motivo il Dei ha lamentato l’omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio, e oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’ar t. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. La commissione regionale avrebbe omesso di valutare i documenti, come il ricorso di primo grado e gli allegati da 1 a 3, atti a dimostrare la non univocità degli elementi presi dall’Ufficio a supporto delle sue pretese e dunque l’erroneità del giudizio.
Al motivo, che è ricondotto nel l’alveo del vizio di motivazione, trova applicazione la nuova formulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5), cod. proc. civ., così che la censura resta circoscritta alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, sesto comma, Cost., individuabile nelle ipotesi che si convertono in violazione dell’art. 132, secondo comma 2, n. 4, c.p.c. e danno luogo a nullità della sentenza, e al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia (cfr. Sez. U, 07/04/2014, n. 8053; 20/11/2015, n. 23828; 12/10/2017, n. 23940).
Peraltro, ai fini della decisione adottata, non occorre una specifica argomentazione su ogni questione; infatti è sufficiente quella motivazione che fornisca una spiegazione logica ed adeguata della pronuncia, evidenziando le prove ritenute idonee a suffragarla, ovvero la carenza di esse, senza che sia necessaria l’analitica confutazione delle tesi non accolte o la disamina degli elementi di giudizio non ritenuti significativi (Cass., Sez. V, 2 aprile 2020, n. 7662; Cass., Sez. V, 6 dicembre 2017, n. 29191).
Ciò chiarito, nel caso di specie il motivo, oltre che non far comprendere neppure se la documentazione invocata fosse relazionabile ad una critica interpretativa o alla specifica ignoranza di un fatto decisivo per la decisione, si limita ad un mero rinvio a generici allegati, senza neppure elencare in cosa tali allegati consistessero.
Con il terzo motivo il ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 7, comma 1, l. n.212 del 2000. La commissione regionale ha respinto l’eccezione di difetto di motivazione dell’atto con un richiamo generico al PVC, che non conteneva gli elementi utili a integrare l’onere motivazionale dell’atto.
Il motivo è radicalmente infondato, perché la decisione del giudice regionale, nel l’affermare che gli avvisi d’accertamento riproducevano il contenuto essenziale del pvc, è corretta e adesiva ai principi dispensati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di motivazione dell’atto impositivo, e della sua pretesa nullità quando al richiamo di altri atti non faccia seguito la loro allegazione. Questa Corte, infatti ha già chiarito che in tema di avviso di accertamento, l’Amministrazione finanziaria, ai sensi dell’art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973, non ha l’obbligo di allegare all’atto impositivo i documenti richiamati, potendo limitarsi a riprodurne il contenuto essenziale ( ex multis , Cass., 30 dicembre 2024, n. 34906; 25 marzo 2024, n. 8016; 29 novembre 2023, n. 33327; 5 ottobre 2018, n. 24417; 11 aprile 2017, n. 9323).
Nel caso di specie a tali conclusioni è pervenuta la decisione ora al vaglio della Corte, con una valutazione in fatto che in alcun modo, anche alla luce di quanto chiarito nell’esame del secondo motivo, risulta scalfita dalla mera critica del ricorrente.
In definitiva il ricorso deve essere rigettato. Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo.
Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente alla rifusione delle spese processuali sostenute dall’Agenzia delle entrate, che si liquidano nella misura di € 28.000,00 oltre spese prenotate a debito. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis del medesimo articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 26 giugno 2025