Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 21238 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 21238 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 24/07/2025
ORDINANZA
Sul ricorso n. 2229-2020, proposto da:
RAGIONE_SOCIALE , cf NUMERO_DOCUMENTO, in persona del Direttore p.t., elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende –
Ricorrente
CONTRO
CURATELA FALLIMENTARE ‘ AZIENDA RAGIONE_SOCIALE , cf. 004408770392, in persona del Curatore fallimentare, elettivamente domiciliato in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME
Controricorrente
Avverso la sentenza n. 1073/14/2019 della Commissione tributaria regionale dell ‘Emilia -Romagna, depositata il 30.05.2019; adunanza camerale del 30 aprile udita la relazione della causa svolta nell’ 2025 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
Operazioni inesistenti – Detraibilità Iva e deducibilità costi – Configurabilità
FATTI DI CAUSA
A seguito di verifica fiscale relativa all’anno d’imposta 200 6 , l’Agenzia delle entrate notificò all’RAGIONE_SOCIALE l’avviso d’accertamento con cui, contestando l’emissione di fatture relative ad operazioni oggettivamente inesistenti, determinò il maggior imponibile ai fini Ires ed Irap , ritenendo indeducibili costi pari ad € 388.492,00. Pretese in conseguenza maggiori imposte e irrogò sanzioni.
Nello specifico, e da quanto emerge nella sentenza impugnata e nel ricorso erariale, alla società, attinta da una verifica che aveva interessato più annualità d’imposta (sino al 2010), per il 2003 fu contestato l’utilizzo di fatture emesse dalla società RAGIONE_SOCIALE, operante nel commercio di uva da tavola, per l’acquisto di mosto. Dai riscontri riportati dai militari verificatori, fatti propri dall’amministrazione finanziaria, la società aveva in parte acquistato fittiziamente il mosto dalla RAGIONE_SOCIALE, società operativa, ma a sua volta anche cessionaria fittizia di altre società, ritenute cartiere. In tale prospettiva la COGNOME si era posta quale società filtro tra le cartiere e la odierna controricorrente. Per altre operazioni, invece, gli acquisti fittizi di mosto da parte della RAGIONE_SOCIALE erano stati direttamente fatturati dalle società cartiere.
Avverso l’atto impositivo la società propose ricorso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Ravenna, accolto con sentenza n. 7/02/2015. La pronuncia fu impugnata dall ‘Agenzia delle entrate dinanzi alla Commissione tributaria regionale dell’Emilia -Romagna, che con sentenza n. 1073/14/2019 ne respinse le ragioni.
Il giudice regionale, nel ricostruire tutta la vicenda, ha preso atto che alcune società fittizie, elencate dettagliatamente, avevano emesso una serie di fatture inesistenti nei confronti della RAGIONE_SOCIALE, e tra esse, per quanto riferibile ai rapporti tra la Olvin e la controricorrente nel corso di una pluralità di anni, fatture per circa 7.500.000,00 €. Si è dunque diffuso sulla corretta definizione e distinzione tra operazioni oggettivamente inesistenti e operazioni soggettivamente inesistenti. Ha poi rilevato le diverse conseguenze derivanti dalla suddetta distinzione e, in particolare, la in detraibilità dell’Iva e la in deducibilità dei costi nell’ipotesi di operazioni oggettivamente inesistenti, laddove, per quelle soggettivamente inesistenti, l’Iva si conferma indetraibile, mentre i costi ai fini delle imposte dirette
sarebbero deducibili, ai sensi dell’art. 14, comma 4 -bis, l. 24 dicembre 1993, n. 537, come novellato dal d.l. 2 marzo 2012, n. 16 (art. 8). Proseguendo nelle sue argomentazioni, la Commissione regionale ha considerato che ‘dagli atti di causa risulta come la Olvin si sia interposta tra le inesistenti società fornitrici, sopra elencate, e la azienda vinicola alla Grotta ‘ . In un successivo passaggio della pronuncia si afferma invece che « E’ provato che, diversamente da quanto sostenuto dai Giudici di Primo grado, la RAGIONE_SOCIALE si sia interposta anch’essa tra il reale fornitore del mosto e l’utilizzatore finale. Avendo ricevuto fatture da ditte inesistenti ha posto in essere un ulteriore passaggio cartolare, al chiaro fine di ostacolare l’accertamento della complessiva frode». Nel concludere, ha quindi affermato che l’azienda vinicola alla Grotta avrebbe effettuato i pagamenti, come risulta dal verbale del 22 giugno 2012, così che ai soli fini delle imposte dirette, i costi del reato, per essere stati effettivamente sostenuti, andavano tenuti in considerazione (ossia, per quanto comprensibile, erano deducibili).
Avverso la sentenza l’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad un solo motivo, illustrato da memoria, cui ha resistito la società con controricorso.
Nell’adunanza camerale del 30 aprile 2025 la causa è stata discussa e decisa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Devono innanzitutto respingersi le eccezioni con le quali la società ha denunciato l ‘ improcedibilità del ricorso , per violazione dell’obbligo di allegazione degli atti richiamati nell’art. 369 c.p.c.
Questa Corte ha avvertito come il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, ex art. 366, comma 1, n. 6), c.p.c., è compatibile con il principio di cui all’art. 6, par. 1, della CEDU, qualora, in ossequio al criterio di proporzionalità, non trasmodi in un eccessivo formalismo, dovendosi, di conseguenza, ritenere rispettato ogni qualvolta l’indicazione dei documenti o degli atti processuali sui quali il ricorso si fondi, avvenga, alternativamente, o riassumendone il contenuto, o trascrivendone i passaggi essenziali, bastando, ai fini dell’assolvimento dell’onere di deposito previsto dall’art. 369, comma 2, n. 4 c.p.c., che il documento o l’atto, specificamente indicati nel ricorso, siano accompagnati da un riferimento idoneo ad identificare la fase del processo di merito in cui siano stati prodotti o formati (cfr. Cass.,
19 aprile 2022, n. 12481). Nel caso di specie il ricorso contiene amplissimi stralci degli atti richiamati, peraltro relativi al processo verbale di constatazione.
A margine, va ribadito quanto già chiarito da questa Corte, ossia che l’onere del ricorrente di cui all’art. 369, comma 2, n. 4 c.p.c., come modificato dall’art. 7 del d.lgs. n. 40 del 2006 è soddisfatto, sulla base del principio di strumentalità delle forme processuali, anche mediante la produzione del fascicolo di parte del giudizio di merito, mentre per gli atti e i documenti del fascicolo d’ufficio, è sufficiente il deposito della richiesta di trasmissione del fascicolo presentata alla cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata, ferma in ogni caso, l’esigenza di specifica indicazione, a pena di inammissibilità ex art. 366, n. 6 c.p.c., degli atti, dei documenti e dei dati necessari al reperimento degli stessi (Sez. U, 3 novembre 2011, n. 22726; Cass., 29 luglio 2021, n. 21831). Inoltre, con specifico riferimento alle controversie tributarie in sede di legittimità, si è altrettanto correttamente affermato che per i ricorsi avverso le sentenze delle commissioni tributarie, la indisponibilità dei fascicoli delle parti (i quali, ex art. 25, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992 restano acquisiti al fascicolo d’ufficio e sono restituiti solo al termine del processo) comporta la conseguenza che la parte ricorrente non è onerata, a pena di improcedibilità ed ex art. 369, secondo comma, n. 4 c.p.c., della produzione del proprio fascicolo e per esso di copia autentica degli atti e documenti ivi contenuti, poiché detto fascicolo è già acquisito a quello d’ufficio di cui abbia domandato la trasmissione alla Suprema Corte ex art. 369, terzo comma, c.p.c., a meno che la predetta parte non abbia irritualmente ottenuto la restituzione del fascicolo di parte dalla segreteria della commissione tributaria; neppure è tenuta, per la stessa ragione, alla produzione di copia degli atti e dei documenti su cui il ricorso si fonda e che siano in ipotesi contenuti nel fascicolo della controparte (Cass., 30 novembre 2017, n. 28695).
Neppure fondata è l’eccezione di inammissibilità ‘per violazione del principio di autosufficienza’. Al contrario di quanto afferma la controricorrente, il ricorso dell’Agenzia delle entrate assolve pienamente al dovere di specificità, non essendo affatto necessaria la trascrizione integrale degli atti del processo e degli atti difensivi della parte avversa.
Esaminando dunque il merito, con l’unico motivo l’Agenzia delle finanze ha denunciato la violazione e falsa applicazione degli artt. 109, d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, 39, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, nonché de ll’art. 8, d.l. n. 16 del 2012, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. Il giudice d’appello , nonostante abbia preso atto dell’inesistenza delle ditte o società che avevano fornito mosto alla RAGIONE_SOCIALE, ha tuttavia qualificato le operazioni come soggettivamene inesistenti e non, per logica argomentativa, quali operazioni oggettivamente inesistenti.
Il motivo è fondato nei termini appresso chiariti.
Va premesso che nella prospettazione dell’avviso d’accertamento, che segna il perimetro entro il quale l’Agenzia delle entrate ha ricostruito la vicenda, sul piano fattuale, ed ha formulato l’addebito di contestazione, sul piano giuridico, l’ufficio ha int eso contestare il coinvolgimento della controricorrente in operazioni oggettivamente inesistenti. Nello specifico, e con riferimento dunque ai rapporti ed ai passaggi di fatture false (per l’inesistenza materiale delle operazioni in esse rappresentate) tra la RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE, l’Ufficio ha contestato che alcune società, di cui vi era prova della natura di cartiere, del tutto inesistenti sotto il profilo economico, avevano emesso fatture nei confronti della COGNOME per operazioni oggettivamente inesistenti. A sua volta, la COGNOME aveva emesso fatture nei confronti della RAGIONE_SOCIALE per le medesime forniture oggettivamente inesistenti. Questo e solo questo era l’addebito erariale elevato nei confronti della odierna controricorrente, ed entro questo perimetro, fattuale e giuridico, il giudice adito poteva e doveva vagliare la controversia insorta tra fisco e contribuente. Poteva ritenere non fondato l’addebito, o perché i fatti processualmente emergenti non corrispondevano alla fattispecie fenomenica perimetrata nell’atto impositivo impugnato, o poteva diversamente riqualificare i medesimi fatti, ma ciò sempre sulla base delle allegazioni delle rispettive difese. Non poteva invece diversamente ricostruire la vicenda, senza dar conto della fonte processuale della decisione.
Ciò chiarito, la motivazione della pronuncia è innanzitutto incorsa in una palese contraddizione. Da essa si evince che l’Amministrazione finanziaria ha ricostruito la vicenda frodatoria identificando alcune società, dettagliatamente elencate nella stessa sentenza, come emittenti fatture
inesistenti. Si tratta di società che il medesimo giudice d’appello qualifica come cartiere, ossia come società inesistenti e, dunque, per ciò stesso prive di capacità economica. Si afferma infatti in motivazione, al penultimo capoverso di pag. 2, che la COGNOME si fosse interposta tra le ‘inesistenti ditte fornitrici’ e l’RAGIONE_SOCIALE, quest’ultima utilizzatrice finale delle fatture emesse dalle predette cartiere.
Se allora la COGNOME è ritenuta dal giudice regionale quale società che si è interposta tra le società fittizie (esistenti cioè solo sulla carta ed emittenti fatture per operazioni inesistenti) e l’utilizzatrice finale di quelle fatture, le operazioni dovevano essere necessariamente inquadrate nella categoria della oggettiva inesistenza.
Sennonché, nell’ultimo capoverso, il giudice regionale afferma che la COGNOME si sia interposta tra ‘il reale fornitore del mosto e l’utilizzatore finale’. In tal modo, senza una comprensibile argomentazione e comunque con un salto logico, la commissione regionale nega che quelle società fossero inesistenti.
Se esse avessero realmente ceduto il mosto e inteso non comparire nella successione delle cessioni per mascherare l’omesso versamento dell’iva, ci si troverebbe effettivamente nell’alveo d i operazioni soggettivamente inesistenti. Ma tale motivazione è del tutto contraddittoria e confusa, facendo solo mostra di non aver compreso il meccanismo posto in atto dalle parti in causa e, soprattutto, di aver ‘modificato’ i ‘fatti’ contestati dall’erario alla contribuente , senza far comprendere il perché e da quale fonte probatoria la Commissione regionale abbia tratto quelle conclusioni, ossia che le società cartiere si siano trasformate in società reali, con capacità economica, cioè capaci di vendere realmente il mosto alla Olvin.
Se si vuole allora dare un senso alla motivazione, altrimenti radicalmente nulla, deve accogliersi la critica della difesa erariale, secondo cui il giudice regionale avrebbe errato nel considerare come l’interposizione della RAGIONE_SOCIALE tra le suddette cartiere e l’RAGIONE_SOCIALE, utilizzatrice finale delle menzionate fatture , abbia determinato per il giudice d’appello una qualificazione della inesistenza delle operazioni sotto un profilo soggettivo, con ciò senza tener conto dei principi che presidiano la differente collocazione delle operazioni tra quelle oggettivamente o soggettivamente inesistenti, e comunque, senza aver indicato su quali dati e quali prove il
giudice d’appello sia pervenuto a tali conclusioni . Peraltro, secondo principi di logica ermeneutica, così come ricostruita la vicenda dal giudice regionale, sarebbe errato anche lo stesso inquadramento della fattispecie nelle operazioni soggettivamente inesistenti, perché nel caso di specie sarebbe reale la cessione del mosto dalle società (in)esistenti e la RAGIONE_SOCIALE e poi da quest’ultima alla Azienda RAGIONE_SOCIALE, e questo perché nelle operazioni triangolari, inquadrabili tra quelle soggettivamente inesistenti, la società RAGIONE_SOCIALE è l’interposta, che si frappone tra il cedente effettivo e il cessionario, laddove non è stata mai contestata la effettiva esistenza della COGNOME.
A parte, dunque, l’abnormità del mutamento della qualificazione giuridica delle contestazioni elevate con l’atto impositivo dall’Agenzia delle entrate, che aveva addebitato alla contribuente la partecipazione ad operazioni oggettivamente inesistenti, fattispecie ontologicamente differente dalle operazioni soggettivamente inesistenti, la sentenza incorre in ulteriori incongruenze con riferimento alla deducibilità dei costi nell’ipotesi di operazioni inesistenti, per come ricostruita la disciplina.
Il giudice regionale, nel richiamare l’art. 14, comma 4 -bis cit., ha definito la controversia, affermando che nelle operazioni soggettivamente inesistenti l’iva resta indetraibile, mentre i costi sono deducibili ai fini delle imposte dirette.
Le conclusioni, così come formulate, non sono esaustive.
La giurisprudenza di legittimità, a seguito della introduzione dell’art. 8, comma 2, del d.l. n. 16 del 2012, convertito con modificazioni in l. n. 44 del 2012, e della conseguente novella che ha interessato l’art. 14, comma 4 bis, della l. 24 dicembre 1993, n. 537, ha chiarito il significato, la portata ed i limiti interpretativi della disciplina regolatrice le operazioni inesistenti, soggettivamente ed oggettivamente tali, anche quando relazionate a condotte penalmente rilevanti.
Nello specifico l’art. 8 prevede che «1. Il comma 4-bis dell’articolo 14 della legge 24 dicembre 1993, n. 537, è sostituito dal seguente: “4-bis. Nella determinazione dei redditi di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il
compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale o, comunque, qualora il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’articolo 424 del codice di procedura penale ovvero sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’articolo 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’articolo 157 del codice penale. Qualora intervenga una sentenza definitiva di assoluzione ai sensi dell’articolo 530 del codice di procedura penale ovvero una sentenza definitiva di non luogo a procedere ai sensi dell’articolo 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza di motivi diversi dalla causa di estinzione indicata nel periodo precedente, ovvero una sentenza definitiva di non doversi procedere ai sensi dell’articolo 529 del codice di procedura penale, compete il rimborso delle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione prevista dal periodo precedente e dei relativi interessi”. 2. Ai fini dell’accertamento delle imposte sui redditi non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica i componenti positivi direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati, entro i limiti dell’ammontare non ammesso in deduzione delle predette spese o altri componenti negativi. In tal caso si applica la sanzione amministrativa dal 25 al 50 per cento dell’ammontare delle spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati indicati nella dichiarazione dei redditi. In nessun caso si applicano le disposizioni di cui all’articolo 12 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, e la sanzione è riducibile esclusivamente ai sensi dell’articolo 16, comma 3, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472. 3. Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 si applicano, in luogo di quanto disposto dal comma 4-bis dell’articolo 14 della legge 24 dicembre 1993, n. 537, previgente, anche per fatti, atti o attività posti in essere prima dell’entrata in vigore degli stessi commi 1 e 2, ove più favorevoli, tenuto conto anche degli effetti in termini di imposte o maggiori imposte dovute, salvo che i provvedimenti emessi in base al citato comma 4-bis previgente non si siano resi definitivi. Resta ferma l’applicabilità delle previsioni di cui al periodo precedente ed ai commi 1 e 2 anche per la determinazione del valore della produzione netta ai fini dell’imposta regionale sulle attività produttive».
Ebbene, si è chiarito che ai sensi dell’art. 14, comma 4-bis, della l. n. 537 del 1993 – nella formulazione introdotta con l’art. 8, comma 1, del d.l. n. 16 del 2012, cit. – l’acquirente dei beni può dedurre i costi relativi ad operazioni soggettivamente inesistenti, anche nell’ipotesi in cui sia consapevole del loro carattere fraudolento, salvi i limiti derivanti, in virtù del d.P.R. n. 917 del 1986, dai principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità, mentre è esclusa la deducibilità dei costi delle operazioni oggettivamente inesistenti (Cass., 7 dicembre 2016, n. 25249; 6 luglio 2018, n. 17788; 15 marzo 2022, n. 8480). Un ulteriore limite alla deducibilità è dunque relazionato alla diretta utilizzazione di quei costi o spese per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo. È stato a tal fine chiarito che in tema di tassabilità dei proventi da attività illecita, a norma dell’art. 14, comma 4 bis, della l. n. 537 del 1993, nella formulazione introdotta dall’art. 8, comma 1, cit., norma integrante ius superveniens, astrattamente più favorevole al contribuente e quindi avente efficacia retroattiva, l’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero, con la richiesta di rinvio a giudizio, è sufficiente ad escludere la deducibilità dei costi e delle spese dei beni o delle prestazioni di servizi direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo (Cass., 5 dicembre 2019, n. 31789; 1 aprile 2021, n. 9077; 20 ottobre 2021, n. 29142; 15 settembre 2023, n. 26678; 19 marzo 2024, n. 7275; 6 febbraio 2025, n. 2951). Ed ancora che, ai sensi dell’art. 14, comma 4-bis, cit., devono ritenersi costo o spesa direttamente “utilizzati” per il compimento del delitto, ed in quanto tali non deducibili, anche quelli sostenuti in un momento successivo al perfezionamento della fattispecie delittuosa ogni qual volta il loro sostenimento trovi titolo nell’assunzione, da parte dell’agente, di una obbligazione strutturalmente funzionale alla realizzazione del delitto (Cass., 28 dicembre 2017, n. 31059; 5 dicembre 2019, n. 31789; 1 settembre 2022, n. 25686; 15 ottobre 2024, n. 26786).
Peraltro, si è avvertito che l’indeducibilità dei costi direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitti non colposi non discende in modo “automatico” dalla declaratoria di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione del reato, spettando al giudice tributario
valutare incidentalmente la rilevanza penale della condotta (Cass., 4 aprile 2019, n. 9419).
Quanto poi alle operazioni oggettivamente inesistenti, la giurisprudenza ha intanto chiarito che la disposizione di cui all’art. 8, comma 1, del d.l. n. 16, cit., secondo cui non sono ammessi in deduzione costi e spese di beni o prestazioni di servizi direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo, è invocabile soltanto in caso di operazioni soggettivamente inesistenti e non anche in caso di operazioni oggettivamente inesistenti. Quanto a queste ultime invece, grava sul contribuente l’onere di provare la natura fittizia dei componenti positivi del reddito che, ai sensi dell’art. 8, comma 2, del d.l. cit., siano direttamente afferenti a spese o ad altri componenti negativi relativi a beni e servizi non effettivamente scambiati o prestati e non devono pertanto concorrere alla formazione del reddito oggetto di rettifica, entro i limiti dell’ammontare non ammesso in deduzione delle predette spese o altri componenti negativi (Cass., 19 dicembre 2019, n. 33915; cfr. anche 20 aprile 2016, n. 7896; 8 ottobre 2014, n. 21189). Si è infatti ulteriormente chiarito che per le operazioni oggettivamente inesistenti non vi è simmetria, né automatismo biunivoco tra costi per acquisti inesistenti e ricavi dichiarati, ciò che giustifica l’onere della prova gravante sul contribuente in merito alla corrispondenza tra ricavi e costi attinenti a beni non effettivamente scambiati (Cass., 17 luglio 2018, n. 19000).
La breve illustrazione degli aspetti da affrontare e vagliare in materia evidenzia la complessità delle questioni e del perimetro entro cui l’interprete deve muoversi in tema di rapporto tra operazioni inesistenti, oggettivamente o soggettivamente, e deducibilità di costi o abbattimento di componenti positive.
La sentenza, in definitiva, ha fatto mostra di non tener conto dei principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità.
Il motivo va dunque accolto e la sentenza va cassata, con rinvio del giudizio alla Corte di giustizia tributaria di II grado della Emilia-Romagna, che in diversa composizione, oltre che alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità, dovrà riesaminare l’appello erariale, tenendo conto dei principi enunciati da questa Corte.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza e rinvia la causa alla Corte di giustizia tributaria di II grado della Emilia-Romagna, cui demanda, in diversa composizione, anche la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, il giorno 30 aprile 2025