Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 5321 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 5321 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 28/02/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 15221/2018 R.G. proposto da :
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME con domicilio digitale presso la propria casella di posta elettronica certificata;
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Direttore pro tempore , rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui Uffici è elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO
-controricorrente-
per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania, sezione staccata di Salerno, n. 9863/2017, depositata il 21 novembre 2017.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 15 gennaio 2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
1. -La Società contribuente proponeva ricorso avverso l’avviso di accertamento n. NUMERO_DOCUMENTO con cui l’Agenzia delle entrate di Salerno aveva recuperato a tassazione, ai sensi dell’art . 39, co. 1, d.P.R. n. 600/73, a carico della RAGIONE_SOCIALE in liquidazione, il reddito d’impresa, per l’anno d’imposta 2011, pari ad euro 116.152,00, a fronte del reddito dichiarato pari ad euro 21.152,00, con conseguente liquidazione delle maggiori imposte dovute a titolo di IRES , IVA ed IRAP più sanzioni e interessi come per legge, per l’attività esercitata di commercio all’ingrosso non specializzato. L’Ufficio dall’analisi dei dati in possesso del RAGIONE_SOCIALE e dopo aver acquisito documentazione contabile in seguito ad invito e contraddittorio preventivo, rilevava che la società:
nell’anno di imposta 2011 aveva presentato lo Studio di settore serie UG91U (previsto per l’attività di agenti, mediatori e procacciatori di prodotti finanziari) non inerente all’attività esercitata dalla Società, in relazione alla quale era previsto lo studio di settore UM83U;
aveva indebitamente dedotto costi non inerenti relativi ad operazioni oggettivamente e soggettivamente inesistenti in violazione dell’art. 109 d.P.R. 917/86 relativamente a n. 2 fatture registrate al Registro IVA acquisto al n. 123 (euro 70.000,00 oltre IVA al 20% pari a euro 14.000,00) e al n. 174 (euro 25.000,00 oltre IVA al 20% pari a euro 5.250,00), emesse dalla ditta individuale COGNOME NOME che aveva esercitato l’attività di commercio a ll ‘ingrosso di prodotti chimici per l’industria dal 24 marzo 2011 al 2 giugno 2012, data di cessazione; pertanto, in considerazione di tale circostanza, venivano chieste giustificazioni al legale rappresentante della società circa il tipo di prestazione ricevuta dal Casi e giustificazioni dal punto di vista della logica imprenditoriale dell’importo spesato. Le risposte
rese dal legale rappresentante della società nel contraddittorio del 19 maggio 2016 non giustificavano la deducibilità del costo spesato, recuperato dall’Ufficio con l’avviso di accertamento in questione ;
nel quadro VE della dichiarazione IVA presentata per l’anno 2011, al rigo VE031 – operazioni non imponibili a seguito di dichiarazioni di intento – aveva indicato un importo pari a euro 64.449,00 e tuttavia, a fronte di dette operazioni, non era stata effettuata alcuna comunicazione, in violazione delle disposizioni di cui all’art. 1, co. 1, lett. c, d.l. n. 746/83. Pertanto, l’Ufficio contestava l’omesso assoggettamento ad imposta sul valore aggiunto delle operazioni indicate come non imponibili, recuperando la relativa IVA dovuta, pari ad euro 13.370,94.
L’Ufficio si costituiva in giudizio c hiedendo il rigetto del ricorso. Con sentenza n. 2234/12/17, la Commissione tributaria provinciale di Salerno rigettava il ricorso, condannando la contribuente al pagamento delle spese di lite.
-Avverso la sentenza ha interposto appello la contribuente. L’Ufficio si costituiva in giudizio.
Con sentenza n. 9863/2017, depositata il 21 novembre 2017, la Commissione tributaria regionale della Campania, sezione staccata di Salerno, ha rigettato l’appello.
–RAGIONE_SOCIALE in liquidazione ha proposto ricorso per cassazione affidato a sei motivi.
L ‘Agenzia delle entrate si è costituita con controricorso.
-Il ricorso è stato avviato alla trattazione camerale ai sensi dell’art. 380 -bis .1 cod. proc. civ.
RAGIONI DELLA DECISIONE
-Con il primo motivo si censura la pronuncia per non aver esaminato la documentazione depositata (fatture e documenti di trasporto) da cui risultava che le prestazioni eseguite erano cessioni alle esportazioni extra-CE con pagamento dell’IVA al momento dello sdoganamento (360 n. 5 cod. proc. civ.), in relazione la terzo rilievo
sollevato dall’Ufficio sul recupero a tassazione di euro 13.370,94. La Commissione tributaria regionale, in particolare, avrebbe totalmente omesso di esaminare l’eccezione di erroneità del recupero a tassazione e soprattutto la documentazione allegata costituita dalle fatture e dai documenti di trasporto depositati sin dal primo grado di giudizio. Ove la Commissione tributaria regionale avesse esaminato in concreto le fatture e, soprattutto, la transazione effettuata tra le parti avrebbe dovuto rilevare che le stesse erano state emesse come non imponibile ex art. 8 d.P.R. n. 633/72 e avrebbe dovuto dichiarare l’illegittimità del recupero a tassazione, poiché le operazioni documentate dalle fatture erano cessione all’esportazione in territorio extra-comunitario e l’IVA era stata versata in sede di sdoganamento. Parte ricorrente evidenzia che la doglianza è proponibile anche se il ricorrente è rimasto soccombente in entrambi i gradi di merito in quanto sulla questione sollevata non vi è stata identità di giudizi poiché la questione non era stata esaminata nel primo grado di giudizio, nonostante ritualmente eccepita dalla parte.
1.1. -il motivo è inammissibile.
Le disposizioni sul ricorso per cassazione, di cui all’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv. dalla l. n. 134 del 2012, circa il vizio denunciabile ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., ed i limiti d’impugnazione della “doppia conforme”, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 348ter cod. proc. civ., si applicano anche al ricorso avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale, atteso che il giudizio di legittimità in materia tributaria, alla luce dell’art. 62 del d.lgs. n. 546 del 1992, non ha connotazioni di specialità, con la conseguenza che il comma 3-bis dell’art. 54 cit., nel prevedere che “le disposizioni di cui al presente articolo non si applicano al processo tributario di cui al d.lgs. n. 546 del 1992”, si riferisce esclusivamente alle disposizioni sull’appello, limitandosi a preservare la specialità del
giudizio tributario di merito (Cass., Sez. V, 23 ottobre 2024, n. 27547).
Nell’ipotesi di “doppia conforme”, prevista dall’art. 348ter , comma 5, cod. proc. civ., il ricorso per cassazione proposto per il motivo di cui al n. 5) dell’art. 360 cod. proc. civ. è inammissibile se non indica le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass., Sez. III, 28 febbraio 2023, n. 5947; Cass., Sez. I, 22 dicembre 2016, n. 26774).
Nel caso di specie, parte ricorrente non ha adempiuto all’onere su di lei gravante, essendosi limitata a evidenziare – con difetto di specificità in relazione alla pronuncia di prime cure – che non vi è stata identità di giudizi poiché la questione non è stata esaminata nel primo grado di giudizio.
Parimenti inammissibile risulta la doglianza sotto il profilo del vizio di omessa pronuncia, censurabile ex art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ. per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., che ricorre ove il giudice ometta completamente di adottare un qualsiasi provvedimento, anche solo implicito di accoglimento o di rigetto ma comunque indispensabile per la soluzione del caso concreto, sulla domanda o sull’eccezione sottoposta al suo esame, avendo specificamente denunciato il vizio di omessa motivazione, dopo la riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., che presuppone che un esame della questione oggetto di doglianza vi sia stato, ma sia affetto dalla totale pretermissione di uno specifico fatto storico oppure si sia tradotto nella mancanza assoluta di motivazione, nella motivazione apparente, nella motivazione perplessa o incomprensibile o nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili (Cass., Sez. V, 23 ottobre 2024, n. 27551).
-Con il secondo motivo di ricorso la decisione viene censurata per violazione dell’art. 109 del d.P.R. 917/1986 (TUIR), sussistendo tutti i presupposti normativi per considerare inerente la
prestazione resa dalla ditta COGNOME (360 n. 3 cod. proc. civ.). La Commissione tributaria avrebbe fatto proprie le argomentazioni proposte dall’Agenzia delle entrate secondo cui il costo per le prestazioni effettuate dalla ditta COGNOME devono essere considerate come non inerenti perché sostanzialmente non utili alla attività imprenditoriale e, comunque, antieconomiche. Tale impostazione si porrebbe in manifesta violazione della norma rubricata e dell’interpretazione fornita dalla Suprema Corte poiché il controllo del fisco non potrebbe spingersi fino al punto di sindacare scelte che riflettono valutazioni di strategia commerciale riservate all’imprenditore. In relazione alla prestazione ricevuta dalla ditta COGNOME nell’atto di appello veniva evidenziato che le prestazioni rese riflettono una consulenza commerciale, una ricerca di mercato e innumerevoli segnalazioni di potenziali cliente e fornitori, ricevute unitamente al trasferimento di quel Know how che ha consentito all’azienda di entrare, con successo, in un nuovo mercato in continua evoluzione e innovazione come quello delle materie plastiche semilavorate riciclate. Trattandosi di un settore fino a quel momento pressoché sconosciuto, la consulenza rappresentava un investimento necessario ai fini dello svolgimento della nuova attività che, peraltro, in quel periodo faceva intravedere ottime possibilità di profitto.
2.1. -Il motivo è infondato.
In tema di imposte sui redditi delle società, la deducibilità di costi ed oneri richiede la loro inerenza all’attività di impresa, da intendersi come necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale, escludendo quelli che si collocano in una sfera estranea ad essa, senza che si debba compiere alcuna valutazione in termini di utilità – anche solo potenziale ed indiretta secondo valutazione qualitativa e non quantitativa, la cui prova, in caso di contestazioni dell’amministrazione finanziaria, è a carico del contribuente, dovendo egli provare e documentare l’imponibile maturato e, quindi, l’esistenza e la natura del costo, i relativi fatti
giustificativi e la sua concreta destinazione alla produzione, quale atto di impresa perché in correlazione con l’attività di impresa e non ai ricavi in sé (Cass., Sez. V, 18 agosto 2022, n. 24880).
A tal fine non è sufficiente che la spesa sia stata contabilizzata dall’imprenditore, occorrendo anche che esista una documentazione di supporto da cui ricavare, oltre che l’importo, la ragione e la coerenza economica della stessa, risultando legittima, in difetto, la negazione della deducibilità di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa. (Cass., Sez. V, 8 ottobre 2014, n. 21184).
Nel caso di specie, la Commissione tributaria regionale ha evidenziato come la contribuente non abbia dato la prova che l’attività di consulenza sia stata effettivamente resa. In particolare, richiamando il contenuto dell’accertamento, ritenuto non superato dalle deduzioni di controparte, è stato evidenziato come NOME COGNOME non avesse utenze professionali, non possedesse una sede aziendale in contraddizione col notevole volume di affari realizzato in un unico esercizio finanziario, ritenendo pertanto il relativo costo privo di elementi tali da giustificare la deducibilità dal reddito d’impresa. Peraltro, la Commissione tributaria regionale esclude comunque l’inerenza del costo, affermando che dalla documentazione prodotta non sia emersa la dimostrazione dell’inerenza di acquisti alle finalità dell’impresa e della loro destinazione al raggiungimento di finalità dirette a incrementare i ricavi dell’azienda.
Se il principio di inerenza dei costi deducibili, esprimendo una correlazione in concreto tra costi ed attività d’impresa, si traduce in un giudizio di carattere qualitativo, che prescinde da considerazioni di natura quantitativa, vi è da osservare che l’antieconomicità di un costo – intesa come sproporzione tra la spesa e l’utilità che ne deriva, avuto riguardo agli ulteriori dati contabili dell’impresa, come rilevato nel caso di specie – può, tuttavia, fungere da elemento sintomatico del difetto di inerenza, e in questo caso, ove il contribuente indichi i fatti che consentano di ricondurre il costo all’attività d’impresa,
l’Amministrazione è tenuta a dimostrare, anche con il ricorso ad indizi, gli ulteriori elementi addotti in senso contrario, evidenziando, in particolare, l’inattendibilità della condotta del contribuente (Cass., Sez. V, 12 luglio 2024, n. 19232; Cass., Sez. V, 15 novembre 2022, n. 33568).
Nel caso di specie, con accertamento in fatto non sindacabile in questa sede, è stato escluso che la società abbia fornito tali elementi atti a superare il rilievo sintomatico della mancanza di inerenza.
3. -Con il terzo motivo di ricorso si contesta la decisione perché la motivazione apparirebbe perplessa, avendo ritenuto la Commissione tributaria regionale che le prestazioni rese dalla ditta COGNOME fossero, complessivamente, operazioni oggettivamente e soggettivamente inesistenti oltre che non inerenti (360 n. 4 cod. proc. civ.; nullità della decisione in relazione agli art. 111 Cost., art. 112 e 132 cod. proc. civ. nonché all’art. 36 del d.lgs. 546 del 1992). Sul punto, si evidenzia che si considerano fatture soggettivamente inesistenti quelle riferite a casi in cui la transazione commerciale (cessione di beni o erogazione di servizi) è effettivamente avvenuta, ma il fornitore reale risulta essere differente da quello che appare, e che ha emesso la fattura. Di contro, si considerano fatture oggettivamente inesistenti quelle che sono mera espressione cartolare di operazioni commerciali mai poste in essere da alcuno. Del pari in contraddizione con la non esistenza (soggettiva o oggettiva) sarebbe il giudizio di non inerenza che presuppone la giuridica esistenza, altrimenti non potrebbe essere non attinente all’attività imprenditoriale. Pertanto, la Commissione tributaria regionale avrebbe solo apparentemente motivato o motivato in modo perplesso la controversia non essendo nemmeno riuscita a valutare le ragioni del recupero se inerissero alla inesistenza oggettività o a quella soggettività o se le ragioni del recupero dovessero essere rintracciate nella non inerenza.
3.1. -Il motivo è infondato.
In seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica del rispetto del «minimo costituzionale» richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost., che viene violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero si fondi su un contrasto irriducibile tra affermazioni inconcilianti, o risulti perplessa ed obiettivamente incomprensibile, purché il vizio emerga dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (Cass., Sez. I, 3 marzo 2022, n. 7090).
Nel caso di specie non vi è una motivazione perplessa o contraddittoria poiché la pronuncia ha dato contezza delle ragioni poste alla base del rigetto dell’impugnazione pur con una motivazione non sempre lineare, ma non per questo assente o contraddittoria, né tantomeno incomprensibile -evidenziando in primis la presenza di elementi sintomatici della fittizietà dell’attività svolta da NOME COGNOME (mancanza di utenze professionali e di una sede aziendale, in contraddizione col notevole volume di affari realizzato in un unico esercizio finanziario) e ritenendo, in ogni caso, di escludere l’inerenza del relativo costo -a fronte, peraltro, di una prospettazione difensiva da parte della società non priva di contraddizioni.
-Con il quarto motivo di ricorso si censura la decisione gravata per violazione dell’art. 2727 cod. civ. per aver ritenuto legittimo l’accertamento pur in assenza di un fatto certo da porre alla base del ragionamento presuntivo (360 n. 3 cod. proc. civ.). Al riguardo, si evidenzia che la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Vallo della Lucania ha richiesto l’archiviazione per il reato di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 74/00 dell’amministratore della società
ricorrente ritenendo che: <>. La totale insussistenza di elementi certi su cui articolare il ragionamento logico presuntivo avrebbe dovuto indurre la Commissione tributaria regionale a dichiarare l’illegittimità dell’accertamento. L’art. 2727 cod. civ. prevede che il procedimento presuntivo consista sempre nell’identificazione di un fatto certo per risalire a un fatto ignoto che a sua volta costituisce in se stesso l’oggetto del thema probandum e che può giudicarsi dimostrato in quanto correlato con logica consequenzialità al primo. Viceversa, nel caso in esame la Commissione tributaria regionale avrebbe totalmente omesso di rilevare che l’avvenuto disconoscimento dei costi è avvenuto sulla base di un ragionamento logico presuntivo totalmente privo del fatto noto.
5. – Con il quinto motivo di ricorso si contesta la decisione per aver ritenuto che l’onere della prova di dimostrare l’esistenza oggettiva e soggettiva della prestazione ricadesse sul contribuente e non sull’amministrazione finanziaria (360 n. 3 cod. proc. civ.; violazione degli artt. 2697, 2727, 2728, e 2729 cod. civ. Violazione del principio di affidamento e buona fede – Ripartizione dell’onere probatorio – Illegittima inversione). Si richiama, al riguardo, la giurisprudenza della Corte di giustizia che con la sentenza del 21 giugno 2012 (cause riunite C-80/11 e C-142/11), in relazione alla questione delle fatture soggettivamente inesistenti, ha stabilito che è onere della P.A. di dimostrare che chi ha partecipato alla frode carosello era consapevole di prendere parte ad una frode o avrebbe dovuto esserlo usando ordinari mezzi a disposizione.
4.1. -I motivi, da trattarsi congiuntamente, sono in parte infondati e in parte inammissibili.
In tema di IVA, l’onere della prova relativa alla presenza di operazioni oggettivamente inesistenti è a carico dell’Amministrazione finanziaria e può essere assolto mediante presunzioni semplici, come l’assenza di una idonea struttura organizzativa (locali, mezzi, personale, utenze), mentre spetta al contribuente, ai fini della detrazione dell’IVA e della deduzione dei relativi costi, provare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate, non potendo tale onere ritenersi assolto con l’esibizione della fattura ovvero in ragione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, in quanto essi vengono di regola utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (Cass., Sez. V, 10 aprile 2024, n. 9723).
Nel caso di specie, sotto tale profilo, non vi è stata alcuna inversione dell’onere della prova, avendo la pronuncia ritenuto che dalla documentazione prodotta – come già evidenziato in precedenza – emergesse il carattere fittizio dell’attività di impresa facente capo alla ditta di COGNOME Fulvio che avrebbe reso la contestata attività di consulenza.
La Commissione tributaria regionale, tenuto conto delle caratteristiche della ditta e dell’attività di impresa svolta dalla contribuente, ha comunque escluso l’inerenza del costo complessivo di euro 95.000,00, non essendo emersa la dimostrazione della sua inerenza alle finalità di impresa e della destinazione al raggiungimento di finalità dirette a incrementare i ricavi dell’azienda.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, per dimostrare l’inerenza di un costo, sostenuto nell’esercizio dell’attività di impresa, il contribuente è tenuto a provare i fatti costitutivi del costo e a documentarli, quali l’esistenza e la natura del costo, i relativi fatti giustificativi e la sua concreta destinazione alla produzione, ponendoli in correlazione all’attività imprenditoriale
svolta (Cass., Sez. V, 18 gennaio 2025, n. 1239; Cass., Sez. V, 19 maggio 2021, n. 13571; Cass., Sez. V, 31 ottobre 2018, n. 27786; Cass., Sez. V, 17 luglio 2018, n. 18904).
Priva di specificità risulta inoltre la deduzione concernente la richiesta di archiviazione, richiamata con riferimento a una singola frase estrapolata dal provvedimento, considerato altresì che il provvedimento di archiviazione pronunciato in sede penale ex art. 408 c.p.p. non impedisce che lo stesso fatto venga diversamente definito, valutato e qualificato dal giudice tributario, poiché, a differenza della sentenza pronunciata all’esito del dibattimento, detto decreto ha per presupposto la mancanza di un processo e non dà luogo ad alcuna preclusione, non rientrando nemmeno tra i provvedimenti dotati di autorità di cosa giudicata giusta il disposto dell’art. 654 cod. proc. pen. (Cass., Sez. V, 4 agosto 2020, n. 16649; Cass., Sez. V, 13 aprile 2007, n. 8888).
6. -Con il sesto motivo parte ricorrente si duole della decisione gravata perché la Commissione tributaria regionale ha ritenuto legittimo il disconoscimento del costo anche ai fini delle imposte sul reddito, pur in presenza di pagamenti effettuati mediante il circuito bancario (360 n. 5 cod. proc. civ.). La Commissione tributaria regionale avrebbe totalmente omesso di esaminare che gli unici fatti certi acquisiti agli atti del processo erano costituiti dall’avvenuta esecuzione dei pagamenti effettuati dalla ricorrente in favore della ditta COGNOME per le fatture emesse e disconosciute. Difatti, agli atti del processo era stata depositata copiosa documentazione bancaria dalla quale risultava che la ricorrente aveva interamente provveduto ad effettuare il pagamento delle fatture ritenute insistenti. L’avvenuta esecuzione dei pagamento costituirebbe un fatto certo e rilevante ai fini della decisione che se esaminato avrebbe potuto determinare un diverso esito della controversia soprattutto sotto il profilo della inesistenza oggettiva.
6.1. -Il motivo è inammissibile.
Nell’ipotesi di “doppia conforme” ex art. 348 ter , comma 5, cod. proc. civ., è onere del ricorrente indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e del rigetto dell’appello, dimostrando che sono tra loro diverse e detto onere non viene meno in caso di successione nel diritto controverso tra primo e secondo grado, giacché il sopravvenuto mutamento del soggetto titolare della posizione sostanziale dedotta in giudizio non implica necessariamente la diversità tra le ragioni di fatto alla base della sentenza di primo grado e quelle della conferma in grado di appello (Cass., Sez. III, 20 settembre 2023, n. 26934).
Nel caso di specie, parte ricorrente non ha dedotto alcuna diversità tra le pronunce dei due gradi di merito.
7. -Il ricorso va dunque rigettato.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 5.900,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater d.P.R. n. 115 del 2002, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 -bis, del D.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 15 gennaio 2025.