Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 8704 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 8704 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 02/04/2025
ORDINANZA
Sul ricorso n. 22859-2023, proposto da:
RAGIONE_SOCIALE , cf NUMERO_DOCUMENTO, in persona del Direttore p.t., elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende –
Ricorrente
CONTRO
RAGIONE_SOCIALE p.i. P_IVA, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME presso il cui indirizzo pec EMAIL elettivamente domicilia –
Controricorrente
Avverso la sentenza n. 1179/05/2023 della Corte di giustizia tributaria di II grado della Puglia, depositata il 20.04.2023;
udita la relazione della causa svolta nell’ adunanza camerale del 15 gennaio 2025 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Dalla sentenza emerge che l’Agenzia delle entrate notificò alla RAGIONE_SOCIALE un avviso d’accertamento, relativo all’anno d’imposta 2011, per il
Accertamento -Costi di sponsorizzazione ASD -Inerenza ed esistenza Configurabilità
recupero di € 4.000,00, che l’ufficio assumeva indebitamente detratt o dalla società ai fini Iva.
Nello specifico si assumeva che il predetto importo, corrispondente all’iva applicata su lla fattura di € 20.000,00 emessa dalla ASD Real Monopoli per spese di pubblicità sostenute dalla controricorrente, non fosse detraibile, trattandosi di costi ritenuti privi di inerenza e relativi ad operazioni inesistenti.
La società impugnò l’avviso d’accertamento dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Bari, che con sentenza n. 2839/01/2017 respinse le ragioni della contribuente. L’appello proposto dalla soccombente fu invece accolto dalla Corte di giustizia tributaria di II grado della Puglia con sentenza n. 1179/05/2023 . Il giudice d’appello ha ritenuto che per un verso doveva escludersi il difetto di inerenza dei costi di sponsorizzazione sostenuti dalla RAGIONE_SOCIALE, tenendo conto che tali costi non potevano essere valutati in termini quantitativi, di mera antieconomicità. Per altro verso ha ritenuto reali tali costi, non potendosi condividere le conclusioni del giudice di primo grado, mancando riscontri, secondo i principi applicabili in tema di onere della prova, della inesistenza delle operazioni, ed evidenziando inoltre come ai sensi dell’art. 90, comma 8 della l. 289 del 2002 le spese sostenute per sponsorizzazioni affidate ad associazioni sportive dilettantistiche sono assistite da una presunzione legale assoluta, purché contenute entro un certo limite di spesa, in questo caso ampiamente rispettato.
L’Agenzia delle entrate ha censurato la decisione con due motivi, chiedendone la cassazione, cui ha resistito la società con controricorso, ulteriormente illustrato da memoria.
N ell’adunanza camerale del 15 gennaio 2025 la causa è stata discussa e decisa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo l’Agenzia delle entrate ha denunciato la «Violazione falsa applicazione dell’articolo 109, comma 1 e comma 5, del testo unico delle imposte sui redditi (d’ora in poi, TUIR) approvato con decreto del Presidente della Repubblica del 22 dicembre 1986, n. 917, nonché degli artt. 19, comma 7, 21 e 54, comma 2, del d.P.R. n. 633/1972, in combinato disposto con gli artt. 2697 e 2729 c.c., in relazione all’articolo 360, primo comma, n. 3), del codice di procedura civile»;
con il secondo motivo ha lamentato la «Violazione o falsa applicazione dell’art. 90, comma 8, legge 27 dicembre 2002 n. 289, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3), del codice di procedura civile».
L’Ufficio ha sostenuto la necessità della valutazione dell ‘ inerenza dei costi, senza che ciò implichi una sostituzione nelle scelte dell’imprenditore, potendo contestare l’incongruenza e antieconomicità della spesa, indici di carenza di inerenza. Altrettanto critica è stata la difesa dell’ufficio in ordine alla contestazione di operazioni oggettivamente inesistenti, adombrata nell’avviso d’accertamento e negata dal giudice d’appello, che non avrebbe tenuto conto delle ipotesi di sovrafatturazione, nel caso de quo avvalorata dall’insieme di elementi afferenti la condotta del sig. COGNOME dominus di varie associazioni sportive, come già accertati in una diversa controversia, definitasi dinanzi a questa Corte con decisione favorevole all’erario (sentenza n. 30718/2021) e che traeva origine dalla medesima vicenda fiscale. Ha quindi messo in evidenza le peculiarità dell ‘ associazione sportiva Real Monopoli, società che non aveva effettuato campionati di calcio di eccellenza Puglia nell’anno 2010/2011, né in quello precedente, così che la sua regolare iscrizione alla FIGC (CONI) non poteva costituire da sola un elemento significativo per provare l’effettività e la certezza dell’operazione di sponsorizzazione, in quanto un contratto di sponsorizzazione doveva richiedere quanto meno la partecipazione ad un campionato di eccellenza al fine di dare senso ad un costo per pubblicità mediante sponsorizzazione. Il giudice regionale aveva dunque errato sia nell’ignorare gli oneri probatori, come i principi posti a presidio della verifica dell’inerenza in materia.
L’ Ufficio ha inoltre criticato la pronuncia impugnata anche sotto il diverso aspetto della interpretazione dell e regole contenute nell’art. 90, comma 8 della l. n. 289 del 2002, laddove si afferma che « le spese di pubblicità sostenute per la sponsorizzazione di associazioni sportive dilettantistiche sono sempre deducibili nel limite dell’importo di cui all’articolo 90, comma 8, legge 298/2002. Ciò in quanto ricorre una presunzione legale assoluta di inerenza delle stesse ». Secondo l’ Amministrazione finanziaria il giudice d’appello non avrebbe considerato che il motivo principale del recupero impositivo era fondato sulla contestazione della emissione di fatture per operazioni ritenute inesistenti o comunque per costi indeducibili/indetraibili
perché non documentati e non inerenti per le ragioni evidenziate negli atti impositivi.
I motivi vanno trattati congiuntamente perché tra loro connessi e trovano fondamento nei termini e limiti appresso illustrati.
Deve innanzitutto avvertirsi come in tema di inerenza si è rilevato che «Gli approdi interpretativi sul concetto di inerenza hanno avvertito l’assenza di una nozione giuridica. Come evidenziato in dottrina, si tratta piuttosto di un principio per taluni aspetti immanente nella Costituzione, un “corollario” del concetto di reddito, ma tuttavia oggetto di dibattito ancora aperto, per il quale il richiamo all’art. 109, comma 5 del d.P.R. n. 917 del 1986 rappresenta un mero “contenitore”, in cui è semplicemente prevista l’indeducibilità dei costi che dovessero risultare estranei all’attività svolta. Nella giurisprudenza, secondo l’interpretazione tradizionale, esso trova allocazione nell’art. 109, comma 5, del d.P.R. n. 917 del 1986, e in particolare è ricondotto al rapporto tra costo ed impresa. È stato in particolare affermato che, con riguardo alla determinazione del reddito d’impresa, l’inerenza all’attività d’impresa delle singole spese e dei costi affrontati, indispensabile per ottenerne la deduzione ex art. 109 (già 75) del d.P.R. n. 917 del 1986, va definita come una relazione tra due concetti – la spesa (o il costo) e l’impresa – sicché il costo (o la spesa) assume rilevanza ai fini della qualificazione della base imponibile non tanto per la sua esplicita e diretta connessione ad una precisa componente di reddito, bensì in virtù della sua correlazione con un’attività potenzialmente idonea a produrre utili (cfr. Cass, 11 agosto 2017, n. 20049; 9 maggio 2017, n. 11241; 27 febbraio 2015, n. 4041). Anche l’ampiezza dello spettro entro cui riconoscere un rapporto di inerenza è stata scrutinata dalla giurisprudenza, sensibile a non ridurre la relazione entro criteri meramente formali, ampliandone invece la portata mediante la valorizzazione del rapporto e delle ricadute concrete tra spesa e coerenza economica con l’attività di impresa. Per un verso dunque si è negato che il rapporto trovi conforto nella mera contabilizzazione del costo (ex multis, Cass., 8 ottobre 2014, n. 21184) e che al contrario incomba sul contribuente l’onere di allegazione della documentazione di supporto da cui ricavare l’importo, nonché la ragione e la coerenza economica della spesa al fine della prova dell’inerenza (anche qui, ex multis, Cass., 26 maggio 2017, n. 13300; 30 maggio 2018, n. 13596; con specifico riferimento all’Iva
cfr. 27 settembre 2013, n. 22130; 7 giugno 2018, n. 14858). Sotto altro aspetto tuttavia è stato opportunamente e condivisibilmente avvertito come ai fini della deducibilità dei costi per la determinazione del reddito d’impresa non è sufficiente che l’attività svolta rientri tra quelle previste nello statuto sociale, circostanza che ha un valore meramente indiziario circa la sua inerenza all’effettivo esercizio dell’impresa, incombendo sul contribuente l’onere di dimostrare che un’operazione, anche apparentemente isolata e non diretta al mercato, sia inserita in una specifica attività imprenditoriale e destinata, almeno in prospettiva, a generare un lucro in proprio favore (Cass., 25 febbraio 2015, n. 3746). Il che introduce un criterio interpretativo non solo utilizzabile per negare inerenza a spese finalizzate esclusivamente al conseguimento di vantaggi fiscali (come per la fattispecie analizzata nella pronuncia da ultimo citata), ma anche, al contrario, per valorizzare spese che concretamente, in prospettive di ampia visione, siano utili al progetto imprenditoriale, pur rivelando -ma solo in apparenza- un rapporto debole tra costo e attività d’impresa. Tale ultimo rilievo torna utile quando, con un più recente orientamento, la Corte, abbandonando il tradizionale criterio del rapporto tra costo e requisiti di congruità e vantaggiosità dello stesso e prendendo le distanze dall’art. 109 del d.P.R. n. 917 del 1986 quale fondamento del concetto di inerenza, ha affermato che, in tema di imposte sui redditi delle società, il principio dell’inerenza dei costi deducibili si ricava dalla nozione di reddito d’impresa, non invece dall’art. 109 comma 5 (già 75) del d.P.R. appena richiamato, riguardante il diverso principio della correlazione tra costi deducibili e ricavi tassabili. Si è in particolare sostenuto che l’inerenza deve esprimere la necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale, escludendo quelli che si collocano in una sfera estranea ad essa, senza necessità di compiere valutazioni in termini di utilità, anche solo potenziale o indiretta. È infatti configurabile come costo anche ciò che non reca alcun vantaggio economico, né deve assumere rilevanza la congruità delle spese, perché il giudizio sull’inerenza è di carattere qualitativo e non quantitativo (Cass., 11 gennaio 2018, n. 450). L’impostazione da ultimo riferita assume tuttavia solo apparentemente una posizione di rottura con il passato, perché -ad una piana lettura- è meno lontana di quanto sembri dalla tradizionale interpretazione. Infatti, quando si consideri che per un verso viene valorizzato il rapporto, caldeggiato da
autorevole dottrina, tra spesa e sua riferibilità, immediata o mediata, alla produzione del reddito (con esclusione dunque di quelle spese afferenti la cd. disposizione del reddito), e per altro verso si instaura il rapporto tra spesa e reddito di impresa, l’abbandono dei requisiti della vantaggiosità e congruità del costo, intesi evidentemente nella loro esclusività, non vuol significare che siano del tutto estranei al giudizio di valore, cui resta comunque sottoposta la spesa al fine del riconoscimento della sua inerenza, e dunque dei presupposti per la sua deducibilità. Qualunque sia il concetto di impresa, anche nelle teorie più socialmente orientate a svilirne finalità di utile economico, e, per le società, lo scopo del conseguimento di utili (ai fini del fisco elemento di manifestazione di ricchezza e dunque presupposto stesso della tassazione), e qualunque finalità voglia perseguirsi con l’impresa, non può certo negarsi l’esigenza di applicazione di buone regole di gestione dell’attività, che contrastano assiomaticamente con spese svantaggiose, incongrue e sproporzionate -tali ovviamente non in rapporto all’esito del costo ma secondo un giudizio prognostico a monte, dovendosi altrimenti negare il rischio d’impresa-. Ciò perché è agevole ipotizzare che spese incongrue o svantaggiose conducano alla mala gestione dell’impresa -e da ultimo alla sua crisi e cessazione-, sicché i criteri, apparentemente estromessi, tornano ad assumere indirettamente rilevanza, come d’altronde evidenzia quello stesso innovativo orientamento, che infatti nella parte conclusiva dello sviluppo argomentativo afferma che ‘ l’antieconomicità e l’incongruità della spesa sono indici rivelativi della mancanza di inerenza, pur non identificandosi con essa ‘ . La convergenza tra due percorsi interpretativi, in apparente contraddizione, trova conferma anche considerando il tradizionale orientamento interpretativo del concetto di inerenza, atteso che la valorizzazione della congruenza e vantaggiosità del costo, rapportato già prima all’impresa, a ben vedere, implicava un giudizio di valore qualitativo della stessa spesa. Ciò, in maniera più o meno esplicitata, viene ribadito anche nelle decisioni più recenti di questa Corte (Cass., 17 gennaio 2020, n. 902; 21 novembre 2019, n. 30366; 23 maggio 2018, n. 12738; 17 luglio 2018, n. 18904). E ciò, infine, è quanto si evince dalla più recente giurisprudenza euro-unitaria (cfr. la recente pronuncia della Corte di Giustizia 25 novembre 2021, C-334/2020, RAGIONE_SOCIALE). Quello che
deve comunque esigersi è la prova dell’utilità del servizio remunerato» (Così Cass., 28 gennaio 2022, n. 2597, e giurisprudenza in essa richiamata).
Quanto ai principi elaborati in tema di operazioni oggettivamente inesistenti, è qui sufficiente ribadire, secondo un orientamento ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità, che con riguardo alle operazioni oggettivamente inesistenti l’Amministrazione finanziaria, che contesti al contribuente l’indebita detrazione, ha l’onere di provare che l’operazione non è mai stata posta in essere, indicandone i relativi elementi, anche in forma indiziaria o presuntiva, ma non anche quello di dimostrare la mala fede del contribuente, atteso che, una volta accertata l’assenza dell’operazione, non è configurabile la buona fede di quest’ultimo, che sa certamente se ed in quale misura ha effettivamente ricevuto il bene o la prestazione per la quale ha versato il corrispettivo. Una volta che l’Amministrazione finanziaria dimostri, anche mediante presunzioni semplici, l’oggettiva inesistenza delle operazioni, spetta al contribuente, ai fini della detrazione dell’IVA, offrire la controprova dell’effettiva esistenza delle operazioni contestate, non potendo tale onere ritenersi assolto con l’esibizione della fattura, ovvero in ragione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, in quanto essi vengono di regola utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (Cass., 13 marzo 2013, n. 6229; 14 settembre 2016, n. 18118; 19 ottobre 2018, n. 26453; 18 ottobre 2021, n. 28628). Ciò ovviamente vale anche per le ipotesi nelle quali l’operazione sia parzialmente inesistente, come nelle sovrafatturazioni.
Infine, sulle modalità di utilizzo e valorizzazione delle prove indiziarie, delle quali cui il primo motivo di ricorso se ne è denunciato il malgoverno, compete alla Corte di cassazione, nell’esercizio della funzione nomofilattica, il controllo della corretta applicazione dei principi contenuti nell’art. 2729 cod. civ. alla fattispecie concreta, poiché se è devoluto al giudice di merito la valutazione della ricorrenza dei requisiti enucleabili dagli artt. 2727 e 2729 cod. civ., per valorizzare gli elementi di fatto quale fonte di presunzione, tale giudizio è soggetto al controllo di legittimità se risulti che, nel violare i criteri giuridici in tema di formazione della prova critica, il giudice non abbia fatto buon uso del materiale indiziario disponibile, negando o attribuendo valore a singoli elementi, senza una valutazione di sintesi (Cass., 26 gennaio 2007,
n. 1715; 5 maggio 2017, n. 10973; 15 novembre 2021, n. 34248; cfr. anche, 13 ottobre 2005, n. 19984).
Perimetrato l’alveo della disciplina applicabile al caso di specie, ne discende intanto che secondo il delineato principio di inerenza, che implica un concetto di qualità entro cui l’amministrazione finanziaria deve collocare i propri accertamenti-, deve escludersi che una valutazione di antieconomicità o di non evidente utilità del costo sostenuto, specie quando si tratti di costi per pubblicità, quali appunto quelli per sponsorizzazione, possano essere immediatamente denunciati per un difetto di inerenza. Il mero meccanismo traspositivo quantitativo ‘spesa/impresa’, ossia una valutazione del quanto si sia maggiormente ricavato da un costo per pubblicità è un criterio di giudizio del tutto superato alla luce della elaborazione giurisprudenziale e dottrinale.
Sotto tale profilo, dunque, le ragioni sulle quali l’Amministrazione finanziaria indugia nella trattazione del primo motivo, non colgono nel segno. Sennonché nello stesso motivo la difesa dell’ufficio non si sofferma affatto sul solo suddetto aspetto, perché pone in discussione il reale sostentamento dei costi, quanto meno sotto il profilo della sovrafatturazione.
A tal fine adduce degli elementi indiziari, in particolare evidenzia che la ASD Real Monopoli, al di là della formale (e comunque indispensabile) iscrizione alla FGCI, non abbia partecipato ad alcun campionato di eccellenza in quegli anni (2010 e 2011, quest’ultimo oggetto dell’accertamento de quo ), non abbia dato dimostrazione delle modalità con cui la società dilettantistica aveva pubblicizzato la RAGIONE_SOCIALE, rilevando che l’unico riscontro sarebbe stato la foto di uno striscione pubblicitario tuttavia non contestualizzato, ossia non collocato in campi di calcio nel corso dello svolgimento di competizioni sportive, efficaci nel richiamare pubblico così dando visibilità alla sponsorizzatrice; inoltre non risultava aver versato l’iva relativa a quella fattura. Quello che occorreva vagliare, dunque, era, adeguatamente, il quadro indiziario e di ciò si duole l’amministrazione finanziaria.
Peraltro, ai fini dell’utilizzo degli indizi, mentre la gravità, precisione e concordanza degli stessi permette di acquisire una prova presuntiva, che, anche sola, è sufficiente nel processo tributario a sostenere i fatti fiscalmente rilevanti accertati dalla amministrazione (Cass., 8 aprile 2009, n. 8484; 15 gennaio 2014, n. 656; 26 settembre 2018, n. 23153; 28 aprile 2021, n.
11162), quando manca tale convergenza qualificante è necessario disporre di ulteriori elementi per la costituzione della prova, ancorché indiziaria.
Sulle prove indiziarie la giurisprudenza di legittimità ha peraltro tracciato il corretto procedimento logico che il giudice di merito deve seguire nella valutazione degli indizi, in particolare affermando che la gravità, precisione e concordanza richiesti dalla legge vanno ricavati dal loro complessivo esame, in un giudizio globale e non atomistico di essi (ciascuno dei quali può essere insufficiente), ancorché preceduto dalla considerazione di ognuno per individuare quelli significativi, perché è necessaria la loro collocazione in un contesto articolato, nel quale un indizio rafforza e ad un tempo trae vigore dall’altro in vicendevole completamento ( ex multis , cfr. Cass., 16 maggio 2017, n. 12002; 12 aprile 2018, n. 9059; 25 ottobre 2019, n. 27410).
Quello che rileva, in base a deduzioni logiche di ragionevole probabilità, non necessariamente certe, è che dalla valutazione complessiva emerga la sufficienza degli indizi a supportare la presunzione semplice di fondatezza della pretesa, salvo l’ampio diritto de l contribuente a fornire la prova contraria.
Quanto poi al richiamo dell’art. 90 della l. 289 del 2002 -il cui comma 8 ( ratione temporis vigente) prescrive che «Il corrispettivo in denaro o in natura in favore di società, associazioni sportive dilettantistiche e fondazioni costituite da istituzioni scolastiche, nonché di associazioni sportive scolastiche che svolgono attività nei settori giovanili riconosciuta dalle Federazioni sportive nazionali o da enti di promozione sportiva costituisce, per il soggetto erogante, fino ad un importo annuo complessivamente non superiore a 200.000 euro, spesa di pubblicità, volta alla promozione dell’immagine o dei prodotti del soggetto erogante mediante una specifica attività del beneficiario, ai sensi dell’articolo 74, comma 2, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917»-, è certo corretto affermare che la suddetta norma sancisce un riconoscimento implicito della inerenza dei costi indirizzati a beneficio delle società dilettantistiche (e le altre in essa evocate).
In tema di imposte sui redditi, si è infatti affermato che la presunzione legale di inerenza/deducibilità delle spese di sponsorizzazione di società sportive dilettantistiche, sancita dall’art. 90, comma 8, della l. n. 289 del 2002, opera in virtù della sola ricorrenza dei presupposti previsti dalla
norma, senza che rilevino, pertanto, requisiti ulteriori (cfr. Cass. 6 aprile 2017, n. 8981).
È stato però anche puntualizzato che sulle sponsorizzazioni, se il regime di cui all’art. 90, comma 8, della l. n. 289 del 2002 fissa una presunzione assoluta di inerenza e congruità per quelle rese a favore di imprese sportive dilettantistiche, ciò afferisce a quelle ipotesi nelle quali i corrispettivi erogati siano destinati alla promozione dell’immagine o dei prodotti del soggetto erogante e sia riscontrata, a fronte dell’erogazione, una specifica attività del beneficiario della medesima, consentendo, di conseguenza, di ritenere integralmente deducibili tali spese dal reddito del soggetto sponsor (Cass., 14 febbraio 2023, n. 4612).
Ciò implica, allora, che l’implicita inerenza dei costi sostenuti per sponsorizzazioni di società dilettantistiche richieda, a monte, la certezza probatoria che queste ultime abbiano a loro volta erogato la prestazione pubblicitaria a favore dello sponsor.
Ebbene, a fronte delle specifiche difese dell’Agenzia delle entrate, che sul punto ha evidenziato la carenza o l’assenza di elementi da cui desumere la prestazione pubblicitaria concretamente eseguita dalla ASD Real Monopoli, la sentenza del giudice d’appello si è limitata a richiamare il contratto pubblicitario intercorso tra le parti, ossia un elemento puramente formale e di consueta allegazione nelle operazioni oggettivamente inesistenti, nonché le foto dello striscione pubblicitario, senza nulla aggiungere sulla sua contestualizzazione in eventi agonistici che ne dimostrassero il proficuo utilizzo dinanzi ad un pubblico.
Con ciò ha reso una risposta completamente disallineata sia rispetto ai criteri di riparto dell’onere della prova in materia di operazioni inesistenti (o parzialmente inesistenti), nonché rispetto al concetto stesso di operazione oggettivamente inesistente, e cosa debba intendersi per essa (nel caso concreto confusa evidentemente, sul piano delle regole probatorie, con le operazioni soggettivamente inesistenti).
La risposta resa dalla Corte tributaria di II grado è altrettanto disallineata rispetto ai criteri di valutazione della prova indiziaria, del tutto svuotata nel caso concreto della capacità di vaglio analitico dei singoli indizi e poi della valutazione di sintesi.
I motivi, in definitiva, vanno accolti nei termini e secondo i principi di diritto enunciati in motivazione.
La sentenza va per l’effetto cassata e la causa va rimessa alla Corte di giustizia tributaria di II grado della Puglia, perché in diversa composizione, oltre che liquidare le spese del giudizio di legittimità, proceda alla rivalutazione del ricorso d’appello dell’ufficio, tenendo conto dei principi di diritto dispensati in motivazione.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza e rinvia la causa alla Corte di giustizia tributaria di II grado della Puglia, cui, in diversa composizione, demanda anche la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il giorno 15 gennaio 2025