Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 5905 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 5 Num. 5905 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 05/03/2025
Oggetto: Indeducibilità dei costi derivanti da attività illecita Presupposti – Accertamento incidentale del reato Cognizione del giudice tributario – Limiti.
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 11935/2016 R.G. proposto da
RAGIONE_SOCIALE (già RAGIONE_SOCIALE), COGNOME, COGNOME, COGNOME, COGNOME NOME COGNOME, elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso lo studio de ll’avv. NOME COGNOME che li rappresenta e difende, unitamente e disgiuntamente agli avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME del Foro di Firenze, in virtù di procura speciale in calce al ricorso.
-ricorrenti –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Direttore pro-tempore, rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato , presso i cui uffici è domiciliata in Roma, alla INDIRIZZO
– controricorrente –
avverso la sentenza della C.t.r. di Firenze, n. 1928/2015, depositata il 3.11.2015 e non notificata.
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 23.1.2025 dal Consigliere NOME COGNOME
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’integrale estinzione del giudizio ex art. 1, commi 197 e 198, della l. n. 197 del 2022 ed ex art. 5 della l. n. 130 del 2022 nei confronti di NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME Quanto agli altri ricorrenti, ha chiesto il rigetto del primo, secondo motivo e terzo motivo, l’accoglimento del quarto, con assorbimento del quinto, e l’accoglimento del sesto, cassando la sentenza impugnata relativamente alle sanzioni.
Udite le difese delle parti.
RITENUTO CHE:
Con separati ricorsi proposti alla Commissione tributaria provinciale di Lucca, la RAGIONE_SOCIALE (ora RAGIONE_SOCIALE in liquidazione), COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME impugnavano gli avvisi di accertamento, con cui l’Agenzia delle entrate aveva contestato il mancato pagamento di ires, irap e iva, a ll’esito di una verifica fiscale nei confronti della suddetta società, cui era seguita l’acquisizione della documentazione bancaria dei soci. Trattandosi di società di capitali con ristretta base partecipativa, i maggiori ricavi avevano dato luogo ad una presunzione di distribuzione di maggiori utili ai soci.
Riuniti i giudizi in primo grado, l’impugnazione veniva accolta limitatamente alla contestazione delle fatture soggettivamente inesistenti.
Tale decisione veniva quasi integralmente confermata dalla C.t.r., che , dopo aver ritenuto tempestivo l’appello proposto dalla società RAGIONE_SOCIALE in liquidazione, ne rilevava l’infondatezza,
affermando che non era stato superato il limite di durata della verifica previsto dall’art. 12, comma 5, della l. n. 212 del 2000; che comunque l’eventuale superamento non determinava la nullità della verifica e dell’accertamento; che non risultava adeguatamente documentata la provenienza da vincite al gioco del maggiore reddito riscontrato; che era legittimo il recupero a tassazione degli assegni rinvenuti presso l’abitazione di Ardenti NOME (di cui 16 occultati nella lavatrice) e che non vi era prova della duplicazione dei costi addebitati dalla RAGIONE_SOCIALE; che era corretto il recupero delle somme derivanti da operazioni di riacquisto di vetture vendute poco tempo prima; che non erano state documentate le asserite spese per pubblicità commerciale e le fatture di acquisto o vendita di automobili rinvenute in un terreno sito nelle vicinanze della sede della società.
Avverso tale decisione proponevano ricorso per cassazione i contribuenti, sulla base di sei motivi. L ‘Agenzia delle entrate resisteva con controricorso, cui replicavano i ricorrenti con memorie.
Depositava memoria il Pubblico Ministero, nella persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che concludeva chiedendo l’estinzione del giudizio nei confronti di NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME nonché, per i restanti ricorrenti, l’accoglimento del ricorso, limitatamente al quarto ed al sesto motivo, con rigetto del primo, secondo e terzo e assorbimento del quinto.
CONSIDERATO CHE:
Con il primo motivo di doglianza, i contribuenti deducono la violazione e falsa applicazione dell’art. 3 2 del d.P.R. n. 600 del 1973, nonché dell’art. 51 del d.P.R. n. 633 del 1972 , in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., avendo la C.t.r. ritenuto non superata la prova liberatoria, sull’assunto della mancata dimostrazione delle provviste utilizzate per effettuare le giocate vincenti, laddove invece, nel meccanismo di presunzione legale contemplato dai citati artt. 32
e 51, ciò che rilevava era la dimostrazione dell’estraneità dei versamenti in contesa all’attività d’impresa della società.
Con il secondo motivo di doglianza, i contribuenti deducono la violazione e falsa applicazione dell’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 e dell’art. 51 del d.P.R. n. 633 del 1972, nonché degli artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., non avendo la C.t.r. tenuto conto che, sin dagli avvisi di accertamento, era pacifico tra le parti che i versamenti in discussione (almeno per l’importo di € 1.400.000,00) erano costituiti d a incassi di assegni emessi da ricevitorie di gioco in favore di NOME NOME e che era del pari incontestata l’estraneità delle ridette ricevitorie all’attività della RAGIONE_SOCIALE.p.a..
Con il terzo motivo di doglianza, i contribuenti deducono la violazione o falsa applicazione dell’art. 109, comma 5, del d.P.R. n. 917 del 1986, nonché dell’art. 19 del d.P.R. n. 633 del 1972 e dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., avendo la C.t.r. erroneamente fatto gravare sulla contribuente l’onere di documentare l’inerenza all’attività sociale dei costi di marketing addebitati dalla BMW Italia s.p.a., laddove invece essi erano costi intrinsecamente inerenti e necessitati, essendo la RAGIONE_SOCIALE concessionaria di rivendita di veicoli BMW e MINI.
Con il quarto motivo di doglianza, i contribuenti deducono la violazione o falsa applicazione dell’art. 14, comma 4 -bis, della l. n. 537 del 1993 e dell’art. 8 del d.l. n. 16 del 2012, nonché dell’art. 7 della l. 212 del 2000 e dell’art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973 , in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., non avendo la C.t.r. affrontato, implicitamente rigettando, la questione della illegittimità del recupero relativo alla indeducibilità dei costi cd. da reato, alla luce dello ius superveniens di cui al d.l. n. 16 del 2012, secondo il quale il giudice tributario è tenuto dapprima ad accertare l’esercizio dell’azione penale da parte del P.M. (non potendo qualificare direttamente il fatto come delitto non colposo) e, solo in caso di esito
positivo verificare altresì il parametro del diretto utilizzo dei costi per il compimento del delitto.
Con il quinto motivo di doglianza, la contribuente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., ove il mancato esame della questione dedotta con il motivo precedente non venisse ricondotto ad un rigetto implicito, ma ad un’omissione di pronuncia .
Con il sesto motivo di doglianza, i contribuenti invocano l’applicazione del principio del favor rei per le sanzioni irrogate ex art. 3 del d.lgs. n. 472 del 1997, in considerazione dello ius superveniens costituito dalle disposizioni di cui al d.lgs. n. 158 del 2015, poiché, dopo la pubblicazione della sentenza impugnata, il legislatore è intervenuto a riordinare il sistema delle sanzioni tributarie, amministrative e penali, rideterminando i limiti sanzionatori minimi e massimi previsti anche per gli illeciti contestati nella presente sede.
Con il controricorso, l’Agenzia delle entrate conclude per il rigetto dei primi cinque motivi di doglianza, rimettendosi alla Corte per la valutazione del sesto.
Il Pubblico Ministero conclude per il rigetto dei primi tre motivi, poiché in linea con la ripartizione dell’onere della prova. Ritiene, invece, fondati il terzo ed il sesto motivo di doglianza, con assorbimento del quinto.
Con la prima memoria, la parte ricorrente deduce che, medio tempore , è intervenuto il d.lgs. n. 87 del 2024, che ha dettato una disciplina sanzionatoria ancora più favorevole, riducendo ulteriormente le sanzioni . La norma transitoria contenuta all’art. 5 del citato d.lgs. limita l’applicazione di tali riduzioni alle violazioni commesse a partire dal 1° settembre 2024. Di conseguenza, la parte ricorrente formula istanza per la rimessione della questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 del d.lgs. n. 87/2024, in relazione agli artt. 3, 25 e 27 Cost. e 117 Cost. in relazione alla giurisprudenza
europea che equipara le sanzioni amministrative tributarie a quelle penali secondo i criteri COGNOME (Corte EDU, Grande Camera, sent. 8 giugno 1976, COGNOME e altri c. Paesi Bassi).
Con una seconda memoria, la parte ricorrente dà atto che tutte le controversie del presente giudizio promosse da NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME risultano definite ex art. 1, commi 186 e ss. della l. n. 197 del 2022 ovvero ex art. 5 della l. n. 130 del 2022, depositando la relativa documentazione.
10. Sembra opportuno ripercorrere, in estrema sintesi, le vicende che hanno originato il presente giudizio. All’esito di una verifica condotta dalla Guardia di finanza, venivano formulati a carico della RAGIONE_SOCIALE (ora RAGIONE_SOCIALE in liquidazione) molteplici rilievi, tra cui, in particolare, l ‘indebita deduzione di costi privi dei requisiti di inerenza ex art. 109 del tuir; l’indebita deduzione di costi provenienti da attività illecita e ingiustificate movimentazioni bancarie sui conti della società, dei soci e dell’amministratore, tutti appartenenti alla medesima famiglia. Il primo rilievo atteneva ad una voce presente nelle fatture di vendita delle vetture BMW e MINI ed indicata come ‘Recupero spese’, che era stata portata in deduzione , ma che era stata ritenuta generica dai verbalizzanti e, quindi, priva del requisito di inerenza e certezza. Il secondo rilievo scaturiva dall’esame di alcune operazioni con cui la RAGIONE_SOCIALE aveva p rima venduto e poi riacquistato dai medesimi soggetti delle autovetture ad un prezzo generalmente inferiore a quello di cessione. La Guardia di finanza riteneva, dunque, che la differenza tra le due transazioni commerciali costituisse un compenso per la società contribuente, per l’attività di riciclaggio di somme di provenienza illecita. Infine, il terzo rilievo era collegato al versamento di assegni circolari o bancari non trasferibili, emessi da ricevitorie di gioco a favore di NOME NOME.
11. Ciò premesso, va preliminarmente evidenziato che tutte le parti concordano nel chiedere la declaratoria di estinzione del
presente giudizio ex art. 1, commi 197 e 198 della l. n. 197 del 2022 ed ex art. 5 della l. n. 130 del 2022, in relazione agli avvisi di accertamento nn. T8K010400102/2011, T8K010400103/2011, TBK010400110/2011, T8K010400122/2011, T8K010400105/2011 e T8K010400119/2011, riferiti alle posizioni delle ricorrenti NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME.
Va, pertanto, dichiarata l’estinzione del giudizio tra le ricorrenti NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME e l’Agenzia delle entrate, attesa l’intervenuta definizione agevolata della lite, come da documentazione ritualmente versata in atti.
Quanto ai restanti ricorrenti, i primi due motivi di doglianza, relativi ai presupposti di operatività della presunzione legale ex art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 e della conseguente ripartizione degli oneri probatori, possono essere trattati congiuntamente per evidenti profili di connessione e sono infondati.
Con riferimento agli accertamenti per IVA e per imposte dirette sui redditi di società di persone a ristretta base familiare, in cui gli unici due soci sono coniugi e uno dei due è anche legale rappresentante, la Suprema Corte ha recentemente affermato che l’Ufficio finanziario può legittimamente utilizzare, nell’esercizio dei poteri attribuitigli dall’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973, le risultanze di conti correnti bancari a loro intestati, riferendo alla società le operazioni ivi riscontrate, desumendo, tra l’altro, dalla relazione di parentela di primo grado tra i soci e dal fatto che uno dei due è legale rappresentante, circostanziati indizi, idonei a far presumere la sovrapposizione tra interessi personali e della società, salva la facoltà dell’ente di dimostrare l’estraneità delle singole operazioni alla comune attività d’impresa (Cass. n. 31750 del 10/12/2024) . E’ stato, inoltre, affermato che, in tema di accertamento fiscale, la presunzione legale relativa, ex art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973, comporta l’onere probatorio, a carico del contribuente, di dare specifica giustificazione delle movimentazioni bancarie, oggetto di
contestazione, al fine di dimostrare che le stesse non derivano da operazioni imponibili e tale conseguenza, oltre al regime legale, si riconnette altresì a quel principio di vicinanza della prova che è connaturato al disposto dell’art. 2697 c.c. e che attiene alla possibilità di conoscere, in via diretta o indiretta, i fatti materiali e storici che stanno alla base della loro evidenziazione probatoria (Cass. n. 26014/2024, Rv. 67249301). La Suprema Corte ha, poi, precisato che, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, qualora l’accertamento effettuato dall’ufficio finanziario si fondi su verifiche di conti correnti bancari, l’onere probatorio dell’Amministrazione è soddisfatto, secondo l’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973, attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti predetti, mentre si determina un’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, il quale deve dimostrare che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non sono riferibili ad operazioni imponibili, fornendo, a tal fine, una prova non generica, ma analitica, con indicazione specifica della riferibilità di ogni versamento bancario, in modo da dimostrare come ciascuna delle operazioni effettuate sia estranea a fatti imponibili (Cass. n. 2928/2024, Rv. 67025301).
In tutte le pronunce, quindi, si afferma chiaramente che, in presenza di un accertamento basato sull’esame della documentazione bancaria, grava sul contribuente l’onere di dimostrare che quanto emerge da essa non è riferibile ad operazioni imponibili. Tale prova, inoltre, deve essere fornita in modo non generico, ma analitico e rigoroso, dando una specifica giustificazione per ciascuna movimentazione. Peraltro, nelle società a ristretta base partecipativa (in particolare quelle a base familiare), la relazione di parentela tra soci ed amministratori consente di presumere una sovrapposizione tra interessi personali ed interessi dell’ente, tale che è possibile riferire alla società le operazioni riscontrate sui conti personali dei soci o del legale rappresentante.
La C.t.r. si è attenuta a tali principi, ponendo a carico del contribuente l’onere di dimostrare documentalmente l’inesistenza del reddito presunto ovvero la sussistenza di redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, tenuto conto de ll’intero nucleo familiare, ivi comprese le figlie in giovane età. Tuttavia, con apprezzamento fattuale riservato al giudice di merito, ha valutato non adeguatamente documentate le spiegazioni addotte dal contribuente per giustificare la fonte del maggior reddito accertato. Peraltro, non risulta violato l’art. 115 ed il principio di non contestazione, considerato che nel processo tributario, caratterizzato dall’impugnazione di una pretesa fiscale fatta valere mediante l’emanazione dell’atto impositivo nel quale i fatti costitutivi della richiesta sono già stati allegati, il principio di non contestazione non implica a carico dell’Amministrazione finanziaria, a fronte dei motivi di impugnazione proposti, un onere di allegazione ulteriore rispetto a quanto contestato nell’atto impugnato (Cass. n. 16984/2023, Rv. 66825801). Ciò in quanto, nel processo tributario, il principio di non contestazione di cui all’art. 115 c.p.c. opera sul piano della prova e non contrasta, né supera, il diverso principio per cui la mancata presa di posizione sul tema introdotto dal contribuente non può restringere il thema decidendum ai soli motivi contestati se sia stato chiesto il rigetto dell’intera domanda, né può aggirare il principio di sindacabilità limitata degli atti sottostanti adottati dall’Amministrazione finanziaria, autonomamente e obbligatoriamente impugnabili davanti al giudice tributario entro il termine di 60 giorni ex artt. 19 e 21 del d.lgs. n. 546 del 1992 (Cass. n. 22616/2024, Rv. 67225601).
Giova, poi, ricordare che, sulla base del dato testuale dell’art. 115, così come novellato dalla l. n. 69 del 2009, può dirsi che: lo stesso non opera nelle cause contumaciali (riferendosi alla ‘parte costituita’); non può essere aggirato da una contestazione generica, essendo invece necessaria una contestazione circostanziata che introduca elementi fattuali idonei a contrastare nel merito quanto
asserito da controparte (riferendosi a fatti ‘non specificamente contestati’); riguarda non solo l’attore, ma anche il convenuto ed i terzi (riferendosi alla ‘parte’); è esteso non solo ai fatti principali, ma anche ai fatti secondari (non essendovi nella norma traccia della distinzione); non si applica con riferimento ai comportamenti tenuti nella fase pregiudiziale; non si applica, infine, ai contratti in cui e richiesta la prova scritta ad substantiam , mentre si applica nel caso di prova scritta ad probationem , relativamente ai quali è infatti anche ammesso il giuramento decisorio ex art. 2739 c.c..
La Suprema Corte ha affermato che il principio di non contestazione di cui all’art. 115 c.p.c. deve avere ad oggetto fatti storici sottesi a domande ed eccezioni e non può riguardare le conclusioni ricostruttive desumibili dalla valutazione di documenti (Cass. n. 6172/2020, Rv. 65715401), né la risoluzione di questioni di diritto (Cass. n. 2844/2024, Rv. 67007601); inoltre esso è applicabile soltanto quando i fatti controversi siano noti alla parte (Cass. n. 4681/2023, Rv. 66680801), trovando applicazione solo ai fatti od alle situazioni riferibili alla parte destinataria dell’allegazione in quanto riferibili alla sua sfera di controllo e conoscenza, e non invece ai fatti non conosciuti da controparte.
Orbene, nel caso in esame, correttamente non è stato applicato il principio di non contestazione, considerato che l’amministrazione finanziaria, avendo insistito per il rigetto delle impugnazioni, non aveva un onere di allegazione ulteriore rispetto a quanto contestato nell’atto impugnato e considerato che i fatti storici cui fa riferimento la parte ricorrente nel secondo motivo di doglianza attengono a circostanze che non rientrano nella sfera di conoscenza o conoscibilità della controparte.
Parimenti infondato è il terzo motivo di doglianza, relativo alla dimostrazione dell’inerenza dei costi dedotti.
Giova premettere che, in tema di imposte sui redditi delle società, la Suprema Corte ha affermato che la deducibilità di costi ed
oneri richiede la loro inerenza all’attività di impresa, da intendersi come necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale, escludendo quelli che si collocano in una sfera estranea ad essa, senza che si debba compiere alcuna valutazione in termini di utilità – anche solo potenziale ed indiretta – secondo valutazione qualitativa e non quantitativa, la cui prova, in caso di contestazioni dell’amministrazione finanziaria, è a carico del contribuente, dovendo egli provare e documentare l’imponibile maturato e, quindi, l’esistenza e la natura del costo, i relativi fatti giustificativi e la sua concreta destinazione alla produzione, quale atto di impresa perché in correlazione con l’attività di impresa e non ai ricavi in sé (Cass. n. 24880/2022, Rv. 66549501). Nello stesso senso, Cass. n. 30366/2019, Rv. 65593201, secondo cui, in tema di imposte sui redditi delle società, il principio dell’inerenza dei costi deducibili si ricava dalla nozione di reddito d’impresa (e non dall’art. 75, comma 5 del d.P.R. n. 917 del 1986, ora art. 109, comma 5, del medesimo d.P.R., riguardante il diverso principio della correlazione tra costi deducibili e ricavi tassabili) ed esprime la necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale, escludendo quelli che si collocano in una sfera estranea ad essa, senza che si debba compiere alcuna valutazione in termini di utilità (anche solo potenziale o indiretta), in quanto è configurabile come costo anche ciò che non reca alcun vantaggio economico e non assumendo rilevanza la congruità delle spese, perché il giudizio sull’inerenza è di carattere qualitativo e non quantitativo. Peraltro, l’onere di provare e documentare l’imponibile maturato e dunque l’esistenza e la natura del costo, i relativi fatti giustificativi e la sua concreta destinazione alla produzione, quale atto d’impresa, grava sul contribuente.
Orbene, nel caso in esame, la C.t.r. ha ritenuto che i contribuenti, pur essendovi onerati, non avessero fornito adeguate spiegazioni in ordine alla duplicazione dei costi addebitati dalla BMW Italia s.p.a. alla concessionaria, in quanto le spese di marketing
risultavano addebitate sia nella voce ‘contributo spese pubblicitarie’ sia nella voce ‘recupero spese’. Così decidendo, la sentenza impugnata risulta aver rispettato i principi di diritto sopra esposti, attesa la genericità delle voci di costo indicate dal contribuente e la conseguente impossibilità di verificarne l’inerenza all’attività imprenditoriale.
Per contro, il quarto motivo , relativo alla non corretta applicazione della disciplina sulla indeducibilità dei costi derivanti da attività illecita, è fondato.
Ed invero, nel caso di specie, trova applicazione l’art. 14, comma 4-bis, della l. 27 dicembre 1993, n. 537, così come novellato dall’art. 8, commi 1 e 3, del d.l. 2 marzo 2012, n. 16, conv. Dalla l. n. 44 del 2012, costituente jus superveniens astrattamente più favorevole al contribuente e quindi avente efficacia retroattiva. Al riguardo, la Suprema Corte ha, infatti, affermato che, in tema di imposte sui redditi, ai sensi dell’art. 14, comma 4bis , della l. 24 dicembre 1993, n. 537 (nella formulazione introdotta con l’art. 8, comma 1, del d.l. 2 marzo 2012, n. 16, conv. dalla l. n. 44 del 2012), che opera, in ragione del precedente comma 3, quale jus superveniens con efficacia retroattiva in bonam partem , sono deducibili i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti (inserite, o meno, in una “frode carosello”), per il solo fatto che siano stati sostenuti, anche nell’ipotesi in cui l’acquirente sia consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che si tratti di costi in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità oppure di costi relativi a beni o servizi direttamente utilizzati per il compimento di un delitto non colposo (Cass. n. 26461/2014, Rv. 63370801 e succ. conformi).
Tale principio, peraltro, trova applicazione anche in tema di Iva, in virtù dell’art. 14, comma 4, della l. n. 537 del 1993, secondo il quale i proventi provenienti da attività illecita sono assoggettabili ad imposizione (Cass. n. 18495/2017, Rv. 64502601).
Il predetto art. 14, comma 4-bis stabilisce che nella determinazione dei redditi di cui all’art. 6, comma 1, del tuir, di cui al d.P.R. n. 917 del 1986, non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale o, comunque, qualora il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’art. 429 c.p.p. ovvero sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’art. 157 c.p..
La disposizione, come rileva la parte ricorrente, è mutata poiché in precedenza l’indeducibilità era riferita, più genericamente, ai costi riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato, fatto salvo l’esercizio di diritti costituzionalmente riconosciuti. Viene, quindi, prevista l’indeducibilità di componenti negative che si trovino in connessione diretta con il compimento dell’attività delittuosa per il quale sia stata promossa l’azione penale.
Come osservato in motivazione da Cass. n. 7275/2024 (Rv. 67058501), vi è, quindi, correlazione tra esercizio dell’azione penale per fatti costituenti delitto non colposo e quei costi di produzione che risultino direttamente connessi con la consumazione del l’attività delittuosa. In altre parole, gli specifici costi di produzione che siano imputabili al compimento dell’attività penalmente rilevante non sono deducibili, ciò comportando l’imposizione sull’ammontare dei ricavi lordi, anziché sul reddito netto. L ‘elemento differenziale di questo trattamento più gravoso risiede nell’aggancio del presupposto impositivo alla commissione di una azione delittuosa perseguita in sede penale, differenziandola dalla mera commissione un illecito civile o amministrativo.
La restrizione dell’area di indeducibilità ai soli componenti negativi di reddito (peraltro, non tutti ma solo quelli relativi a beni o
prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo), per i quali sia possibile istituire un nesso diretto dei costi stessi con la realizzazione dell’atto o dell’attività che costituisce delitto non colposo, istituisce un più stringente rapporto tra l’esercizio dell’azione penale e i costi direttamente utilizzati per l’esecuzione di quella attività delittuosa per la quale sia stato promosso il giudizio penale.
La connessione diretta tra costi e attività spiega, ulteriormente, la ragione per la quale l’accertamento dell’indeducibilità presuppone l’emissione del decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’art. 424 c.p.p. (ovvero della sentenza di non luogo a procedere per sussistenza della causa di estinzione del reato ex art. 157 c.p.), laddove la precedente formulazione normativa lasciava incertezza sui presupposti della norma e sul dies a quo . L’esercizio dell’azione penale per quei fatti costituisce presuppos to per l’accertamento dell’indeducibilità dei costi per i quali sia individuabile il nesso diretto con l’attività delittuosa. In tal senso, infatti, la disposizione costituisce ius superveniens astrattamente più favorevole al contribuente e, come già sopra evidenziato, avente efficacia retroattiva.
Considerato, quindi, che l’esercizio dell’azione penale è il presupposto per l’accertamento dell’indeducibilità dei relativi costi, costituendo elemento normativo esterno alla fattispecie tributaria, deve escludersi che il giudice tributario possa accertare incidentalmente l’esistenza del fatto costituente reato. L’oggetto dell’accertamento del giudice tributario è, invero, incentrato sull’individuazione di quali siano i costi che si pongano in connessione diretta con la consumazione della fattispecie delittuosa, la cui esistenza e i cui connotati sono riservati all’iniziativa del giudice ordinario. Al giudice tributario residua, in ogni caso, il controllo in ordine al fatto che la condotta oggetto del giudizio penale sia riferibile a quella oggetto di contestazione nel giudizio tributario ai fini dell’indeducibilità dei relativi costi di produzione.
Conferma questa lettura il correlativo riconoscimento del diritto del contribuente al rimborso delle maggiori imposte versate, ove risulti l’accertamento sopravvenuto del venir meno della fattispecie delittuosa in relazione alle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione prevista dal periodo precedente e dei relativi interessi. Tuttavia, anche in tal caso, il giudice tributario non può accertare incidentalmente e autonomamente se la fattispecie penale esista o meno, ma deve limitarsi ad verificare se la condotta oggetto del giudizio penale sia riferibile a quella oggetto del giudizio tributario. In tal senso si segnala Cass. n. 20579/2020 (Rv. 65906001), secondo cui, in tema di operazioni oggettivamente inesistenti, poiché ai fini della deducibilità dei costi assume rilevanza, ex art. 14, comma 4 bis, l. n. 537 del 1993, la pronuncia penale che esclude la sussistenza dei fatti di reato dai quali sia derivata la non deducibilità dei costi, con conseguente eventuale rimborso delle maggiori imposte versate, il giudice del merito deve accertare se la condotta oggetto del giudizio penale sia riferibile a quella oggetto di contestazione nel giudizio tributario.
Nella specie, la sentenza impugnata non si è attenuta ai suddetti principi, in quanto, con riferimento al rilievo della indeducibilità dei costi, non ha affatto affrontato la questione della normativa sopravvenuta di cui al citato art. 14, comma 4-bis, della l. n. 537 del 1993 e non ha verificato la sussistenza, quale presupposto della indeducibilità dei costi, dell’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero.
15. L’accoglimento del quarto motivo rende superfluo l’esame del quinto .
16. Parimenti fondato risulta il sesto motivo di doglianza, con cui la ricorrente chiede l’applicazione del principio del favor rei in materia di sanzioni, essendo sopravvenuta la legge n. 208 del 2015, che ha ridotto le sanzioni tributarie conseguenti alla dichiarazione infedele.
La revisione del sistema sanzionatorio invocata dal ricorrente, di cui al D.lgs. n. 158 del 2015, in effetti non ha previsto una generalizzata riduzione delle sanzioni tributarie, ma ha dettato una diversa disciplina che risulta in parte favorevole per il contribuente. Lo ius superveniens risulta peraltro vigente in relazione a tutti i giudizi ancora in corso (cfr. Cass. sez. V, 30.3.2021, n. 8716), ed è compito innanzitutto del giudice del merito pronunziarsi sul se debba applicarsi al contribuente una disciplina sanzionatoria più favorevole.
Inoltre, verificato quale sia la corretta sanzione applicabile, in considerazione del disposto di cui al d.lgs. n. 158 del 2015, occorrerà anche valutare la questione di legittimità costituzionale sollevata dal ricorrente in memoria, in relazione alle previsioni di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 87 del 2024.
17. Alla luce di tutte le suesposte considerazioni, quindi, non risulta corretta la decisione impugnata, che ha rigettato l’impugnazione del contribuente, non valutando la normativa sanzionatoria sopravvenuta.
Pertanto, in accoglimento del quarto e del sesto motivo di ricorso, la sentenza impugnata va cassata, con rinvio al giudice a quo per le ragioni di cui sopra e per valutare la questione di legittimità costituzionale sollevata dal ricorrente, nonché per il regolamento delle spese di lite anche del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte dichiara l’estinzione del giudizio nei confronti di NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME per avvenuta definizione agevolata della lite;
in accoglimento del quarto e del sesto motivo di ricorso, rigettati i restanti motivi, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria della Toscana, in diversa composizione, per le ragioni di cui in parte motiva e per valutare questione di legittimità
costituzionale sollevata dal ricorrente, nonché per il regolamento delle spese di lite anche del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione