Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 21186 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 21186 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 24/07/2025
ordinanza
sul ricorso iscritto al n. 12020/2017 R.G. proposto da
RAGIONE_SOCIALE rappresentata e difesa dall’ avvocato NOME COGNOME giusta procura speciale in calce al ricorso per cassazione (PEC: EMAIL;
-ricorrente –
Contro
Agenzia delle entrate , rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale è domiciliata in Roma, INDIRIZZO
-controricorrente – avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Lazio -sezione staccata di Latina, n. 6740/40/2016, depositata l’ 8.11.2016.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 14 maggio 2025 dal Consigliere NOME COGNOME
RILEVATO CHE
La CTP di Latina rigettava il ricorso proposto dalla RAGIONE_SOCIALE esercente l’attività di commercio all’ingrosso di frutta e ortaggi
Oggetto:
Tributi
freschi, avverso l’avviso di accertament o relativo all’anno d’imposta 2006, per imposte dirette e IVA, mediante il quale si provvedeva a recuperare i componenti negativi di reddito indebitamente dedotti, in quanto ritenuti riconducibili ad operazioni inesistenti, relative a servizi ricevuti dalla società RAGIONE_SOCIALE;
con la sentenza indicata in epigrafe, la Commissione Tributaria Regionale del Lazio -sezione staccata di Latina rigettava l’appello proposto dalla contribuente, osservando, per quanto qui rileva, che:
-l’Ufficio aveva offerto elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti, sull’inesistenza delle operazioni fatturate, quali l’assenza di documentazione in merito ai rapporti commerciali instaurati tra il soggetto accertato e le società emittenti delle fatture, la genericità con cui erano state indicate nelle fatture le prestazioni di facchinaggio, l’assenza di tracciabilità dei pagamenti ed , infine, la condizione di inattività, fin dal 2004, della “RAGIONE_SOCIALE“, che aveva emesso le fatture in questione; in mancanza di prove idonee a dimostrare l’effettività delle prestazioni, era condivisibile la presunta sussistenza di una interposizione fittizia della predetta società cooperativa, nello svolgimento del rapporto di “somministrazione lavoro”, con la conseguenza che si doveva ritenere soggettivamente inesistenti le prestazioni fatturate , indetraibile l’IVA versata ed indeducibili i relativi costi;
-ove il costo è costituito da una ‘somministrazione di personale’, si tratta di costo indeducibile, in quanto non determinato secondo le regole del TUIR;
la contribuente non aveva fornito alcuna prova in ordine alla sua asserita estraneità alla frode, ma soprattutto non aveva dimostrato di aver utilizzato la diligenza necessaria nello svolgimento dei rapporti commerciali con la società RAGIONE_SOCIALE, dante causa, le cui
caratteristiche di mera interposta apparivano invece di tutta evidenza;
la RAGIONE_SOCIALE impugnava la sentenza della CTR con ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, illustrati con memoria;
l ‘Agenzia delle entrate resisteva con controricorso.
CONSIDERATO CHE
Con il primo motivo di ricorso la ricorrente denuncia l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione all’ art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ. e, segnatamente, la buona fede e l’ignoranza incolpevole della contribuente che non poteva essere a conoscenza delle inadempienze della cooperativa RAGIONE_SOCIALE, quali l’omessa presentazione delle dichiarazioni dei redditi e l’omessa tenuta delle scritture contabili;
con il secondo motivo deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 1 09, comma 34 lett. b) d.P.R. n. 917/1986, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ. , per avere la CTR errato nel non riconoscere la deducibilità dei costi relativi alle prestazioni fatturate (riguardanti operazioni di facchinaggio, stoccaggio, pulizia e concimazione dei terreni), trattandosi di costi regolarmente annotati in contabilità, inerenti, necessari, certi e determinabili, come si evinceva dalla documentazione prodotta dalla contribuente, e non trovando applicazione la disciplina della indeducibilità dei ‘costi da reato’ di cui all’art. 14, comma 4 -bis, della l. n. 537 del 1993;
con il terzo motivo denuncia l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ., e, segnatamente, l’inesistenza di elementi certi a supporto dell’onere dell’Ente impositore e del complesso probatorio per presunzione;
– con il quarto motivo denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 21, comma 2 , d.P.R. n. 633/1972, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., per aver la CTR ritenuto che l’inesistenza delle operazioni si evincesse dalla genericità delle fatture riguardanti le operazioni contestate e dalla mancanza di documentazione idonea a provare la congruità e l’effettività del costo nel suo ammontare, nonché la tracciabilità dei pagamenti, senza considerare che nell’avviso di accertamento non veniva indicato né il significato della ‘genericità della descrizione della fattura’ né il significato di ‘congruità del costo delle fatture’ e che le fatture emesse dalla RAGIONE_SOCIALE contenevano tutti gli elementi previsti dall’art. 21 del d.P.R. n. 633 del 1972; rileva che non si poteva desumere la prova del mancato sostenimento dei costi dal fatto che i pagamenti delle prestazioni erano stati effettuati in contanti, considerato che i lavori erano svolti da piccoli agricoltori che utilizzavano tale mezzo di pagamento;
il primo e il terzo motivo, che vanno esaminati congiuntamente per connessione, sono inammissibili, in quanto opera il limite della c.d. “doppia conforme” di cui all’art. 348-ter, comma 5, cod. proc. civ., introdotto dall’articolo 54, comma 1, lett. a), del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134, applicabile ratione temporis nel presente giudizio, atteso che l’appello avverso la sentenza di primo grado risulta depositato in data 8.05.2013, non avendo la ricorrente dimostrato che le ragioni di fatto, poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di appello, erano fra loro diverse ( ex multis , Cass. n. 266860 del 18/12/2014; Cass. n. 11439 dell’11/05/2018);
i predetti motivi sono inammissibili anche sotto altro profilo;
-con l’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, che ha modificato l’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc.
civ. (applicabile con riferimento alle impugnazioni proposte avverso le sentenze pubblicate dopo l’11.09.2012), è stato introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia);
si tratta di censura che, tuttavia, impone a chi la denunci di indicare, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, comma 1, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” ( ex multis , Cass. Sez. U. n. 8053/2014 cit.);
resta fermo che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie ( ex plurimis , Cass. Sez. U. n. 8053/2014 cit.);
la ricorrente non si è attenuta alle suddette prescrizioni, in quanto non ha trascritto nel ricorso, neppure in modo indiretto, nelle loro parti essenziali, ai fini della percezione della doglianza, gli atti dai quali risulterebbero l’allegazione di tali fatti e la loro discussione, e ha formulato un motivo generico che mira, in realtà, ad attingere il giudizio di fatto operato dal giudice di appello con riferimento alla valutazione delle prove;
il quarto motivo, che per esigenze di priorità logica va esaminato prima, è infondato e in ogni caso inammissibile.
-al riguardo occorre ribadire che, nel caso di operazione soggettivamente inesistente, l’IVA non è, in linea di principio, detraibile, perché è stata versata ad un soggetto non legittimato alla rivalsa e non assoggettato all’obbligo di pagamento dell’imposta, in quanto la fattura è emessa da un soggetto che non è stato controparte nel rapporto relativo alle operazioni fatturate, da ritenersi “inesistenti” (Cass. 30.10.2013, n. 24426);
poiché il diniego del diritto di detrazione costituisce un’eccezione al principio di neutralità dell’IVA che tale diritto costituisce, incombe sull’Amministrazione finanziaria provare, anche sulla base di presunzioni, che, a fronte dell’esibizione del titolo, difettano, le condizioni, oggettive e soggettive, per la detrazione (e segnatamente: che il soggetto emittente non era il reale cedente e che il cessionario sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’uso dell’ordinaria diligenza, che l’operazione si inseriva in un’evasione d’imposta), mentre spetterà al contribuente, una volta raggiunta questa prova, fornire la prova contraria, ossia di aver svolto le trattative in buona fede, ritenendo incolpevolmente che le merci acquistate fossero effettivamente rifornite dalla società cedente (Cass. 20.04.2018, n. 9851);
per quanto riguarda la consapevolezza del cessionario, invece, si deve evidenziare che, se a quest’ultimo non compete, di norma, conoscere la struttura e le condizioni di operatività del proprio fornitore, sorge, tuttavia, un obbligo di verifica, nei limiti dell’esigibile, in presenza di indici personali od operativi anomali dell’operazione commerciale, tali da evidenziare irregolarità e ingenerare dubbi di una potenziale evasione (Cass. 2.12.2015, n. 24490);
-con riferimento al tipo di prova incombente sull’Amministrazione, è stato poi condivisibilmente affermato che può trattarsi sia di prova
logica (o indiretta) sia di prova storica (o diretta), consistente anche in indizi integranti una presunzione semplice (Cass. n. 28246 del 2020), potendo essere valorizzati, quali elementi sintomatici della mancata esecuzione dell’operazione da parte del fatturante, l’assenza della minima dotazione personale e strumentale adeguata alla predetta esecuzione, l’immediatezza dei rapporti fra cedente/prestatore fatturante interposto e cessionario/committente, la conclamata inidoneità allo svolgimento dell’attività economica e la non corrispondenza tra i cedenti e la società coinvolta nell’operazione (Cass. n. 5339 del 2020);
anche di recente è stato ribadito che, in caso di operazioni soggettivamente inesistenti, l’Amministrazione finanziaria ha l’onere di provare, anche in via indiziaria, non solo che il fornitore era fittizio, ma anche che il destinatario era consapevole, disponendo di indizi idonei a porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto, che l’operazione era finalizzata all’evasione dell’imposta, essendo sostanzialmente inesistente il contraente; incombe, invece, sul contribuente la prova contraria di aver agito nell’assenza di consapevolezza di partecipare ad un’evasione fiscale e di aver adoperato, per non essere coinvolto in una tale situazione, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, né la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi (Cass. n. 24471 del 2022);
il contenuto della massima diligenza esigibile nei confronti di un accorto operatore, al fine di non essere parte di una frode IVA, si incentra sulle opportune informazioni circa l’effettiva esistenza del fornitore, da acquisirsi direttamente (in relazione alla struttura organizzativa dello stesso), sia indirettamente, attraverso l’esame
delle modalità con le quali si è estrinsecato il rapporto commerciale con l’emittente (Cass. n. 28165 del 2022);
– in tema di evasione IVA a mezzo di frodi carosello, quando l’operazione soggettivamente inesistente è di tipo triangolare, poco complessa e caratterizzata dalla interposizione fittizia di un soggetto terzo tra il cedente comunitario ed il cessionario italiano, questa Corte ha precisato che l’onere probatorio a carico dell’Amministrazione finanziaria, sulla consapevolezza da parte del cessionario che il corrispettivo della cessione sia versato al soggetto terzo non legittimato alla rivalsa né assoggettato all’obbligo del pagamento dell’imposta, è soddisfatto dalla dimostrazione che l’interposto sia privo di dotazione personale e strumentale adeguata alla prestazione fatturata, mentre spetta al contribuente-cessionario fornire la prova contraria della buona fede con cui ha svolto le trattative ed acquistato la merce, ritenendo incolpevolmente che essa fosse realmente fornita dalla persona interposta (Cass. n. 10120/2017; Cass. n. 35591 del 2023);
il giudice del gravame ha seguito i principi sopra indicati, avendo considerato il valore sintomatico di tutti gli elementi indicati dall’Amministrazione finanziaria nell’atto impositivo, richiamati nel dettaglio dalla sentenza impugnata, evidenziando, in particolare, l’assenza di documentazione attestanti i rapporti commerciali instaurati fra la contribuente e la società emittente delle fatture, la genericità delle prestazioni indicate nelle fatture, la mancanza di tracciabilità dei pagamenti, l’inattività della società emittente dal 2004; a fronte di detto quadro presuntivo ritenuto esaustivo, la contribuente non aveva fornito, come era suo onere, idonea prova contraria, atta a dimostrare la ‘ diligenza necessaria nello svolgimento dei rapporti commerciali’ , dovendosi considerare che la contestazione riguardava l’inesistenza soggettiva delle operazioni;
la suddetta censura è, quindi, inammissibile perché mira, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione di legge e di omesso esame di un fatto decisivo, ad attingere il giudizio di fatto operato dal giudice di appello con riferimento alla valutazione delle prove;
il secondo motivo, con il quale la contribuente si duole del mancato riconoscimento della deducibilità dei costi relativi alle prestazioni fatturate (riguardanti operazioni di facchinaggio, stoccaggio, pulizia e concimazione dei terreni), affermando che si trattava di costi regolarmente annotati in contabilità, inerenti, necessari, certi e determinabili, è invece fondato;
in tema di imposte dirette, infatti, questa Corte ha ripetutamente affermato che i costi relativi alle operazioni soggettivamente inesistenti (siano o meno inseriti in una cd. frode carosello), sono deducibili, ai sensi dell’art. 14, comma 4-bis, della l. n. 537 del 1993, come modificato dall’art. 8, comma 1, del d.l. n. 16 del 2012, conv., con modif., in l. n. 44 del 2012, con efficacia retroattiva ” in bonam partem “, per il solo fatto che siano stati sostenuti, anche nell’ipotesi in cui l’acquirente sia consapevole del carattere fraudolento delle relative operazioni, salvo che si tratti di costi in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità, ovvero di costi relativi a beni o servizi direttamente utilizzati per il compimento di un delitto non colposo ( ex plurimis , Cass. 12.12.2019, n. 32587);
il giudice del gravame non ha seguito il principio sopra indicato, avendo ritenuto che, nonostante la falsità solo soggettiva delle operazioni contestate, i costi, costituiti nella specie dalla ‘somministrazione di personale’, non fossero deducibili, in quanto non conformi al l’art. 109 TUIR, senza verificare ed accertare, in concreto, la sussistenza o meno dei requisiti richiesti dalla predetta disposizione;
– in conclusione, va accolto il secondo motivo, rigettati gli altri; la sentenza impugnata va cassata, in relazione al motivo accolto, e va rinviata alla Corte di Giustizia tributaria di secondo grado del Lazio, in diversa composizione, per un nuovo esame e per la regolazione sulle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso, rigettati gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di Giustizia tributaria di secondo grado del Lazio, in diversa composizione, anche sulle spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale del 14 maggio 2025.