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Costi black list: quando sono deducibili per il Fisco?

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 17455/2025, ha annullato la decisione di una Commissione Tributaria Regionale che aveva permesso a un’azienda italiana di dedurre costi derivanti da operazioni con un fornitore di Hong Kong. La Corte ha stabilito che la prova per la deducibilità dei costi black list richiede più di semplici documenti formali. Il contribuente deve dimostrare in modo sostanziale l’effettiva attività commerciale del partner estero o un concreto e specifico interesse economico per l’operazione, non bastando una generica convenienza di prezzo.

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Pubblicato il 3 settembre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Costi Black List: La Prova per la Deducibilità Sotto la Lente della Cassazione

La deducibilità dei costi black list, ovvero quelli sostenuti in operazioni con imprese situate in paradisi fiscali, rappresenta da sempre un terreno scivoloso per le aziende italiane. Una recente sentenza della Corte di Cassazione, la n. 17455 del 2025, torna a fare chiarezza sui rigorosi oneri probatori che gravano sul contribuente, stabilendo che documenti formali e una generica convenienza economica non sono sufficienti a vincere la presunzione di indeducibilità. Analizziamo insieme questo importante caso.

I Fatti di Causa

Una società italiana operante nel settore commerciale si era vista notificare un avviso di accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate. L’Amministrazione Finanziaria contestava la deducibilità, ai fini IRES e IRAP, dei costi relativi all’acquisto di un ingente quantitativo di merci da un’impresa con sede a Hong Kong, territorio all’epoca considerato a fiscalità privilegiata.

La società contribuente aveva impugnato l’atto, ottenendo ragione sia in primo che in secondo grado. La Commissione Tributaria Regionale, in particolare, aveva ritenuto che l’azienda avesse fornito prove sufficienti a superare la presunzione legale di indeducibilità prevista dall’articolo 110 del TUIR. Secondo i giudici di merito, ricorrevano entrambe le condizioni alternative richieste dalla norma: l’effettiva attività commerciale della società estera e l’esistenza di un reale interesse economico all’operazione.

La Decisione della Commissione Tributaria Regionale

La CTR aveva basato la sua convinzione su due elementi principali:
1. Per l’effettiva attività commerciale, aveva considerato sufficienti le visure camerali che attestavano l’esistenza e l’operatività della società di Hong Kong fin dal 1990.
2. Per l’interesse economico, aveva ritenuto provata l’operazione dal prezzo di acquisto, giudicato inferiore a quello di mercato, oltre che dalla puntualità e continuità delle forniture.

Insoddisfatta della pronuncia, l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione, lamentando un’errata applicazione della normativa e una motivazione solo apparente da parte dei giudici d’appello.

L’Analisi della Cassazione sui costi black list

La Suprema Corte ha accolto il ricorso dell’Agenzia, cassando la sentenza impugnata e rinviando la causa per un nuovo esame. Il ragionamento dei giudici di legittimità si è concentrato sulla palese insufficienza delle prove addotte e sulla superficialità della motivazione della CTR.

Prova dell’Effettiva Attività Commerciale: Non Bastano i Documenti Formali

Il primo motivo di censura accolto riguarda la prova dell’effettiva operatività della società estera. La Cassazione ha ribadito un principio consolidato: per dimostrare che un’impresa in un paese a fiscalità privilegiata non è una mera “scatola vuota”, non basta produrre un certificato di iscrizione al registro delle imprese o della corrispondenza commerciale.

È necessario fornire una documentazione molto più solida e sostanziale, che includa, ad esempio:
– L’atto costitutivo e i bilanci della società estera.
– Il contratto di locazione o acquisto dell’immobile dove viene svolta l’attività.
– Le fatture relative a utenze (elettricità, telefono).
– I contratti di lavoro dei dipendenti.
– Gli estratti conto bancari e le autorizzazioni amministrative.

Senza questi elementi, la prova non può considerarsi raggiunta.

Interesse Economico: La Motivazione Deve Essere Concreta e Dettagliata

Anche sul secondo punto, la Corte ha rilevato una grave carenza. La motivazione della CTR sull’interesse economico è stata definita “generica, assertiva e apodittica”, ovvero apparente. Affermare che il prezzo era conveniente e le forniture puntuali non è sufficiente.

La Cassazione ha chiarito che l’interesse economico non può coincidere con la mera differenza positiva tra costo di acquisto e prezzo di rivendita. Deve trattarsi di un interesse specifico a concludere l’operazione proprio con quel fornitore in quel determinato Paese. Il giudice di merito avrebbe dovuto:
– Illustrare gli elementi probatori specifici da cui ha tratto la conclusione che il prezzo fosse effettivamente inferiore a quello di mercato.
– Indicare quali dati informativi ha utilizzato per il giudizio comparativo.
– Spiegare perché l’azienda italiana non avrebbe potuto approvvigionarsi a condizioni simili su mercati di Paesi non a fiscalità privilegiata.

Una motivazione che non analizza questi aspetti è, di fatto, una non-motivazione.

Le Motivazioni

La ratio della decisione della Suprema Corte risiede nella necessità di dare concreta applicazione alle norme antielusive. La presunzione di indeducibilità dei costi black list serve a contrastare pratiche di trasferimento di utili verso giurisdizioni a bassa fiscalità. Permettere di superare tale presunzione con prove meramente formali o con affermazioni generiche vanificherebbe lo scopo della legge. L’onere della prova, che grava interamente sul contribuente, deve essere rigoroso e circostanziato. La sentenza impugnata è stata cassata proprio perché ha abbassato illegittimamente questo standard probatorio, con una motivazione che non dava conto del percorso logico-giuridico seguito per ritenere assolto tale onere.

Le Conclusioni

La sentenza in esame rappresenta un monito fondamentale per tutte le imprese che intrattengono rapporti commerciali con soggetti residenti in Paesi a fiscalità privilegiata. Per poter dedurre i relativi costi, è indispensabile costruire un solido dossier documentale che provi, senza ombra di dubbio, o la reale e strutturata operatività del partner commerciale estero, o l’esistenza di un vantaggio economico specifico, concreto e non altrimenti conseguibile, che ha giustificato quella specifica transazione. Affidarsi a semplici visure o a generiche dichiarazioni di convenienza espone a un rischio fiscale molto elevato.

Cosa deve dimostrare un’azienda italiana per dedurre i costi di operazioni con una società in un paradiso fiscale (“black list”)?
L’azienda deve provare, in via alternativa: a) che la società estera svolge un’effettiva e prevalente attività commerciale; oppure b) che le operazioni rispondono a un reale interesse economico e hanno avuto concreta esecuzione.

Un certificato di iscrizione al registro delle imprese è sufficiente a provare che una società estera svolge un’effettiva attività commerciale?
No. Secondo la Cassazione, un certificato di iscrizione e la corrispondenza sono elementi meramente formali e insufficienti. Occorrono prove sostanziali come bilanci, contratti di locazione, utenze, contratti di lavoro dei dipendenti ed estratti conto bancari.

La semplice convenienza del prezzo è una prova sufficiente dell’interesse economico a concludere un’operazione con un fornitore in un paese “black list”?
No. La Corte ha stabilito che l’interesse economico non può essere identificato nella mera convenienza del prezzo di fornitura. È necessario dimostrare un interesse specifico a operare in quel determinato Paese, supportato da un’analisi comparativa e dalla prova che non era possibile ottenere condizioni simili su altri mercati non privilegiati.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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