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Costi black list: prova e deducibilità in Cassazione

Una società si è vista negare la deducibilità dei costi black list derivanti da operazioni con un fornitore di Hong Kong. La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, stabilendo che per la deducibilità non bastano prove formali come un certificato di iscrizione camerale. È necessario dimostrare concretamente sia l’effettiva operatività della società estera, sia un interesse economico specifico che vada oltre la mera convenienza del prezzo. Il caso è stato rinviato per un nuovo esame.

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Pubblicato il 31 agosto 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Costi black list: La Cassazione detta le regole sulla prova per la deducibilità

La deducibilità dei costi black list, ovvero quelli sostenuti in operazioni commerciali con imprese situate in paradisi fiscali, rappresenta da sempre un terreno scivoloso per le aziende italiane. Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha ribadito il rigore necessario per superare la presunzione di indeducibilità, chiarendo che non sono sufficienti prove meramente formali. L’onere della prova a carico del contribuente è tutt’altro che semplice da assolvere, come dimostra il caso di un’azienda italiana e del suo fornitore di Hong Kong.

I fatti di causa

Una società a responsabilità limitata italiana si era vista recapitare un avviso di accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate. L’Amministrazione finanziaria contestava la deducibilità, ai fini IRES e IRAP, dei costi relativi all’acquisto di merci da un’impresa con sede a Hong Kong, territorio all’epoca considerato a fiscalità privilegiata.
Sia la Commissione Tributaria Provinciale che quella Regionale avevano dato ragione al contribuente, ritenendo che avesse fornito prove sufficienti a superare la presunzione di indeducibilità. Tuttavia, l’Agenzia delle Entrate ha impugnato la decisione davanti alla Corte di Cassazione, sostenendo che le prove fornite fossero inadeguate.

La normativa sui costi black list

L’articolo 110, comma 11, del TUIR (nel testo applicabile ratione temporis) stabiliva una presunzione legale di indeducibilità per le spese derivanti da operazioni con imprese residenti in Stati o territori a fiscalità privilegiata. Per vincere tale presunzione, l’impresa italiana doveva dimostrare, in via alternativa:

1. Lo svolgimento di un’effettiva attività commerciale da parte dell’impresa estera.
2. L’esistenza di un reale interesse economico sottostante all’operazione e la sua concreta esecuzione.

La Corte di Cassazione è stata chiamata a definire quali prove siano concretamente necessarie per soddisfare queste condizioni.

Le prove insufficienti per dimostrare la deducibilità dei costi black list

I giudici di legittimità hanno accolto le doglianze dell’Agenzia delle Entrate, ritenendo che la Commissione Tributaria Regionale avesse errato nel valutare le prove. Per dimostrare l’effettiva attività commerciale del fornitore estero, non bastano documenti formali come il certificato di iscrizione al registro delle imprese o la corrispondenza commerciale. La Corte ha ribadito il suo orientamento consolidato, secondo cui il contribuente deve fornire una documentazione molto più solida, che includa, ad esempio:

* Atto costitutivo e statuto della società estera;
* Bilanci depositati;
* Contratti di locazione o acquisto degli immobili dove viene svolta l’attività;
* Fatture relative a utenze elettriche e telefoniche;
* Contratti di lavoro dei dipendenti;
* Estratti conto bancari e autorizzazioni amministrative.

Nel caso di specie, la corrispondenza prodotta, risalente peraltro a quattro anni prima delle operazioni contestate, è stata giudicata irrilevante.

L’interesse economico: non basta il prezzo più basso

Anche riguardo alla seconda condizione, quella dell’interesse economico, la Corte ha censurato la decisione dei giudici di merito. La CTR aveva ritenuto provato l’interesse economico basandosi su un prospetto comparativo redatto dalla stessa contribuente, dal quale emergeva un prezzo di fornitura inferiore del 27% rispetto ai competitor italiani.

La Cassazione ha chiarito che l’interesse economico non può coincidere con la mera convenienza del prezzo o con il margine di utile tra acquisto e rivendita. Deve trattarsi di un interesse specifico a concludere l’operazione in quel determinato Paese, legato a fattori peculiari (ad esempio, legati alla produzione locale) che devono essere specificamente evidenziati e provati. La motivazione della sentenza impugnata è stata definita ‘apparente’, poiché si era limitata a recepire acriticamente i dati forniti dal contribuente, senza verificarne l’attendibilità e senza spiegare perché l’impresa non potesse approvvigionarsi a condizioni simili su mercati non privilegiati.

Le motivazioni

La Corte ha fondato la sua decisione su due pilastri. In primo luogo, l’onere della prova per superare la presunzione di indeducibilità dei costi black list grava interamente sul contribuente e richiede un corredo probatorio robusto e sostanziale, non meramente formale. In secondo luogo, la motivazione del giudice tributario deve essere concreta e non può limitarsi ad accettare passivamente le affermazioni della parte senza un’analisi critica e una verifica dell’attendibilità delle prove prodotte. La semplice affermazione di un prezzo più basso, senza un’analisi del contesto di mercato e delle alternative disponibili, non è sufficiente a integrare la prova del reale interesse economico richiesto dalla norma.

Le conclusioni

La sentenza riafferma un principio fondamentale nella gestione dei rapporti commerciali con soggetti residenti in paradisi fiscali: la necessità di una ‘due diligence’ rafforzata e di una documentazione a supporto inattaccabile. Le imprese che intendono dedurre i costi black list devono essere in grado di dimostrare, con prove concrete e oggettive, non solo che il partner commerciale estero è un’entità reale e operativa, ma anche che la scelta di operare con esso risponde a una logica economica specifica e vantaggiosa, che non si esaurisce nella mera convenienza del prezzo. In assenza di tali prove, il rischio di vedersi contestare la deducibilità dei costi è estremamente elevato.

Quali prove deve fornire un’azienda per dedurre i costi di operazioni con imprese in paradisi fiscali (black list)?
Secondo la Corte di Cassazione, l’azienda deve fornire prove concrete e sostanziali che dimostrino, alternativamente: 1) che l’impresa estera svolge un’effettiva attività commerciale (attraverso bilanci, contratti di lavoro, utenze, estratti conto, ecc.); oppure 2) che l’operazione risponde a un effettivo interesse economico e ha avuto concreta esecuzione.

Un certificato di iscrizione al registro delle imprese è sufficiente a dimostrare l’effettiva attività commerciale di un fornitore estero?
No. La Corte ha stabilito che documenti meramente formali come il certificato di iscrizione o la corrispondenza commerciale sono del tutto insufficienti. È necessaria una documentazione che attesti la concreta operatività della struttura aziendale estera.

La maggiore convenienza del prezzo è una prova sufficiente dell’interesse economico a concludere un’operazione con un’impresa in un paese ‘black list’?
No. La sentenza chiarisce che il semplice vantaggio economico derivante da un prezzo di acquisto più basso non è di per sé sufficiente. L’impresa deve dimostrare un interesse specifico a operare con quel fornitore in quel particolare Paese, legato a fattori peculiari (es. produttivi) che vanno oltre la mera convenienza economica.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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