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Costi black list: onere della prova per la deducibilità

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 7690/2024, ha chiarito l’onere della prova a carico del contribuente per la deducibilità dei costi black list. La Corte ha cassato la decisione di merito che aveva ammesso la deduzione di un costo da un’impresa sita in un paradiso fiscale, senza una rigorosa verifica delle prove fornite dal contribuente sull’effettivo interesse economico dell’operazione o sulla reale attività commerciale della controparte estera. La sentenza ribadisce che la presunzione di indeducibilità può essere superata solo con prove concrete e specifiche.

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Pubblicato il 8 novembre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Costi Black List: Come Dimostrare la Deducibilità? La Cassazione Fa Chiarezza

La deducibilità dei costi black list, ovvero quelli sostenuti in operazioni con entità residenti in paradisi fiscali, rappresenta da sempre un terreno minato per le imprese. La normativa fiscale pone una presunzione di indeducibilità, che può essere superata solo fornendo una prova rigorosa. Con la recente sentenza n. 7690 del 21 marzo 2024, la Corte di Cassazione è tornata su questo tema cruciale, delineando con precisione i confini dell’onere probatorio a carico del contribuente e cassando una decisione di merito troppo superficiale nella valutazione delle prove.

I Fatti di Causa

Il caso ha origine da un avviso di accertamento notificato a una società italiana operante nel settore dei rivestimenti e delle condotte. L’Agenzia Fiscale contestava due principali rilievi per l’anno d’imposta 2001:
1. L’omessa autofatturazione IVA su prestazioni di consulenza ricevute da due società estere, in quanto secondo l’amministrazione i servizi erano territorialmente rilevanti in Italia.
2. L’indeducibilità, ai fini IRAP, di un costo di 200.000 euro derivante da una fattura emessa da una società con sede nell’Isola di Man, un territorio notoriamente a fiscalità privilegiata.

La società contribuente si era difesa sostenendo, per il primo punto, che le prestazioni erano state rese in una base operativa extradoganale e quindi fuori dal campo di applicazione dell’IVA. Per il secondo punto, relativo ai costi black list, aveva prodotto documentazione per dimostrare la genuinità dell’operazione. Sia la Commissione Tributaria Provinciale che quella Regionale avevano dato ragione alla società, annullando l’accertamento.

La Questione Giuridica: Deducibilità dei Costi Black List e Territorialità IVA

L’Agenzia Fiscale ha presentato ricorso in Cassazione, basandolo su tre motivi. Il fulcro della controversia, tuttavia, si è concentrato sul secondo motivo, che contestava la violazione della normativa sui costi black list (all’epoca l’art. 76, comma 7-bis, del TUIR, oggi confluito nell’art. 110). La normativa stabilisce che i costi derivanti da operazioni con soggetti residenti in paradisi fiscali non sono deducibili, a meno che l’impresa italiana non fornisca la prova:
* che la società estera svolge prevalentemente un’effettiva attività commerciale;
* in alternativa, che le operazioni poste in essere rispondono a un effettivo interesse economico e che le stesse hanno avuto concreta esecuzione.

La Corte era quindi chiamata a valutare se i giudici di merito avessero correttamente applicato questi principi e se avessero adeguatamente vagliato le prove fornite dal contribuente.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha accolto il secondo motivo di ricorso presentato dall’Agenzia Fiscale, ritenendolo fondato. Ha invece rigettato il primo motivo (relativo alla presunta carenza di motivazione sulla questione IVA) e dichiarato inammissibile il terzo (che chiedeva una rivalutazione dei fatti sulla territorialità delle prestazioni).
Di conseguenza, la sentenza della Commissione Tributaria Regionale è stata cassata limitatamente al punto relativo alla deducibilità dei costi black list, e il caso è stato rinviato a un’altra sezione della stessa corte per un nuovo esame.

Le Motivazioni della Sentenza

La parte più significativa della decisione risiede nelle motivazioni con cui la Cassazione ha censurato l’operato dei giudici di secondo grado. Questi ultimi avevano ritenuto superata la presunzione di indeducibilità sulla base di elementi considerati insufficienti e mal interpretati. In particolare, la corte di merito aveva dato peso al fatto che la fattura, pur essendo emessa da una società dell’Isola di Man, indicasse di effettuare il pagamento a una società collegata con sede a Lugano, Svizzera. Per i giudici regionali, questo bastava a escludere che l’operazione fosse avvenuta in un territorio a fiscalità privilegiata.

La Cassazione ha smontato questo ragionamento, definendolo errato. La norma, infatti, guarda alla residenza fiscale del soggetto che emette la fattura e che è parte del contratto, non al destinatario del pagamento. Il fatto che il pagamento fosse delegato a un’altra entità del gruppo in un paese non black list era irrilevante per superare la presunzione legale.

I giudici di legittimità hanno ribadito che il contribuente aveva l’onere di dimostrare in modo inequivocabile una delle due esimenti previste dalla legge: la reale operatività commerciale della società estera o l’effettivo interesse economico dell’operazione. La corte regionale, invece, si era limitata a prendere atto della documentazione prodotta (fatture e contratto) senza svolgere l’analisi sostanziale richiesta dalla normativa anti-elusiva. Non aveva verificato se la società nell’Isola di Man avesse una struttura, personale, e un’attività concreta, né aveva analizzato le ragioni economiche e la convenienza che avevano spinto la società italiana a intraprendere quella specifica transazione.

Conclusioni: Implicazioni Pratiche per le Imprese

La sentenza n. 7690/2024 rafforza un principio fondamentale del diritto tributario: chi opera con soggetti localizzati in paradisi fiscali deve essere pronto a sostenere un onere probatorio aggravato e a documentare meticolosamente la sostanza economica delle transazioni. Non è sufficiente produrre un contratto o una fattura. È necessario costruire un solido dossier probatorio che dimostri, senza ombra di dubbio, la realtà dell’attività svolta dalla controparte estera (con uffici, dipendenti, utenze) o la convenienza economica oggettiva dell’operazione per l’impresa (costi, tempi di consegna, qualità del servizio).
Questo pronunciamento serve da monito: la lotta all’elusione fiscale internazionale passa attraverso un esame rigoroso della sostanza rispetto alla forma. Le imprese devono quindi adottare un approccio estremamente prudente e proattivo nella gestione e documentazione dei costi black list per non incorrere in pesanti recuperi fiscali.

Quando un’impresa italiana può dedurre i costi derivanti da operazioni con società in paradisi fiscali (costi black list)?
Secondo la normativa applicabile ai fatti e richiamata dalla Corte, l’impresa deve fornire la prova alternativa che: 1) la società estera svolge un’effettiva attività commerciale; oppure 2) l’operazione risponde a un effettivo interesse economico e ha avuto concreta esecuzione.

È sufficiente dimostrare che il pagamento è stato effettuato a una società collegata in un paese non a fiscalità privilegiata per dedurre il costo?
No. La Corte di Cassazione ha chiarito che questa circostanza è irrilevante. L’analisi deve concentrarsi sulla residenza fiscale del soggetto che ha emesso la fattura e sulla sostanza economica dell’operazione, non sulla destinazione del pagamento.

Quali prove sono necessarie per dimostrare l’effettiva attività commerciale della controparte estera?
La sentenza, richiamando la giurisprudenza precedente, evidenzia che non basta un dato formale come il numero di registrazione. È necessario produrre prove concrete come l’atto di costituzione della società, i bilanci, i contratti di affitto degli uffici, le fatture delle utenze, i contratti di lavoro dei dipendenti e le autorizzazioni amministrative che attestino un’operatività reale e non di facciata.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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