Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 18355 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 18355 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: LIBERATI NOME
Data pubblicazione: 05/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 11181/2021 R.G. proposto da
:
RAGIONE_SOCIALE rappresentata e difesa da ll’avvocato NOME (CODICE_FISCALE
-ricorrente-
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE PROVINCIALE II UFFICIO ROMA INDIRIZZO TUSCOLANO, rappresentata e difesa dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO
-controricorrente-
Avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio, sede in ROMA n. 2982/2020 depositata il 13/10/2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 13/05/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
La ricorrente, unitamente alla RAGIONE_SOCIALE, ha impugnato dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Roma l’avviso di liquidazione e rettifica n. NUMERO_DOCUMENTO in relazione al contratto di cessione del ramo d’azienda stipulato in data 26.09.2013, con il quale era stato ingiunto il pagamento del maggior valore per imposte di registro – pari a complessivi € 6.798,00 , nonché sanzioni e interessi per complessivi € 7.198,00 in ragione del maggior valore accertato per l’ avviamento, elevato ad euro 286.604,00 rispetto ai dichiarati € 60.000,00.
Ambedue le società hanno formulato istanza di accertamento con adesione, all’esito della quale veniva comunicata una proposta ritenuta inaccettabile dall’ufficio.
Le società hanno quindi impugnato il provvedimento dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Roma la quale, con la sentenza n. 3301/48/18, ha rigettato il ricorso e compensato le spese del giudizio.
Le società contribuenti hanno indi proposto appello dinanzi la Commissione Tributaria Regionale di Roma, che ha rigettato il gravame.
In particolare, la Commissione Tributaria Regionale ha ritenuto legittimi i criteri di valutazione adottati ed il richiamo alla reddittività calcolata rispetto alla media del triennio precedente alla stipula dell’atto di cessione , in applicazione dell’art. 2, comma 4 del DPR 460/1996, rilevando altresì la genericità delle evidenze probatorie proposte.
Avverso la suddetta sentenza di gravame la società contribuente, indicata in intestazione, ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi, cui ha resistito con controricorso l’Agenzia delle Entrate.
Successivamente la parte ricorrente ha depositato memoria illustrativa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso, si deduce l’ omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia e violazione ed errata applicazione del DPR n. 460/1996 per il calcolo dell’avviamento.
1.1. La Commissione Tributaria Regionale non avrebbe tenuto nel debito conto che il contratto sottoscritto tra le parti era riferito esclusivamente a ‘SM’ALL VINO E CUCINA’, come specificato nell’articolo 1 del contratto di cessione di ramo d’azienda, sicché l’avviamento commerciale non poteva essere calcolato con riferimento a tutte le attività.
1.2. La difesa erariale ha eccepito che il motivo sarebbe inammissibile, risolvendosi in richiesta di rivalutazione in fatto.
1.3. Il motivo è inammissibile sotto diversi profili.
1.4. Innanzitutto la ricorrente non specifica se la censura fosse stata già sollevata nei precedenti gradi di giudizio, con violazione del principio di specificità ed autosufficienza: «Per giurisprudenza pacifica di questa Corte, qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, il ricorso deve, a pena di inammissibilità, non solo allegare l’avvenuta loro deduzione dinanzi al giudice di merito, ma anche indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto in virtù del principio di autosufficienza del ricorso, onde dar modo alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa. I motivi di cassazione devono investire, a pena d’inammissibilità, questioni che siano già comprese nel tema del decidere del giudizio di appello, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione, non trattati nella fase di merito né rilevabili d’ufficio (tra le tante: Cass., Sez. 2^, 9 agosto 2018, n. 20694; Cass., Sez. 2^, 18 settembre 2020, n. 19560; Cass., Sez. 5^, 9 dicembre 2020, n. 28036; Cass., Sez. 6^-5, 23 marzo 2021, n. 8125; Cass., Sez. 5^, 5 maggio
2021, n. 11708; Cass., Sez. 6^-5, 18 ottobre 2021, n. 28714; Cass., Sez. 5^, 29 ottobre 2021, n. 30863; Cass., Sez. 5^, 24 novembre 2021, n. 36393; Cass., Sez. 2^, 21 dicembre 2021, n. 40984; Cass., Sez. 5^, 15 marzo 2022, n. 8362; Cass., Sez. 5^, 6 dicembre 2022, n. 35885)» (così Cass., Sez. T, 21 febbraio 2023, n. 5429).
1.5. Sotto altro profilo, la censura non specifica sotto quale dei vizi tipici tassativamente elencati dall’art. 360 c. 1 c.p.c. viene prospettata, così rimettendo alla Corte una inammissibile interpretazione della censura: il ricorso per cassazione, secondo quanto disposto dall’art. 366, n. 4, c.p.c., deve contenere, a pena di inammissibilità, tra l’altro, “i motivi per i quali si chiede la cassazione”, i quali devono avere i caratteri della specificità, della completezza e della riferibilità alla decisione impugnata. Ciò comporta, fra l’altro, l’esposizione di argomentazioni intelligibili ed esaurienti ad illustrazione delle dedotte violazioni di norme o principi di diritto. (Cass. 11/06/2003, n. 9371 (Rv. 564161 – 01)).
Rimettere al giudice di legittimità il compito di individuare le singole obiezioni teoricamente avanzabili, al fine di ricondurle ad uno dei mezzi di impugnazione previsti dall’articolo 360 del codice di procedura civile, e successivamente determinare quali disposizioni potrebbero essere pertinenti a tale scopo, comporta perciò l’attribuzione, in modo inammissibile, al giudice di legittimità del compito di definire il contenuto giuridico delle contestazioni sollevate dal ricorrente.
1.6. Inoltre, la censura si incentra su aspetti di natura sostanzialmente fattuale (ad esempio la circostanza che lo chef stellato in servizio nella precedente gestione non sia transitato nella nuova gestione a seguito della cessione), come tali inammissibili in sede di legittimità.
Infine, non può non considerarsi che la Commissione Tributaria Regionale ha valutato e tenuto in considerazione l’avviamento , e che
certo non è oggi più deducibile, dopo la riforma dell’art. 360 co. 1^ n. 5) cpc, la mera insufficienza motivazionale (Cass.SU n. 8053/14).
1.7. Il motivo è dunque inammissibile.
Con il secondo motivo di ricorso, parte ricorrente contesta la violazione ed errata applicazione dell’art. 12, comma 7 , l. 212/2000 (c.d. Statuto del contribuente). In particolare eccepisce la mancata partecipazione del contribuente al processo di formazione del convincimento dell’Ufficio e dell’atto impositivo, atteso che nessuna attività sarebbe stata effettuata con la cooperazione dei ricorrenti nè è stata resa nota alcuna spiegazione riguardo alle modalità di calcolo adottate.
2.1. Anche con riferimento a tale motivo valgono le considerazioni espresse con riferimento al primo motivo, con conseguente inammissibilità della censura.
2.2. In ogni caso, la censura è anche infondata: l’invocato art. 12 Stat. che dispone la partecipazione procedimentale vale solo per gli accessi nei locali, ma non per le verifiche c.d. a tavolino.
Nella fattispecie, al momento della verifica non era difatti ancora in vigore il nuovo art. 6 bis l. 212/2000 che ha esteso l’obbligo anche ai c.d. accertamenti a tavolino (introdotto dal d.lgs. 12 febbraio 2024, n. 13), che ha generalizzato l’obbligo di partecipazione procedimentale .
2.3. Sulla questione – si rammenta – è recentemente intervenuta anche la Corte Costituzionale, che ha circoscritto gli obblighi partecipativi alle ipotesi di tributi eurounitari affermando che ‘ il procedimento tributario costituisce una species del procedimento amministrativo ma, a differenza di quest’ultimo, non contiene previsioni generali in ordine alla formazione partecipata dell’atto impositivo che ne costituisce l’eventuale atto conclusivo. Nel procedimento di verifica fiscale in cui l’amministrazione attua il diritto dell’Unione Europea, questa è tenuta ad osservare gli obblighi derivanti dal diritto ad una buona amministrazione sancito dall’art. 41, paragrafo
1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Il contraddittorio endoprocedimentale, quale espressione del principio del “giusto procedimento” (in virtù del quale i soggetti privati dovrebbero poter esporre le proprie ragioni, in particolare prima che vengano adottati provvedimenti limitativi dei loro diritti), ha assunto un ruolo centrale nel nostro ordinamento, anche come criterio di orientamento non solo per l’interprete, ma prima ancora per il legislatore. Ciò vale anche in ambito tributario, dove il contraddittorio endoprocedimentale, da un lato, persegue lo scopo di “ottimizzare” l’azione di controllo fiscale, risultando così strumentale al buon andamento dell’amministrazione finanziaria; dall’altro, garantisce i diritti del contribuente, permettendogli di neutralizzare, sin dalla fase amministrativa, eventuali errori a lui pregiudizievoli ‘ (Corte Cost. 47/2023).
In linea è anche la giurisprudenza di questa Corte (Cass. 03/05/2023, n. 11518 ), che ha sottolineato l’inesistenza di un principio generale di contraddittorio preventivo in materie esulanti dai tributi c.d. armonizzati: ‘1.3 Sul punto, peraltro, pur rilevando che «(…) la mancata generalizzazione del contraddittorio preventivo con il contribuente, fin qui limitato a specifiche e ben tipizzate fattispecie, risulta ormai distonica rispetto all’evoluzione del sistema tributari o, avvenuta sia a livello normativo che giurisprudenziale», il giudice delle leggi ha recentemente ribadito che, «(…) dalla pluralità dei moduli procedimentali legislativamente previsti e dal loro ambito applicativo, emerge con evidenza la varietà e la frammentarietà delle norme che discipl inano l’istituto e la difficoltà di assumere una di esse a modello generale (…)» (Corte Cost., 21 marzo 2023, n. 47). Per cui, premesso che: «Il principio enunciato dall’art. 12, comma 7, statuto contribuente -la partecipazione procedimentale del contribuente -ancorché esprima una esigenza di carattere costituzionale, non può essere esteso in via generale tramite una sentenza di questa Corte; comunque
la soluzione proposta dal rimettente potrebbe creare disfunzioni nel sistema tributario, imponendo un’unica tipologia partecipativa per tutti gli accertamenti, anche ‘a tavolino’», se ne è desunto che: «Di fronte alla molteplicità di strutture e di forme che il contraddittorio endoprocedimentale ha assunto e può assumere in ambito tributario, spetta al legislatore, nel rispetto dei principi costituzionali evidenziati, il compito di adeguare il diritto vigente, scegliendo tra diverse possibili opzioni che tengano conto e bilancino i differenti interessi in gioco, in particolare assegnando adeguato rilievo al contraddittorio con i contribuenti» (Corte Cost., 21 marzo 2023, n. 47).
1.4 Nella specie, quindi, esulandosi dal campo dei c.d. ‘tributi armonizzati’, in assenza di una specifica previsione della disciplina nazionale e regionale, non può affermarsi l’esistenza di un obbligo di contradditorio preventivo, la cui mancanza possa i nvalidare l’atto impositivo; né può reiterarsi la proposizione di una questione di legittimità costituzionale dell’art. 12 della legge 27 luglio 2000, n. 212, in relazione ai parametri degli artt. 3 e 24 Cost., alla luce delle considerazioni già da ultimo manifestate in senso ostativo dal giudice delle leggi (Corte Cost., 21 marzo 2023, n. 47), sul condivisibile rilievo che: «Il principio enunciato dall’art. 12, comma 7, statuto contribuente -la partecipazione procedimentale del contribuente -ancorché esprima una esigenza di carattere costituzionale, non può essere esteso in via generale tramite una sentenza (…)» di illegittimità costituzionale ‘.
2.4. Alla luce di quanto sopra consegue che la tesi non può essere accolta, e manifestamente infondata deve ritenersi la così posta questione di legittimità costituzionale.
2.5. Anche il secondo motivo va dunque rigettato.
Il ricorso va conseguentemente rigettato nella sua interezza.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza, e sono liquidate nella misura indicata in dispositivo.
In conseguenza dell’esito del giudizio , ricorrono i presupposti processuali per dichiarare la sussistenza dei presupposti per il pagamento di una somma ulteriore pari al contributo unificato previsto per la presente impugnazione, se dovuto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
P.Q.M.
La Corte respinge il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 1.800,00 per compensi oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1bis , dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma, il 13/05/2025 .