Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 32517 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 5 Num. 32517 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 14/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 13394/2016 R.G. proposto da :
COGNOME, domiciliato ex lege in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO) che la rappresenta e difende
-controricorrente-
nonché contro
RAGIONE_SOCIALE domiciliata ex lege in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE,
rappresentata e difesa dall’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE
-controricorrente-
avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. della SICILIA-SEZ.DIST. CATANIA n. 1413/2015 depositata il 08/04/2015. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 27/09/2024
dal Consigliere NOME COGNOME.
Rilevato che:
In punto di fatto, dalla sentenza in epigrafe si apprende quanto segue:
La società RAGIONE_SOCIALE con separati ricorsi impugnava due avvisi di accertamento con i quali l’Agenzia delle entrate di Vittoria, a seguito di accesso del 15.6.2007, aveva proceduto a rettifica delle dichiarazioni IVA relative agli anni 2001 e 2002 escludendo il credito di imposta vantato dalla società e ciò in considerazione del fatto che pur avendo la società presentato istanza di condono ai sensi della L. 289/02, ciò non impediva all’Ufficio di procedere a rettifica di eventuali crediti non suffragati da adeguata documentazione, come statuito dalla Corte costituzionale con ordinanza del 27.7.2005 n. 340 .
Con successivo ricorso del 24.4.2009, la società impugnava la cartella esattoriale mediante la quale si richiedeva il pagamento delle somme iscrivibili a ruolo in conseguenza degli atti di accertamento emessi, contestando la legittimità dell’iscrizione a ruolo atteso che nessuna imposta risultava dovuta per non aver proceduto a chiedere a rimborso il credito di imposta vantato e considerato che non sussisteva alcun imponibile su cui calcolare l’imposta stessa .
La CTP di Ragusa, con sentenza del26.9.2009:
confermava la legittimità degli avvisi di accertamento emessi dall’Agenzia delle entrate per gli anni 2001 e 2002 e riteneva valida la notifica dell’atto impugnato;
-non ravvisava l’eccepita decadenza dell’azione di accertamento per decorso dei termini di legge (cioè il 31 Dic. del 4° anno successivo alla presentazione della dichiarazione IVA) atteso che tale termine deve ritenersi raddoppiato nei casi in cui l’Ufficio ha presentato denuncia penale ai sensi dell’art. 331 c.p.p. ;
-non riteneva ricorrente l’eccepito effetto preclusivo derivante dall’avere la società definito con condono gli anni 2001 e 2002 considerato che il condono non può consolidare crediti inesistenti in favore del contribuente, fittiziamente esposti in dichiarazione ;
riteneva infondato il ricorso poiché la ricorrente non aveva provato l’esistenza del credito IVA vantato;
-riteneva legittime le sanzioni applicate .
Per tali considerazioni rigettava il ricorso avverso l’avviso di accertamento.
La CTP riteneva invece fondato il ricorso avverso la cartella di pagamento la società non aveva chiesto a rimborso il credito IVA e quindi non sussistevano i presupposti per l’iscrizione a ruolo .
Proponevano appello in via principale la contribuente ed in via incidentale l’Agenzia delle entrate.
2.1. La CTR, nel contraddittorio altresì dell’agente della riscossione, con la sentenza in epigrafe, rigettava entrambi gli appelli, confermando la sentenza della CTP, sulla base della seguente motivazione:
L’appello dell’Agenzia delle Entrate non può essere accolto .
Egualmente non può essere condiviso l’appello della società RAGIONE_SOCIALE
Le eccezioni della società in ordine alla notifica dell’atto impugnato sono destituite di fondamento atteso che l’atto è stato correttamente notificato al procuratore della società. Le articolate censure inerenti la regolarità della formulazione e notifica dell’atto non possono essere condivise; infatti l’asserito salto nella numerazione delle pagine degli atti consegnati ovvero l’apposizione della relata sul frontespizio invece che in calce all’atto o altre asserite irregolarità formali, non inducono a ritenere che la società non abbia avuto piena conoscenza della pretesa dell’Ufficio ed infatti essa ha esercitato compiutamente ed ampiamente le sue difese.
Non può condividersi la censura relativa all’asserita decadenza dell’Ufficio circa l’azione di accertamento, fondata sul rilievo che non risulta che sia stato avviato un procedimento penale a seguito della denuncia dell’Amministrazione finanziaria; infatti l’art. 57 DPR 633/72 per il raddoppio dei termini, non richiede la condanna o l’avvio di un procedimento penale ma solo l’esistenza di una violazione che comporti l’obbligo di denuncia e questa è stata presentata in data 8.10.2004 ed ha determinato l’iscrizione di procedimento penale anche davanti al GIP.
La ventilata incostituzionalità del citato art. 57 risulta manifestamente infondata né l’appellante ha ipotizzato quale norma costituzionale sarebbe violata.
Le sanzioni sono state applicate legittimamente attesa la dichiarazione infedele della società.
L’atto di accertamento può ritenersi validamente sottoscritto dal direttore dell’Agenzia delle entrate.
La contribuente propone ricorso per cassazione con nove motivi. Resistono l’Agenzia delle entrate e l’agente della riscossione con rispettivi controricorsi (a ministero rispettivamente dell’Avvocatura Generale dello Stato e di difensore del libero foro).
Considerato che:
Con il primo motivo, indicato in ricorso come 1), si denuncia: ‘Omessa, violazione e falsa applicazione dell’art. 60 del d.p.r. 600/73 e 137, 148 e 156 c.p.c. in materia di notifica dell’atto e violazione dell’art. 112 c.p.c. Difetto di motivazione e violazione dell’art. 36 n. 4 del d.lvo 546/92 in relazione all’art. 360 comma 1 n. 4 5 c.p.c.’.
1.1. ‘In corso del procedimento di merito si era sollevata l’eccezione della inesistenza e/o nullità della notifica degli atti impugnati. Ancorché un ‘operatore tributario’ possa avere consegnato in data 23 novembre 2007 un atto fiscale al dr. NOME COGNOME quale domiciliatario della ricorrente, un tale atto non è stato mai prodotto in giudizio nei termini di legge e, non potendo essere utilizzato in giudizio, non avrebbe potuto essere posto a fondamento delle sentenze oggi impugnate. Esso non può essere utilizzato in giudizio perché lo stesso Ufficio nella persona del suo titolare, con comunicazione del 24 gennaio 2008 (agli atti del giudizio), ha disconosciuto una tale notifica. Infatti, con tale documento si afferma che la notifica (unica indicata in detto documento) era quella del 07 dicembre 2007, effettuata a mezzo posta. La notifica a mani del domiciliatario, mancando detto atto notificato nel fascicolo giudiziale, deve considerarsi non inesistente , siccome mai comprovata e documentata. Con la conseguenza che il giudizio su tale atto non è possibile in quanto manca proprio l’atto su cui dovrebbe fondarsi l’azione dell’Ufficio attore reale nella presente vertenza. Nei fatti, il contribuente ha contestato fin dall’inizio la validità ed esistenza della notifica, sia per palese incompletezza dell’atto consegnato o spedito, che per
mancanza della qualifica del messo notificatore. Sicché, a fronte di tale preliminare eccezione, l’Ufficio avrebbe avuto l’onere: a) di provare la legittimazione ad eseguire la notificazione in capo al soggetto che l’ha effettuata; b) di provare la conformità dell’atto consegnato o spedito con quello rimasto in atti in suo possesso ‘.
‘Nella fattispecie, l’Ufficio, dopo aveva tentato la notifica presso il domiciliatario dr. NOME COGNOME avvedutosi delle incompletezze ed irregolarità dell’atto (a causa della mancanza del foglio n 15) e della notificazione, effettua una nuova notifica al contribuente in persona, ritenendo che questa ultima sia valida e corretta sino al 24 gennaio 2008, data in cui invia la comunicazione già agli atti della Commissione. Ora, la consegna di un atto incompleto, qualunque sia il contenuto della parte mancante, ne rende nulla la notifica per il solo fatto che esso non sia stato integralmente portato a conoscenza del cittadino’.
‘Inoltre, con riferimento alla fattispecie che ci occupa, va ancora una volta rilavato che le notifiche dell’atto impugnato devono ritenersi inesistenti siccome la relata di notifica apposta nel frontespizio dell’atto non può essere sanata ex art. 156 c.p.c.’.
‘Anche la mancata certificazione di conformità degli atti consegnati con quelli notificati determina un vizio assoluto della stessa notifica per incertezza, mentre il fatto che l’Ufficio anche in sede di appello non abbia depositato in atti l’originale o una copia autenticata dell’atto impugnato determina un’incertezza assoluta su detto atto e conseguente infondatezza dell’azione dell’Ufficio’.
‘Va infine rilevato che la consegna dell’atto impugnato è stata effettuata in entrambe le ipotesi (vedasi relate depositate dall’Ufficio) da tale COGNOME NOME che non si è qualificato come messo notificatore, mentre il timbro da esso apposto indica in capo al soggetto notificatore la qualifica di ‘operatore tributario’ dipendente dall’Ufficio delle entrate di Vittoria. Sicché,
paradossalmente, dagli stessi atti prodotti in giudizio dalla intimata Agenzia delle entrate, si ha modo di rilevare l’insanabile irregolarità della notificazione, atteso che non soltanto la notifica dell’atto è stata eseguita da soggetto a ciò non legittimato, ma che alla data di notifica degli atti, l’Ufficio delle entrate da cui avrebbe dovuto dipendere il soggetto che ha effettuato la notifica, era stato abolito da otto anni ‘.
1.2. Il motivo -che di per sé confusamente cumula, sia nella rubrica che nello sviluppo argomentativo, censure eterogenee, presupponendo l’esercizio, da parte di questa S.C., di un ortopedico potere di ricostruzione ‘ex post’, precluso dal principio di necessaria chiarezza e precisione del ricorso in rapporto al principio di terzietà del giudice -è (ulteriormente) inammissibile per una pluralità di ragioni:
-non paventa, neppure in astratto, alcun pur rubricato ‘difetto di motivazione’, tanto più che è sufficiente una semplice lettura della sentenza impugnata per rilevare come la stessa esibisca una motivazione effettiva sia dal punto di vista grafico che dal punto di vista contenutistico, in tal guisa integrando pienamente il requisito del cd. minimo costituzionale, solo violato il quale rileva il denunciato vizio di omessa od apparente motivazione (Sez. U, n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830-01);
non paventa i presupposti della pur rubricata violazione dell’art. 360, comma 1, n, 5, cod. proc. civ., incorrendo oltretutto nella preclusione derivante dalla cd. doppia conforme di merito ai sensi dell’allora vigente art. 348 -ter cod. proc. civ.;
non paventa i presupposti della pur rubricata violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., specificando, mediante citazioni testuali, le devoluzioni rispetto alle quali la CTR sarebbe in infra od eventualmente ultra-petizione;
-pur ritenendo l”omessa, violazione e falsa applicazione dell’art. 60 del d.p.r. 600/73 e 137, 148 e 156 c.p.c.’, non deduce
il corrispondente paradigma censorio ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., né, nello sviluppo argomentativo, individua comunque le denunciate violazioni di legge, adducendone (partitamente) le ragioni in fatto ed in diritto;
non trascrive la (le) relata (relate) di notifica, di cui contesta la validità;
non individua la (le) procedura (procedure) di notifica seguita (seguite) dall’Ufficio, non chiarendo se si tratti di notifica a mani ovvero per posta;
-compie insistiti riferimenti ad atti e documenti, senza localizzarli nei fascicoli di merito e soprattutto senza riprodurli o quantomeno descriverli (ciò è a valere in particolare che per il ‘disconoscimento’ che l’Ufficio stesso avrebbe compiuto della notifica effettuata mediante consegna al domiciliatario della contribuente addì 23 novembre 2007).
Né il motivo -che di per sé non offre evidenza dell’allegata incompletezza della copia dell’atto notificato al ‘procuratore della società’ evocato nella sentenza impugnata si confronta con l’ulteriore considerazione di questa laddove vi è scritto che ‘l’asserito salto nella numerazione delle pagine degli atti consegnati ovvero l’apposizione della relata sul frontespizio invece che in calce all’atto o altre asserite irregolarità formali, non inducono a ritenere che la società non abbia avuto piena conoscenza della pretesa dell’Ufficio ed infatti essa ha esercitato compiutamente ed ampiamente le sue difese’. Ed invero la proposizione del ricorso avverso l’avviso di accertamento, senza che, finanche nel ricorso per cassazione, sia specificamente evidenziato in concreto alcun pregiudizio, rende ragione del pieno ed effettivo esercizio del diritto di difesa.
Pertanto -in ciò rivelandosi il motivo altresì manifestamente infondato -vale il principio per cui,, ‘l a notifica dell’avviso di accertamento, la cui relata sia stata apposta sul frontespizio di
quest’ultimo anziché in calce ad esso, non può dichiararsi nulla qualora non siano oggetto di specifica contestazione la completezza e conformità dell’atto notificato contenente, in ogni foglio, il numero della pagina e l’indicazione del numero complessivo di esse, atteso che, in tale modo, viene garantita all’interessato l’integrità dell’atto notificato, con il conseguente prodursi degli effetti sananti del raggiungimento dello scopo’ (Sez. 6-5, n. 23175 del 14/11/2016, Rv. 642020-01).
Inoltre, l’eventuale ‘salto’ di una pagina nella copia notificata non di per se stesso evolve in nullità, a misura che ciò non abbia inficiato la comprensibilità dell’atto: la qual cosa incombe al destinatario, che se ne duole, allegare e dimostrare; onere invece nella specie inottemperato, senza considerare che, a tenore dello stesso motivo, l’Ufficio, ‘avvedutosi’ della ‘mancanza del foglio n. 15’ nella copia notificata al domiciliatario, ‘effettua una nuova notifica al contribuente in persona’, di cui non sono dedotte irregolarità.
Infine, il timbro con la dicitura ‘operatore tributario’ riferibile all’incaricato della notifica non significa per ciò solo che costui non possieda la qualifica di messo notificatore; né il motivo esplicita donde risulti che, ‘alla data di notifica degli atti’ (data non specificata), ‘l’Ufficio delle entrate da cui avrebbe dovuto dipendere il soggetto che ha effettuato la notifica, era stato abolito da otto anni’.
Con il secondo motivo, indicato in ricorso come B), si denuncia: ‘Omessa e falsa applicazione dell’art. 57 del dpr 633/72 e 137, 148 e 156 cpc in materia di notifica dell’atto e violazione dell’art. 112 cpc. Art. 36 n 4 del d.lvo 546/92 in relazione all’art. 360 comma 1 n. 4 -5 c.p.c. – Inesistenza della notifica e decadenza del potere accertativo’.
2.1 ‘In corso del procedimento di merito si è eccepito il difetto di notifica degli atti impugnati e, in particolare, si era evidenziato
che detti atti non avevano raggiunto il loro scopo in quanto la notifica era mancante di tutti i requisiti di legge e che, essi, non erano comunque pervenuti alla ricorrente prima del 22 gennaio 2008, con la conseguenza della intervenuta decadenza del potere di accertamento ex art. 57 comma 1 del d.p.r. 633/73. Con l’ulteriore conseguenza che la notifica inesistente deve ritenersi a tutt’oggi non intervenuta, con le ovvie conseguenze in materia di decadenza maturata alla data odierna. Giova tuttavia evidenziare che uno degli atti in questione è relativo al periodo d’imposta 2001, la cui dichiarazione è stata presentata nell’anno 2002 e che, quindi, il termine di decadenza di cui all’articolo 57 del Dpr 633/72 spirava inevitabilmente in data 31 gennaio 2006 . Anche per il periodo d’imposta 2002, la cui dichiarazione risulta incontrovertibilmente presentata entro il 31 ottobre 2003 è comunque decorso il termine di decadenza, siccome detto termine è fissato nel 31 dicembre del quarto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione ‘. ‘Si era pure fatto rilevare che nessun raddoppio dei termini ex art. 57 comma 3 del dpr 633/72 spettava all’ufficio per l’anno 2001, siccome per tale annualità le imposte accertate dall’Ufficio non superano gli euro 32.316,26, cifra ben lontana da quella di €. 103,000,00 circa indicata dall’art. 4 del d.lvo 74/200. A tal fine la presunta denuncia effettuata in via collettiva e non specifica non avrebbe dovuto avere alcun effetto, mentre la CTR, siccome previsto dalla norma ed evidenziato dalla Corte Costituzionale con sent. n 247/2011, sarebbe stata legittimata ad entrare nel merito di detta denunzia ed a valutare della esistenza dei fatti che l’abilitavano al raddoppio dei termini . Per l’anno 2002 si era fatto rilevare che l’ipotetico reato di cui all’art. 4, ammesso che sia stato possibile concretizzarlo, sarebbe avvenuto in ogni caso nel 2003 ovvero alla data di presentazione della dichiarazione iva del 2002 e l’art. 57 comma III prevede il raddoppio dei termini solo per l’annualità in cui si è compiuta la
violazione e non per le altre’. ‘Per l’anno 2002 la odierna ricorrente aveva eccepito e documentato in sede processuale di aver reperito diverse fatture di acquisto relative al I, II e III trimestre. Tali fatture e per l’esattezza le fatture con numero di protocollo dal n. 1 al n. 192, erano state allegate in fotocopia giammai contestate dalla controparte, Esse elencano merce e servizi necessari all’azienda e riportano un ammontare di IVA assolta per euro 19.996,25. Con la conseguenza che l’importo della presunta evasione si riduce in via cartolare da euro 120.992,00 a euro 100.995,00. Con la conseguenza che non sussiste alcuna violazione che costituisca il reato di cui all’art. 4. Infine, a chiarificazione di quanto esposto ed a riprova della inesistenza del presupposto di applicazione del raddoppio dei termini, va evidenziato che tutti i procedimenti sorti sulla base del predetto rapporto del 2004, sono stati archiviati ‘.
2.2. Valgono considerazioni sovrapponibili a quelle già spese per il motivo precedente.
Il motivo -che di per sé confusamente cumula, sia nella rubrica che nello sviluppo argomentativo, censure eterogenee -è (ulteriormente) inammissibile per una pluralità di ragioni:
-non paventa, neppure in astratto, alcun pur rubricato ‘difetto di motivazione’;
non paventa i presupposti della pur rubricata violazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., incorrendo oltretutto nella preclusione derivante dalla cd. doppia conforme di merito ai sensi dell’allora vigente art. 348 -ter cod. proc. civ.;
non paventa i presupposti della pur rubricata violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., specificando, mediante citazioni testuali, le devoluzioni rispetto alle quali la CTR sarebbe in infra od eventualmente ultra-petizione;
-pur ritenendo l”omessa e falsa applicazione dell’art. 57 del dpr 633/72 e 137, 148 e 156 cpc’, non deduce il corrispondente
paradigma censorio ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., né, nello sviluppo argomentativo, individua comunque le denunciate violazioni di legge, adducendone (partitamente) le ragioni in fatto ed in diritto;
non trascrive la (le) relata (relate) di notifica, indicandone le date;
compie riferimenti ad atti e documenti, senza localizzarli nei fascicoli di merito e senza riprodurli o descriverli.
Né il motivo si confronta con l’ineccepibile considerazione della CTR secondo cui ai fini del raddoppio dei termini di accertamento è sufficiente la mera astratta configurabilità di una fattispecie penalmente rilevante.
In effetti -ciò che determina, altresì e comunque, la manifesta infondatezza del motivo -occorre rammentare l’insegnamento di C. Cost. n. 247 del 2011, a tenore del quale i termini raddoppiati di accertamento non costituiscono una ‘proroga’ di quelli ordinari, da disporsi a discrezione dell’amministrazione finanziaria procedente, in presenza di ‘eventi peculiari ed eccezionali’. Al contrario, i termini raddoppiati sono anch’essi termini fissati direttamente dalla legge, operanti automaticamente in presenza di una speciale condizione obiettiva (allorché, cioè, sussista l’obbligo di denuncia penale per i reati tributari previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000), senza che all’amministrazione finanziaria sia riservato alcun margine di discrezionalità per la loro applicazione. In altre parole, i termini raddoppiati non si innestano su quelli “brevi” di cui ai primi due commi dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972 in base ad una scelta degli uffici tributari, ma operano autonomamente allorché sussistano elementi obiettivi tali da rendere obbligatoria la denuncia penale per i reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000 . I termini raddoppiati di cui al terzo comma dello stesso
art. 57 operano in presenza di violazioni tributarie per le quali v’è obbligo di denuncia. È, perciò, del tutto irrilevante che detto obbligo possa insorgere anche dopo il decorso del termine ‘breve’ o possa non essere adempiuto entro tale termine. Ciò che rileva è solo la sussistenza dell’obbligo .
A mente di tale insegnamento, la giurisprudenza di questa Suprema Corte, a partire da Sez. 5, n. 16728 del 09/08/2016, Rv. 640966-01, è costantemente orientata nel senso che i termini previsti dagli artt. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973 per l’IRPEF e 57 del d.P.R. n. 633 del 1972 per l’IVA, nella versione applicabile “ratione temporis”, sono raddoppiati in presenza di seri indizi di reato che facciano insorgere l’obbligo di presentazione di denuncia penale, anche se questa sia archiviata o presentata oltre i termini di decadenza, senza che, con riguardo agli avvisi di accertamento per i periodi d’imposta precedenti a quello in corso alla data del 31 dicembre 2016 e già notificati, incidano le modifiche introdotte dall’art. 1, commi da 130 a 132, della l. n. 208 del 2015, attesa la disposizione transitoria ivi introdotta, che richiama l’applicazione dell’art. 2 del d.lgs. n. 128 del 2015, che fa salvi gli effetti degli avvisi già notificati.
Successivamente, nel medesimo senso, tra le altre, Sez. 5, n. 26037 del 16/12/2016, Rv. 641949-01, secondo cui, i termini , nella versione applicabile “ratione temporis”, sono raddoppiati in presenza di seri indizi di reato che facciano insorgere l’obbligo di presentazione di denuncia penale, anche se questa sia archiviata o presentata oltre i termini di decadenza, senza che, con riguardo agli avvisi di accertamento per i periodi d’imposta precedenti a quello in corso alla data del 31 dicembre 2016, incidano le modifiche introdotte dalla l. n. 208 del 2015, il cui art. 1, comma 132, ha introdotto, peraltro, un regime transitorio che si occupa
delle sole fattispecie non ricomprese nell’ambito applicativo del precedente regime transitorio -non oggetto di abrogazione – di cui all’art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 128 del 2015, in virtù del quale la nuova disciplina non si applica né agli avvisi notificati entro il 2 settembre 2015 né agli inviti a comparire o ai processi verbali di constatazione conosciuti dal contribuente entro il 2 settembre 2015 e seguiti dalla notifica dell’atto recante la pretesa impositiva o sanzionatoria entro il 31 dicembre 2015.
In definitiva, alla luce della disciplina temporalmente applicabile, a rilevare è il puro e semplice obbligo di denuncia, in ragione dell’astratta configurabilità degli estremi di reati tributari, competente in ordine alla verifica della concreta rilevanza dei quali è solamente il giudice penale, secondo le regole proprie del diritto penale, nell’ambito del relativo procedimento.
Con il terzo motivo, indicato in ricorso come C), si denuncia: ‘Violazione e mancata applicazione dell’art. 12 comma 7 l. n. 212/2000 nonché degli artt. 21 septies ed octies della legge 241/90, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 35 c.p.c.’.
3.1. ‘Anche per questa eccezione la CTR, nel confermare la sentenza del giudice di primo grado, non ha esaminato per nulla i fatti e le eccezioni dell’appellante ed è, quindi, priva di una adeguata motivazione. La violazione del termine dilatorio di sessanta giorni, previsto dal richiamato art. 12, è totale, come pure la violazione dei diritti alla difesa dell’interessato’. ‘ebbene l’Ufficio abbia ammesso di non aver aperto alcuna operazione di controllo, dall’altro esso afferma che l’accertamento è ben motivato. Nel richiamare il p.v. di accesso, l’Ufficio, tuttavia ha pure omesso di segnalare che, in entrambi i casi, non è stata constatata alcuna violazione a norme tributarie; che nel p.v.c. del 15/6/2007 il contribuente non è stato mai stato sentito infatti esso è stato sentito solo per esibire solo la certificazione rilasciata
dal depositario delle scritture contabili di cui all’art. 52 del dpr 633/72; che il pvc non è riferibile in alcun modo alla odierna ricorrente che nessuno si è curato di informare (all. n. 4). Tale p.v.c. è, quindi non produttivo di prova nella presente controversia, entre esso attesta l’apertura della verifica, anche se in maniera irrituale, ma in nessun caso alcuna sua conclusione. In ogni caso, esso non è utilizzabile per i fini di cui all’art. 51 del dpr 633/72, per non avere assegnato alcun termine di esibizione documentale. Con la conseguenza che esso non può essere post a base di alcun accertamento neanche presuntivo. Sull’assunto, che il p. v. di accesso non rileva ai sensi dell’art. 12 comma VII delle legge 212/2000, si tiene a precisare che la predetta norma, da un lato postula l’esistenza di un pvc di chiusura e, dall’altro, si collega con la portata dell’art. 24 della legge n. 4/29, ma in omaggio al principio di collaborazione, lealtà e buona fede, che espressamente richiama, prevede, comunque, un contraddittorio che ormai previsto come elemento fondamentale in ogni provvedimento amministrativo, anche tributario (Cass. 20770/2013). Infatti, o il p.v.c. del 15 giugno 2007 è da ritenere un atto di apertura della verifica, con la conseguenza che, in tal caso, manca il p.v.c. di chiusura verifica che constati le violazioni, ovvero il p.v.c. in questione risulta essere un semplice atto interlocutorio di richiesta documentale, che non ha valore constatativo e che non può essere posto a fondamento dell’accertamento. In entrambe le ipotesi, manca un p.v.c. di chiusura di verifica, unica procedura che a termine di legge consente la formazione di un atto di accertamento’. ‘Laddove l’ambito di applicazione della regola de qua fosse esclusivamente limitato al ‘processo verbale di constatazione’, sorgerebbero seri dubbi di legittimità costituzionale per difetto di giustificazioni logiche e razionali’. ‘ia il P.V.C. come anche il diverso atto endoprocedimentale conclusivo della verifica,
richiedendo i medesimi requisiti di forma e di sostanza, rientrano nel medesimo genus degli atti amministrativi adottati nell’ambito del procedimento tributario, in contraddittorio col soggetto sottoposto a verifica e in sede di conclusione dell’attività di controllo. Per quanto concerne il predetto requisito di forma, entrambi gli atti devono essere redatti, a pena d’invalidità dell’atto finale, in forma scritta . Circa i requisiti di sostanza, invece, è agevole osservare che sia per il P.V.C. che per il verbale di contraddittorio sono richiesti elementi essenziali, o strutturali, senza dei quali l’invalidità dell’atto prodromico, in virtù del principio dell’invalidità derivata, si riverbera sull’atto impositivo finale ‘. ‘L’avviso di accertamento che, in difetto di motivata urgenza, fosse emesso ante tempus, ossia prima dei prescritti sessanta giorni, si rivelerebbe lesivo del diritto di difesa e del diritto al contraddittorio’. ‘i era pure fatto notare che il pvc di accesso, al massimo avrebbe potuto aprire la verifica e non chiuderla e che, tanto l’art, 24 della legge 4/29, che l’art. 12 della legge 212/2000, chiedono espressamente un pvc di chiusura che determini l’entità delle violazioni e delle imposte presunte evase o comunque dell’entità dei disconoscimenti effettuati’. Il motivo prosegue, e si conclude, con ampie citazioni di giurisprudenza unionale ed interna sul principio del contraddittorio.
3.2. Il motivo è inammissibile.
Esso -che di per sé in rubrica cumula profili censori eterogenei; denuncia la violazione dell’art. 360, comma 1, n 5, cod. proc. civ. senza rappresentarne i presupposti ed in violazione della preclusione dell’art. 348 -ter cod. proc. civ. ‘ratione temporis’ vigente; incorre in contraddizione circa l’essere stato ‘il contribuente’ effettivamente ‘sentito ‘; cade in difetto di precisione e di autosufficienza, perché non descrive l’attività compiuta dall’Ufficio il 15 giugno 2007 ed il soggetto nel contraddittorio del quale è stata espletata e non riporta il contenuto
del processo verbale all’esito redatto, limitandosi a far riferimento ad un generico ‘all. n. 4’, non localizzato né riassunto né, men che meno, riprodotto; non indica la data di notifica degli avvisi di accertamento, impedendo ‘a priori’ di compiere alcuna verifica temporale; viepiù non allega e non dimostra (mediante, per autosufficienza, congrue riproduzioni testuali) che la questione della violazione dell’art. 12, comma 7, St. contr. nel totale silenzio della sentenza impugnata, la quale, non solo non la affronta nelle motivazioni in diritto, ma non la menziona tra quelle rassegnate dalla contribuente in primo (‘La società ricorrente oltre a varie eccezioni procedurali, nel merito ribadiva il suo diritto al credito di imposta’) ed in secondo grado (‘Avverso la sentenza ha proposto appello la società sostenendo la mancanza di valida notifica degli atti dell’Ufficio, la decadenza dell’azione di accertamento, l’illegittimità delle sanzioni applicate, l’inesistenza dell’atto per mancata sottoscrizione del pubblico ufficiale competente ed altre irregolarità’) e neppure riferisce avere la CTP, la cui sentenza purtuttavia puntualmente riassume, pronunciato sulla stessa -era già stata sollevata con gli atti introduttivi del giudizio e di poi ribadita in appello.
Invero, con riferimento ai ricorsi avverso gli avvisi di accertamento, che soli presentemente ne occupano (atteso l’annullamento della cartella già disposto dalla CTP), nella parte introduttiva del ricorso per cassazione si legge soltanto ‘che i ricorsi vertevano sulle seguenti eccezioni: a) inesistenza della notifica dell’atto e decadenza dal potere di accertamento; b) violazione dell’art. 6 e 12 dello statuto del contribuente; c) difetto di motivazione ed infondatezza; d) difetto procedurale e violazione dell’art 56 del dpr n. 633/72; e) violazione della legge 289/2002; f) irrogazione illegittima della sanzione di cui all’art 9 del divo 471/97; g) illegittima applicazione della sanzioni ed indebito raddoppio; h) inesistenza dell’atto impugnato; i) indeterminatezza
dell’atto impugnato; l) infondatezza dell’atto; m) indebito reclamo delle imposte e degli interessi. Con l’ulteriore richiesta di condanna dell’Ufficio al pagamento delle spese di giudizio’ (p. 3); parimenti, con riferimento all’appello, in detta parte introduttiva, si legge soltanto ‘che in data 11 gennaio 2011, previa notifica all controparti, l’odierna ricorrente, depositava appello proprio avverso detta sentenza limitatamente al capo relativo alla inesistenza della notifica dell’atto e decadenza del potere accertativo, facendo rilevare che l’intervenuta decadenza costituisce una pregiudiziale essenziale nel presente giudizio; violazione dell’art 6. e dell’art 12 della legge 212/2000; violazione procedurale ed infondatezza dell’atto accertativo; interpretazione erronea e falsa dell’art. 9 delle legge 289/2002 ; indebita ed illegittima interpretazione’.
Ne consegue che la censura di cui al motivo risulta, ‘ex se’ irritualmente, introdotta per la prima volta solo con il ricorso per cassazione.
Le esposte ragioni, come anticipato, ne determinano l’inammissibilità.
Il quarto ed il quinto motivo, per comunanza di censure, possono essere enunciati e trattati congiuntamente,
4.1. Con il quarto motivo, non meglio indicato in ricorso, si denuncia: ‘Violazione e mancata applicazione de art. 6 e 10 della legge n 212/2000 – in relazione all’art. 360 comma 1 n. 35 c.p.c. – violazione dell’obbligo informativo effetti dell’affidamento dei contribuente sulle leggi dello Stato e sulle istruzioni dell’Agenzia delle entrate’.
4.1.1. ‘Si è avuto modo di rilevare che sino alla data del 14 luglio 2005, data dell’ordinanza della Corte costituzionale n. 340, l’erario aveva sempre assicurato l’esclusione degli accertamenti tributari, sicché la ricorrente, in data 17 aprile 2004, ha presentato il condono in adesione della proposta dell’erario per la definizione dell’IVA. Tale adesione si è concretizzata a tale data sia per l’erario
che per il cittadino contribuente. Successivamente in data 15 giugno 2007 la ricorrente validamente ha fatto presente di aver conseguito tale fatto ai sensi dell’art. 9 comma XIII della legge n 289/2002 tuttora vigente. L’ufficio sino al 2008 nulla eccepì su tale punto essenziale della presente vertenza. La sentenza della CTR è stata emessa anche per invalidità del condono IVA. Invero la Corte di giustizia CEE ha eliso il condono IVA di cui alla legge 289/2002 e su tale sentenza è intervenuta la Corte di cassazione. Tuttavia entrambi le Corti hanno ritenuto che dovevano essere fatti salvi gli effetti derivanti dall’affidamento dei contribuente a tale legge ed alle istruzioni amministrative che ne sono derivate. In tale senso la Sentenza SS.UU. di cassazione n. 3673 del17 febbraio 2010 ‘. ‘In realtà l’Ufficio dopo l’accesso del 15 giugno 2007 una volta recepita la dichiarazione da parte del depositario delle scritture contabili, considerato che la odierna ricorrente aveva usufruito delle definizione di cui all’art. 9 comma X e XlII della legge 289/2002 che prevedeva la sospensione delle verifiche fiscali per i periodi in questione, piuttosto che recepirla come un rifiuto (siccome tale non era) avrebbe dovuto fare presente ai sensi dell’art. 6 comma II della legge 212/2000 che tale beneficio non operava più a causa del sopravvenire di ulteriori interpretazioni. Tuttavia si evidenzia che la legge sul condono ha pure una valenza contrattuale in quanto i cittadini potevano o non potevano accettare la transazione fiscale. Una volta intervenuta l’adesione, il contratto è da ritenersi definito ed esso non può essere unilateralmente sciolto. Deve quindi rilevarsi che alla data di conclusione del contratto entrambi i contraenti erano d’accordo e che nessun accertamento doveva effettuarsi in capo a colui che aveva aderito al condono’. ‘Anche su tale eccezione davanti alla CTP e in sede di appello l’Ufficio è rimasto silente, con evidente applicazione del principio di non contestazione. Tuttavia la CTR non ha esaminato ancora una volta l’eccezione con grave violazione dei
principi procedurali quali quello della completezza della motivazione delle sentenze (art. 112 c.p.c.) ed art. 36 del d.lvo 546/92’.
4.2. Con il quinto motivo, non meglio indicato in ricorso, si denuncia: ‘Omessa motivazione sulla mancata applicazione dell’art. 10 della legge n. 212/2000 in relazione all’art. 360 comma 1 n. 4-5 c.p.c. illegittimità della irrogazione di sanzioni’.
4.2.1. ‘Si è eccepito in corso del procedimento di merito che la depositaria, pur non rappresentando la ricorrente, aveva inteso portare avanti un diritto previsto dalla legge ex art. 9 legge 289/2002 comma X e XIII. Pure si era eccepito che una cosa è il potere di accertare imposta o di contestare rediti altra cosa è il potere irrogativo. Tuttavia è chiaro che tanto il depositario quanto l’odierna ricorrente si erano avvalsi di una disposizione di legge che la medesima Agenzia delle entrate fino a poco prima aveva ritenuto un assoluto caposaldo giuridico. Tali istruzioni certamente sono quelle che ai sensi dell’art. 10 comma II della legge n. 212/2000 sono inapplicabili’. ‘La CTR non ha esaminato l’eccezione sulla operatività del condono IVA. Di per sé ciò costituisce grave violazione procedurale tuttavia essa, ancora più gravemente, non ha inteso applicare il principio dell’affidamento e neppure quello della estinzione delle sanzioni e degli interessi quando un soggetto si sia conformato alle istruzioni della p.a. Il contribuente, infatti, ha fatto notare che le sanzioni sono state dichiarate estinte dall’art. 9 della legge 289/2002 e nessuna ordinanza o sentenza ha previsto che esse possano essere riesumate, infatti la loro estinzione è un fatto irreversibile che neppure una legge dello Stato poteva modificare. Esse si sono estinte irrimediabilmente con il pagamento della prima rata del condono avvenuta nel 2004’.
4.3. I motivi sono inammissibili e comunque manifestamente infondati.
Entrambi cumulano profili censori eterogenei e denunciano la violazione dell’art. 360, comma 1, n 5, cod. proc. civ. senza
rappresentarne i presupposti ed in violazione della preclusione dell’art. 348 -ter cod. proc. civ. ‘ratione temporis’ vigente.
Entrambi -che di per sé scontano il difetto originario di non riprodurre le parti rilevanti degli avvisi di accertamento -contengono riferimenti (espliciti ed impliciti) ad atti, documenti e circostanze fattuali senza localizzare e riprodurre (o quantomeno riassumere) i primi e senza individuare l’evidenza probatoria delle seconde.
Il quarto motivo -che solo nello sviluppo argomentativo prospetta la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., senza neppure evocare in rubrica il corrispondente paradigma censorio (art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ.) -disattende il costante principio secondo cui, ‘nel giudizio di legittimità, la deduzione del vizio di omessa pronuncia, ai sensi dell’art. 112 c.p.c., postula, per un verso, che il giudice di merito sia stato investito di una domanda o eccezione autonomamente apprezzabili e ritualmente e inequivocabilmente formulate e, per altro verso, che tali istanze siano puntualmente riportate nel ricorso per cassazione nei loro esatti termini e non genericamente o per riassunto del relativo contenuto, con l’indicazione specifica, altresì, dell’atto difensivo e/o del verbale di udienza nei quali l’una o l’altra erano state proposte, onde consentire la verifica, innanzitutto, della ritualità e della tempestività e, in secondo luogo, della decisività delle questioni prospettatevi. Pertanto, non essendo detto vizio rilevabile d’ufficio, la Corte di cassazione, quale giudice del ‘fatto processuale’, intanto può esaminare direttamente gli atti processuali in quanto, in ottemperanza al principio di autosufficienza del ricorso, il ricorrente abbia, a pena di inammissibilità, ottemperato all’onere di indicarli compiutamente, non essendo essa legittimata a procedere ad un’autonoma ricerca, ma solo alla verifica degli stessi’ (cfr., da ult., Sez. 2, n. 28072 del 14/10/2021, Rv. 662554-01). Ciò tanto più in quanto ‘la parte che, in sede di ricorso per cassazione, deduce che
il giudice di appello sarebbe incorso nella violazione dell’art. 112 c.p.c. per non essersi pronunciato su un motivo di appello o, comunque, su una conclusione formulata nell’atto di appello, è tenuta, ai fini dell’astratta idoneità del motivo ad individuare tale violazione, a precisare – a pena di inammissibilità – che il motivo o la conclusione sono stati mantenuti nel giudizio di appello fino al momento della precisazione delle conclusioni’ (Sez. 3, n. 41205 del 22/12/2021, Rv. 663494-01).
Ora, ai fini della dimostrazione della devoluzione della questione nei precisi termini esposti dal motivo alla CTP dapprima e, soprattutto, in ragione delle affermazioni di questa nella sentenza di primo grado (di cui subito si dirà), alla CTR dappoi, è del tutto insufficiente il generico riferimento, quanto al primo grado, alla ‘violazione dell’art. 6 e 12 dello statuto del contribuente’ (cfr. p. 3 ric. cass.) e, quanto al secondo grado, alla ‘violazione dell’art. 6 e dell’art. 12 della legge 212/2000’ (cfr. p. 5 ric. cass.).
Quanto testé detto a proposito del quarto motivo è ‘a fortiori’ replicabile a proposito del quinto.
A prescindere dalla considerazione che questo è rubricato ‘sub specie’ di un”omessa motivazione’ laddove in realtà, nello sviluppo argomentativo, letteralmente deduce un’omessa pronuncia (‘La CTR non ha esaminato l’eccezione sulla operatività del condono IVA’), né in esso né più in generale nella narrativa del ricorso è esplicitato donde ‘si eccepito in corso del procedimento di merito che la depositaria, pur non rappresentando la ricorrente, aveva inteso portare avanti un diritto previsto dalla legge ‘, con conseguente illegittimità dell’irrogazione di non meglio specificate sanzioni (stante la mancata riproduzione degli avvisi) anche per violazione del principio di affidamento.
A fronte di ciò, la ‘mancata applicazione dell’art. 10 della legge n. 212/2000′, di cui ragiona la rubrica del motivo, non figura tra i motivi dei ricorsi in primo e, soprattutto, ritenuta dalla CTP (secondo quanto riferisce la sentenza impugnata) l’irrilevanza dell”affidamento della società ricorrente sul condono presentato’, in secondo grado, che solo per stringatissimi ed insufficienti cenni sono richiamati nella parte introduttiva del ricorso per cassazione. In particolare, patentemente insufficienti a delineare le devoluzioni alla CTP sono i riferimenti, quanto al primo grado, alla ‘f) irrogazione illegittima della sanzione di cui all’art. 9 del divo 471/97; g) illegittima applicazione della sanzioni ed indebito raddoppio’ (p. 3 ric. cass.), e, quanto al secondo grado, alla ‘interpretazione erronea e falsa dell’art. 9 delle legge 289/2002; indebita ed illegittima interpretazione. L’appellante ha pure evidenziato l’illegittimità della irrogazione di sanzioni, dell’inesistenza dell’atto accertativo, del reclamo dell’imposta e degli interessi e quindi dell’eccesso di potere in relazione alla iscrizione a ruolo dell’imposta ‘ (p. 5 ric. cass.).
4.3.1. Entrambi i motivi sono, altresì e comunque, manifestamente infondati.
Ciò è adirsi anzitutto quanto alla violazione, prospettata nello sviluppo argomentativo del quarto motivo, dell’art. 112 cod. proc. civ., non ricorrendo un’ipotesi di omessa pronuncia, bensì di pronuncia implicita di rigetto. Ed invero la CTR -rammentato non avere la CTP ritenuto ‘l’eccepito effetto preclusivo derivante dall’avere la società definito con condono gli anni 200l e 2002 considerato che il condono non può consolidare crediti inesistenti in favore del contribuente, fittiziamente esposti in dichiarazione così consentendo al contribuente di far divenire credito anche quello derivante da fatture inesistenti, poiché in tal caso si determinerebbe un illecito arricchimento in danno dello Stato’ ha necessariamente condiviso tale prospettiva nel momento in cui ha
espressamente confermato la sentenza di primo grado (‘La sentenza va quindi confermata ‘), rigettando l’appello della contribuente (giacché viceversa essa medesima avrebbe dovuto ritenere l’effetto preclusivo).
Riguardo al quinto motivo, sia sufficiente rilevare che la motivazione della sentenza impugnata pronuncia esplicitamente ed oltretutto motivatamente sulle sanzioni, affermando, alla stregua di un asserto ignorato dal motivo, che ‘le sanzioni sono state applicate legittimamente attesa la dichiarazione infedele della società’.
Fermo quanto innanzi, ad ogni modo, relativamente alle questioni in sé poste nei due motivi in disamina, a prescindere dal fatto che la violazione del principio di affidamento può ‘in limine’ rilevare solo sul piano delle obbligazioni accessorie, ma non anche sul piano del rapporto d’imposta (Sez. 5, n. 5934 del 25/03/2015, Rv. 63500801: ‘ Il legittimo affidamento del contribuente comporta, ai sensi dell’art. 10, commi 1 e 2, della legge 27 luglio 2000, n. 212, l’esclusione degli aspetti sanzionatori, risarcitori ed accessori conseguenti all’inadempimento colpevole dell’obbligazione tributaria, ma non incide sulla debenza del tributo, che prescinde del tutto dalle intenzioni manifestate dalle parti del rapporto fiscale, dipendendo esclusivamente dall’obiettiva realizzazione dei presupposti impositivi’), ciò determinando il disattendimento ‘a monte’ del quarto motivo, viene in conto il chiaro tenore letterale della motivazione dell’ordinanza n. 340 del 2005 della Corte costituzionale, laddove spiega che : a) l’art. 9, comma 9, terzo periodo, della legge n. 289 del 2002 si limita a stabilire che la definizione automatica delle imposte «non modifica l’importo degli eventuali rimborsi e crediti derivanti dalle dichiarazioni presentate ai fini delle imposte sui redditi e relative addizionali, dell’imposta sul valore aggiunto, nonché
dell’imposta regionale sulle attività produttive»; b) l’art. 9, comma 10, lettera a), della stessa legge dispone soltanto la preclusione di ogni accertamento tributario nei confronti del dichiarante e dei soggetti coobbligati, nel caso di perfezionamento della definizione automatica delle imposte;
che, in particolare, la prima delle due norme ora citate va intesa nel senso che il condono non influisce di per sé sull’ammontare delle somme chieste a rimborso, non impone al contribuente la rinuncia al credito e non impedisce all’erario di accogliere tali richieste, allorché la pretesa di rimborso sia riscontrata fondata;
che la seconda norma citata preclude bensì l’accertamento dei debiti tributari dei contribuenti che hanno ottenuto il condono, ma non impedisce l’accertamento dell’inesistenza dei crediti posti a base delle richieste di rimborso, data la natura propria del condono, che incide sui debiti tributari dei contribuenti e non sui loro crediti;
che pertanto, nell’ipotesi di operazioni inesistenti per le quali non sia stata versata l’IVA e per le quali sia stato richiesto il rimborso dell’imposta, le censurate disposizioni non impongono affatto all’erario di procedere al rimborso, nel caso di intervenuto condono fiscale, né inibiscono accertamenti diretti a dimostrare l’inesistenza dell’invocato diritto al rimborso;
che tale esito interpretativo non solo deriva dalla semplice lettura delle norme denunciate e dalla indicata natura dell’istituto del condono, ma risulta anche coerente con la giurisprudenza della Corte di cassazione, che in più occasioni ha affermato, da un lato, che la detrazione dell’IVA non è ammessa, per difetto del requisito dell’inerenza all’impresa, in caso di operazioni materialmente inesistenti (Cass., n. 14337 del 2002 e n. 9665 del 2000) e, dall’altro, che, in
generale, il condono non vale di per sé a consolidare i crediti IVA richiesti a rimborso e non vagliati dall’Amministrazione finanziaria (Cass., n. 6429 del 1996 e n. 9646 del 1993);
che, poiché a questa interpretazione si perviene indipendentemente dall’esistenza di una espressa disposizione che la imponga, è irrilevante che le norme denunciate non contengano una disposizione analoga a quella contenuta in una precedente legge di condono (art. 52 della legge n. 413 del 1991, indicato dal rimettente quale tertium comparationis), secondo la quale il contribuente era ammesso a godere di quel condono alla condizione della previa eliminazione degli effetti provocati dall’operazione inesistente.
L’insegnamento della Corte costituzionale è condiviso, come emerge dal testo stesso dell’ordinanza, dalla giurisprudenza di legittimità, finanche risalente, con specifico riguardo ai crediti IVA.
Per vero, alla luce di Sez. U, n. 16692 del 06/07/2017, Rv. 644800-01, siffatta condivisione è più ampia, investendo, oltreché i crediti IVA, le agevolazioni in genere.
Sez. U, n. 16692 del 2017, infatti, enuncia il principio per cui, in tema di cd. ‘condono tombale’, l’Erario può accertare i crediti da agevolazione esposti dal contribuente nella dichiarazione, in quanto il condono – avendo come scopo il recupero di risorse finanziarie e la riduzione del contenzioso e non già l’accertamento dell’imponibile – elide in tutto o in parte, per sua natura, il debito fiscale, ma non opera sui crediti che il contribuente possa vantare nei confronti del fisco, che restano soggetti all’eventuale contestazione da parte dell’Ufficio.
Ora, quel che rileva ai fini del presente giudizio, in cui si discute di un credito IVA, è che il principio innanzi riportato -già appartenente, persino nella sua ampia portata, alla giurisprudenza
di legittimità (cfr., per l’esemplare chiarezza, Sez. 5, n. 16157 del 03/08/2016, Rv. 64076901′) non è mai stato revocato in dubbio relativamente ai crediti IVA.
Lo sottolineano le Sezioni Unite, le quali, nell’esporre, in motivazione, il contrapposto orientamento minoritario, specificano come lo stesso sia maturato in realtà nel solo ambito delle agevolazioni, per una pretesa diversità strutturale di queste rispetto ai crediti IVA.
Invero, le Sezioni Unite, dopo aver ricordato che,
a.secondo Cass. 17 febbraio 2016, n. 3112, l’orientamento maggioritario della Corte ha avuto riguardo all’ipotesi di credito iva illegittimamente compensato a causa dell’inesistenza delle operazioni, da tenere ben distinta da quella del credito d’imposta generato da agevolazione, espressamente considerata come condonabile dal legislatore;
b.a queste considerazioni, incentrate sulla non comparabilità tra credito iva da operazioni inesistenti e credito da agevolazione, Cass. 22 luglio 2016, n. 15195 ha aggiunto che il comma 9 dell’art. 9 I. n. 289/02 precluderebbe l’accertamento e, in particolare, l’avviso di recupero del credito da agevolazione, qualora il credito da agevolazione risulti incluso nella dichiarazione integrativa, in tal modo giovandosi del crisma della definitività;
c.- le osservazioni sono state successivamente ribadite da Cass. 3 agosto 2016, nn. 16186 e 16187, spiegano che l’argomento dinanzi indicato sub a., che innerva tutte le sentenze riconducibili all’orientamento minoritario, è in realtà ininfluente ai fini dell’interpretazione delle disposizioni in esame, giacché, in relazione al c.d. condono tombale, le peculiarità dell’iva rilevano in senso affatto diverso da quello assunto.
Queste peculiarità, date dal fatto che si tratta di un tributo armonizzato, non incidono sull’applicazione del comma 9 dell’art. 9 I. n. 289/02, conformandone gli esiti alla natura armonizzata, ma escludono in radice l’applicabilità stessa dell’intero art. 9, compresi, quindi, i suoi commi 9 e 10.
Ad acquisire centralità ai fini della decisione nel presente giudizio è quanto subito in appresso soggiungono le Sezioni, osservando che il condono di per se stesso va difatti disapplicato quanto all’iva, giusta la sentenza (Corte giust. 17 luglio 2008, causa C-132/06), con la quale la grande sezione della Corte di giustizia ne ha affermato il contrasto con gli artt. 2 e 22 della sesta direttiva e con l’art. 10 Ce, in quanto consente ai contribuenti che non hanno osservato gli obblighi in materia di iva, relativi agli esercizi d’imposta compresi tra il 1998 ed il 2001, di sottrarvisi definitivamente e di sfuggire anche alle relative sanzioni, versando una somma forfetaria sproporzionata rispetto all’importo dovuto, ragguagliato al fatturato realizzato, con uno squilibrio che conduce ad una quasiesenzione fiscale (Cass. 7 febbraio 2013, n. 2915, seguita senza oscillazioni: si vedano, tra molte, 13 novembre 2013, n. 25492; 26 febbraio 2014, n. 4630; 26 gennaio 2015, n. 1288; 24 giugno 2015, n. 13068; 16 ottobre 2015, n. 20960; 15 aprile 2016, n. 7490; 22 aprile 2016, n. 8115); laddove, in quest’ambito, l’interpretazione da assegnare all’art. 9, comma 9, I. n. 289/02, quando è svolta da questa Corte, lo è sovente, dopo Cass. n. 2915/13, per mere esigenze di completezza della motivazione (vedi, tra varie, Cass. 11 marzo 2015, n. 4873 e 14 ottobre 2015, n. 20642).
Di conseguenza, nel condivisibile schema espositivo delle Sezioni Unite, è a concludersi che,
quanto ai crediti IVA, la possibilità per l’Erario di procedere ad accertamento discende ‘sic et simpliciter’ dalla disapplicazione del condono al cospetto del contrasto della sua previsione, in quanto tale, con il diritto dell’Unione: la qual cosa equivale a dire che, nell’ambito dell’IVA (e più latamente delle imposte armonizzate), il condono, dovendo essere disapplicato, non può produrre alcun effetto, compreso quello -in realtà comunque di per sé non avente alcun fondamento (come affermato dalla Corte costituzionale) nelle previsioni dell’art. 9 l. n. 289 del 2002 -di precludere l’esercizio del potere di accertamento .
Pertanto, tirando le somme di tutto quanto detto sin qui, la linea di continuità che, nella giurisprudenza di legittimità, sin da epoca risalente, come ricordato dalla Corte costituzionale, esclude l’effetto di consolidamento dei crediti IVA chiesti a rimborso in conseguenza dell’accesso al condono, tanto più a quello della l. n. 289 del 2002, di per sé da disapplicarsi perché radicalmente contrario al diritto dell’Unione, parallelamente esclude in radice alcun affidamento su cui la contribuente abbia potuto contare, con la conseguenza che anche il quinto motivo -oltreché il quarto -deve essere disatteso.
Con il sesto motivo, non meglio indicato in ricorso, si denuncia: ‘In relazione all’art. 360 comma 1 n. 4 e 5 c.p.c. Mancato esame e difetto di motivazione su un punto decisivo della controversia, dell’art. 52 comma IX e dell’art. 54 del dpr 633/72, e preclusione agli accessi ex art. 9 comma XIII della legge 282/2009’.
5.1. ‘Si rileva che è pacifico che l’Ufficio, in sede di accesso, si è rivolto direttamente ed esclusivamente al depositario delle scritture contabili che era ed è privo di potere di rappresentanza. Infatti, se da un lato la dichiarazione di rifiuto del depositario ha valore giuridico impegnativo per il contribuente, in nessun altro
caso le sue dichiarazioni possono impegnare il contribuente. Manca in via assoluta quindi ogni prova di omessa esibizione delle scritture mentre dall’altro manca ogni rifiuto diretto da parte del contribuente che giammai è stato sentito dall’Agenzia delle entrate in merito. In nessun altro momento sono state chieste le scritture contabili direttamente al contribuente oppure in via legittima al predetto depositario. In ogni caso il predetto depositario al momento dell’accesso non ha fatto altro che attenersi al principio di legge tuttora vigente di cui all’art. 9 comma XlII della legge 289/2002 che, appunto, fa sì che in sede di accesso debba rilasciarsi la dichiarazione di intervenuto condono al solo fine di bloccare l’accesso mentre nulla si doveva precisare sulla documentazione richiesta’. ‘La violazione dell’art. 54 comma II del dpr 633/72 richiede che le omissioni e le infedeltà della dichiarazione, quando non emergano direttamente da essa, siano accertate mediante una verifica delle registrazioni. Verifica che nella fattispecie non esiste e che, tuttavia, non è possibile fare senza avere sentito il contribuente o avergli dato la possibilità di essere sentito, mentre agli atti manca un qualsivoglia pvc che abbia visto il contribuente o un suo rappresentante dichiarare la volontà di non esibizione documentale. A tal fine la dichiarazione del depositario non ha valore. Nella impugnata sentenza si rinviene il vizio dell’erronea interpretazione e della falsa applicazione de 52 comma IX, dell’art. 54 comma II e dell’art. 9 comma XIII della legge 289/2002. L’atto è quindi illegittimo ed infondato. Tale era l’eccezione riproposta alla CTR, eccezione di cui al punto C dell’appello.
Tuttavia la sentenza della predetta CTR non esamina per l’eccezione, concentrandosi sul fatto che il condono non consoliderebbe per nulla i crediti iva e che è onere del contribuente che chiede il rimborso d’imposta dimostrare un tale credito. Infatti la motivazione della sentenza riporta tra l’altro: ‘… discende la
conseguenza che l’importo di rimborso di crediti inseriti nella dichiarazione iva, benché non ulteriormente modificabile /o emendabile permane comunque soggetto alla facoltà di contestazione da parte dell’a.f. Particolarmente quando l’importo chiesto a rimborso si ritenga mai versato in quanto riferito a operazioni inesistenti’. La sentenza della CTR con tale motivazione è infondata in fatto ed in diritto ‘.
5.2. Il motivo è inammissibile.
È cumulativo.
Deduce la violazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ. senza rappresentarne i presupposti ed in violazione della preclusione della doppia conforme di merito.
Non indica -mediante idonee riproduzioni testuali -se e come le questioni dedotte siano state devolute ai giudici di merito. In particolare, non figurando gli evocati parametri normativi nel fugacissimo resoconto dei motivi negli atti introduttivi dei due gradi di merito (pp. 3 e 5 ric. cass.), il richiamo, nel motivo, all”eccezione di cui al punto C dell’appello’ è totalmente priva di precisione ed autosufficienza.
Aggredisce una motivazione, citata testualmente, che tuttavia non figura nell’estensione grafica della sentenza impugnata (dianzi riprodotta).
Non riproduce il processo verbale redatto in occasione dell’accesso.
Dà per ‘pacific’ una circostanza, circa l’essersi ‘l’Ufficio, in sede di accesso, rivolto direttamente ed esclusivamente al depositario delle scritture contabili che era ed è privo di potere di rappresentanza’, che invece avrebbe dovuto dimostrare, non essendo in alcun modo esplicitato donde essa risulti (tanto più che, come già detto, il ricorso in sé non si perita di riportare e circostanziare il processo verbale redatto al momento dell’accesso,
che neppure è dato di comprendere al cospetto di quale soggetto sia stato effettivamente svolto).
È contraddittorio, perché afferma che ‘la dichiarazione di rifiuto del depositario ha valore giuridico impegnativo per il contribuente’, salvo poi aggiungere che ‘il predetto depositario al momento dell’accesso non ha fatto altro che attenersi al principio di legge tuttora vigente di cui all’art. 9 comma XIII della legge 289/2002 che, appunto, fa sì che in sede di accesso debba rilasciarsi la dichiarazione di intervenuto condono al solo fine di bloccare l’accesso mentre nulla si doveva precisare sulla documentazione richiesta’, riconoscendo pertanto che la documentazione è stata richiesta ma non esibita, come del resto ritenuto dalla CTR, che, alla stregua di un non censurato asserto in fatto contenuto nella parte della sentenza impugnata relativa allo svolgimento del processo, riferisce che ‘nel caso in esame era stato disposto un accesso per proceder ad ispezione documentale delle fatture di acquisto relative agli anni 2001 e 2002 ma la società depositaria delle scritture contabili si era rifiutata di esibire le fatture giustificando tale rifiuto con la circostanza che per i predetti anni era stata presentata istanza di condono ai sensi della L. 289/02’.
Ciò detto, stante quanto osservato a proposito dei due precedenti motivi di ricorso, il condono non impedisce l’azione accertativa, e quindi anche i prodromi istruttori, in riferimento ai crediti IVA (oltreché alle agevolazioni). Donde altresì la manifesta infondatezza del motivo.
Con il settimo motivo, non meglio indicato in ricorso, si denuncia: ‘In relazione all’art. 360 comma 1 n. 4 e 5 c.p.c. Mancato esame e difetto di motivazione su un punto decisivo della controversia, esistenza o meno di una verifica / controllo in data 15/6/2007. Inversione dell’onere della prova’.
6.1. ‘La CTR si è limitata a respingere gli appelli sia di parte che dell’Ufficio, mentre, per il resto, non ha assunto alcuna
posizione né sulla fondatezza della pretesa erariale, né sulla esistenza o meno di una verifica posta a suo fondamento. La CTR non aggiunge altro e non dà alcun titolo giuridico alla sua statuizione. Si ribadisce che nel processo tributario è l’Ufficio l’attore su cui grava l’onere della prova . Nel premettere che la ricorrente non ha mai adito l giudice per farsi riconoscere il diritto al rimborso ed al credito, ma solo per chiedere l’annullamento per palese illegittimità ed infondatezza di un atto di accertamento l’Ufficio non ha dimostrato che l’importo della detrazione in dichiarazione non esista o si sia estinto o modificato, tant’è che l’accertamento da esso proposto è privo di prova o pvc che dimostri alcuno di tali fatti’. ‘on v’è alcun dubbio che nella fattispecie nessuna richiesta sia stata fatta dall’a.f. al contribuente il quale nulla avrebbe potuto esibire e quindi di nulla l’a.f. avrebbe potuto lagnarsi’. ‘Ora essendo ben chiaro che nell’anno 2002 nessun rimborso è stato chiesto dalla ricorrente non si può chiedere alcun onere di prova alla stessa, si ha quindi l’omessa applicazione dell’art. 2697 c.c. la sua erronea e falsa interpretazione che fa sì che la sentenza impugnata sia illegittima e vada cassata’.
6.2. Fermo -in riferimento all”esistenza o meno di una verifica / controllo in data 15/6/2007′ quanto già detto a proposito del terzo motivo, il presente -di per sé inammissibile siccome cumulativo; deducente la violazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ. senza rappresentarne i presupposti ed in violazione della preclusione della doppia conforme di merito; non autosufficiente, perché non esplicita se, ed in quali esatti termini, le questioni dedotte lo siano state anche nei gradi di merito (cfr. pp. 3 e 5 ric. cass., che non consentono un riscontro in tal senso); non riproduce gli atti del procedimento amministrativo (con particolare riguardo al processo verbale del 15 giugno 2007 ed agli avvisi di accertamento) e non rende conto delle circostanze fattuali evocate
(quale la mancata richiesta di rimborso nel 2002) -è (altresì e comunque) manifestamente infondato.
La sentenza impugnata -dopo aver ricordato che la sentenza di primo grado ‘riteneva infondato il ricorso poiché la ricorrente non aveva provato l’esistenza del credito IVA vantato’ -espressamente, come già detto, conclude nel senso che ‘la sentenza va quindi confermata’.
In tale quadro, del tutto decentrato appare il motivo rispetto all’insegnamento a termini del quale, ‘s econdo la disciplina dell’IVA, la deducibilità dell’imposta pagata per l’acquisizione di beni o servizi inerenti all’esercizio dell’impresa, prevista dall’art. 19 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n.633, postula che il contribuente sia in possesso delle relative fatture, le annoti nell’apposito registro (art. 25), e conservi le une e l’altro. Ne consegue che l’ufficio finanziario, in presenza di una denuncia annuale che faccia valere le suddette poste a credito senza che esse trovino rispondenza in quelle fatture ed in quel registro, è legittimato e tenuto nell’accertamento in rettifica a depennare tali poste. Come nel caso di contestazione di indebita detrazione di fatture perché relative ad operazioni inesistenti, infatti, la prova della legittimità e della correttezza delle detrazioni IVA deve essere fornita dal contribuente con l’esibizione dei documenti contabili legittimanti, in mancanza della quale la detrazione va ritenuta indebita e, conseguentemente, l’ufficio può recuperare a tassazione l’imposta irritualmente detratta’ ( Sez. 5, n. 1592 del 26/01/2006, Rv. 586832-01; Sez. 5, n. 11109 del 16/07/2003, Rv. 565115 – 01).
In punto di rifiuto della ‘società depositaria delle scritture contabili’ riprendendosi nuovamente le parole della CTR nella sentenza impugnata -‘di esibire le fatture giustificando tale rifiuto con la circostanza che per i predetti anni era stata presentata istanza di condono ai sensi della L. 289/02’, valgono le considerazioni espresse a proposito del motivo precedente.
Con l’ottavo motivo, non meglio indicato in ricorso, si denuncia: ‘ In relazione all’art. 360 comma 1 n 4 e 5 c.p.c. Mancato esame e difetto di motivazione su un punto decisivo della controversia, esistenza o meno di una verifica l controllo in data 15/6/2007 per violazione dell’art. 12 della legge 212/2000’.
7.1. ‘ Si era eccepito in corso del procedimento di merito l’omessa indicazione nell’ordine di servizio che aveva aperto la verifica del 2007, dei dati e delle motivazioni richieste, tanto dall’art. 7 che dall’art. 2 della legge 212/2000. Tanto l’ordine di servizio che il successivo pvc del 15/6/2007 non contengono alcuna menzione della motivazione per cui si è aperta la verifica. Invero, tale pvc neppure motiva il fatto che lo stesso non abbia formato e depositato in atti il pvc redatto nei confronti dell’amministratore unico della ricorrente NOME COGNOME con il quale si acquisiva peraltro la dichiarazione di tenuta scritture contabili (vedi pvc del 15/6/2007). Infatti, è d’uopo considerare che in mancanza di indicazioni diverse nel pvc, nessuna delle informazioni previste dall’art. 12 citato sia stata fornita tanto al contribuente che alla depositaria delle scritture contabili. Tale omissione comporta l’annullabilità degli atti ex art. 21 octies della legge 241/90 e ciò tanto per gli atti medesimi che per gli atti impugnati per illegittimità derivata. Anche tale eccezione fu prontamente fatta in sede di ricorso, ma essa è stata disattesa senza motivazione dalla CTP con la semplice motivazione che: ‘non sussiste l’eccepita violazione dello statuto del contribuente”. Invero tale decisione non solo non è motivata sul punto ma è pure assolutamente inconsistente né pertinente . L’eccezione è stata ripresentata presso la CTR che purtroppo neppure l’ha esaminata e, quindi, l’ha totalmente disattesa. Gli atti impugnati restano, pertanto, infondati, proprio perché non esistono validi pvc che attestino una omissione o violazione dell’appellante’.
7.2. Anche il presente motivo è inammissibile.
Fermo nuovamente -in riferimento all”esistenza o meno di una verifica / controllo in data 15/6/2007′ quanto già detto a proposito del terzo motivo, il presente è cumulativo; deduce la violazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ. senza rappresentarne i presupposti ed in violazione della preclusione della doppia conforme di merito; non è autosufficiente, perché non esplicita se, ed in quali esatti termini, le questioni dedotte lo siano state anche nei gradi di merito (cfr. pp. 3 e 5 ric. cass., che non consentono un riscontro in tal senso); non riproduce gli atti del procedimento amministrativo (con particolare riguardo al processo verbale del 15 giugno 2007 ed agli avvisi di accertamento, dei quali dunque non consente il controllo motivazionale); rivolge critiche alla sentenza di CTP, adducendo di aver riproposto una non meglio circostanziata ‘eccezione’ ‘presso la CTR’, senza individuare con precisione l’eccezione, senza citare congruamente la sentenza di primo grado e senza riprodurre ‘in parte qua’ l’atto di appello.
Con il nono motivo, non meglio indicato in ricorso, si denuncia: ‘ In relazione all’art. 360 comma 1 n. 4 e 5 c.p.c. Mancato esame e difetto di motivazione su un punto decisivo della controversia Difetto di attribuzione e inesistenza dell’atto’.
8.1. ‘Si era sollevato in corso del procedimento di merito, tanto davanti alla CTP che, successivamente, in sede di appello, il vizio di inesistenza dell’atto per essere stato sottoscritto da parte di soggetto in difetto di attribuzione’. Seguono richiami normativi. Indi il motivo riprende: ‘Nella fattispecie l’avviso di accertamento impugnato non risulta sottoscritto nelle richiamate forme di legge ed esso, pertanto, deve ritenersi del tutto inesistente per difetto di sottoscrizione ed emanazione, essendo il presente avviso sottoscritto soggetto cui non è stata delegata la relativa funzione o la cui attribuzione non sia stata resa pubblica ai sensi del Il comma dell’art. 4 della citata legge 241/90. L’assenza di una specifica delega resa pubblica, rafforza, quindi, l’inesistenza
dell’atto, anche se si fosse operato nel sistema della precedente organizzazione ministeriale’. ‘Ora, la sentenza impugnata senza alcuna disamina ha semplicemente ed erroneamente statuito che gli atti di accertamenti ‘possono ritenersi validamente sottoscritti dal direttore dell’Agenzia delle entrate’. Il che costituisce un doppio errore 1) in quanto per direttore dell’Agenzia dell’entrate si intende colui che ha il proprio ufficio presso la sede legale in Roma, e su tale circostanza non solo manca la prova ma anche ogni tentativo di affermazione labiale da parte dell’ufficio 2) in quanto l’eccezione mirava a far sì che venisse dimostrato che il firmatario dell’atto fosse stato legittimamente nominato dirigente a seguito di regolare concorso. Su tale punto la sentenza è incompleta ed immotivata, essa va riformata’.
8.2. Il motivo -di per sé inammissibile siccome cumulativo; deducente la violazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ. senza rappresentarne i presupposti ed in violazione della preclusione della doppia conforme di merito; non autosufficiente, perché non esplicita se, ed in quali esatti termini, le questioni dedotte lo siano state anche nei gradi di merito (cfr. pp. 3 e 5 ric. cass., che non consentono un riscontro in tal senso); non riproduce la sottoscrizione degli avvisi di accertamento -è (altresì e comunque) manifestamente infondato.
Invero, esso non si confronta minimamente con la lineare affermazione della sentenza impugnata secondo cui ‘l ‘atto di accertamento può ritenersi validamente sottoscritto dal direttore dell’Agenzia delle entrate’.
La pretesa, su cui sembrerebbe far leva il motivo, che il sottoscrivente sia solo ‘colui che ha il proprio ufficio presso la sede legale in Roma’ pretermette l’articolazione territoriale dell’Agenzia delle entrate, con autonome direzioni regionali e provinciali rappresentate dai rispettivi organi di vertice.
La pretesa che il sottoscrivente sia ‘stato legittimamente nominato dirigente a seguito di regolare concorso’ pretermette ormai acquisiti approdi della giurisprudenza di questa Suprema Corte, la quale, a proposito degli effetti della sentenza della Corte costituzione n. 37 del 2015, ha avuto modo di chiarire che, per la validità della sottoscrizione degli avvisi di accertamento, non è necessaria la qualifica dirigenziale, essendo sufficiente l’appartenenza del funzionario alla cd. carriera direttiva, corrispondente alla terza del c.c.n.l. del comparto delle agenzie fiscali per gli anni dal 2002 al 2005. Ed invero, come da ultimo ribadito da Sez. 5, n. 5177 del 26/02/2020, Rv. 65734001), ‘i n tema di accertamento tributario, ai sensi dell’art. 42, primo e terzo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973, gli avvisi di accertamento in rettifica e gli accertamenti d’ufficio devono essere sottoscritti a pena di nullità dal capo dell’ufficio o da altro funzionario delegato di carriera direttiva, cioè da un funzionario di area terza di cui al contratto del comparto agenzie fiscali per il quadriennio 20022005, di cui non è richiesta la qualifica dirigenziale, con la conseguenza che nessun effetto sulla validità di tali atti può conseguire dalla declaratoria d’incostituzionalità dell’art. 8, comma 24, del d.l. n. 16 del 2012, convertito dalla l. n. 44 del 2012’.
In definitiva, il ricorso va integralmente rigettato, con le statuizioni consequenziali come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna RAGIONE_SOCIALE a rifondere all’Agenzia delle entrate le spese di lite, liquidate in euro 5.800, oltre spese prenotate a debito.
Condanna RAGIONE_SOCIALE a rifondere a RAGIONE_SOCIALE le spese di lite, liquidate in euro 5.800, oltre euro 200 per esborsi, contributo forfettario al 15% ed accessori, se ed in quanto dovuti.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte di RAGIONE_SOCIALE di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso stesso, a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso a Roma, lì 27 settembre 2024.