Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 1051 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 1051 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 16/01/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 7428/2016 R.G. proposto da
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Direttore pro tempore , domiciliata in Roma alla INDIRIZZO presso gli uffici dell’Avvocatura Generale dello Stato, dalla quale è rappresentata e difesa «ope legis»
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore , elettivamente domiciliata in Roma alla INDIRIZZO presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME rappresentata e difesa dagli avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME
-controricorrente-
avverso la SENTENZA della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE DELLA LOMBARDIA n. 3971/2015 depositata il 18 settembre 2015
Udita la relazione svolta nell’adunanza camerale del 18 dicembre 2024 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
In data 20 maggio 2014 la Direzione Provinciale I di Milano
dell’Agenzia delle Entrate notificava alla RAGIONE_SOCIALE un avviso di accertamento mediante il quale rettificava il reddito d’impresa dalla stessa dichiarato ai fini dell’IRES in relazione all’anno 2010, contestando l’indebita deduzione di costi non inerenti per un ammontare complessivo di 300.000 euro, rappresentati da parte del maggior importo di 600.000 euro asseritamente corrisposto a titolo di compenso all’amministratore unico NOME COGNOME titolare di una quota dell’88,88% del capitale sociale; il tutto con le conseguenti riprese fiscali.
La prefata società impugnava l’atto impositivo dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Milano, che respingeva il suo ricorso.
La decisione veniva, però, successivamente riformata dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, la quale, con sentenza n. 3971/2015 del 18 settembre 2015, in accoglimento dell’appello della contribuente, annullava l’avviso di accertamento.
Avverso tale sentenza l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi.
La RAGIONE_SOCIALE ha resistito con controricorso.
La causa è stata avviata alla trattazione in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 380 -bis .1 c.p.c..
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso, formulato ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4) c.p.c., è denunciata la nullità dell’impugnata per motivazione omessa o irriducibilmente contraddittoria, con conseguente violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4) c.p.c., dell’art. 118 disp. att. c.p.c., nonché degli artt. 36, comma 2, n. 4) e 61 del D. Lgs. n. 546 del 1992.
1.1 La censura è infondata.
1.2 Giova rammentare che, a sèguito della riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5) c.p.c. disposta dal D.L. n. 83 del 2012, convertito con modificazioni dalla L. n. 134 del 2012, il sindacato di
legittimità sulla motivazione è ormai da ritenere ristretto alla sola verifica dell’inosservanza del cd. «minimo costituzionale» richiesto dall’art. 111, comma 6, della Carta fondamentale, individuabile nei casi di «mancanza assoluta di motivi sotto il profilo materiale e grafico», di «contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili» e di motivazione «perplessa od incomprensibile» o «apparente», esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di «sufficienza» della stessa.
1.3 Siffatte anomalie si tramutano in vizio di nullità della sentenza
per difetto del requisito di cui all’art. 132, comma 2, n. 4) c.p.c..
1.4 Per produrre il descritto effetto invalidante, esse devono emergere da l testo della sentenza medesima, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (cfr., ex permultis , Cass. n. 20598/2023, Cass. n. 20329/2023, Cass. n. 3799/2023, Cass. Sez. Un. n. 37406/2022, Cass. Sez. Un. n. 32000/2022, Cass. n. 8699/2022, Cass. n. 7090/2022, Cass. n. 24395/2020, Cass. Sez. Un. n. 23746/2020, Cass. n. 12241/2020, Cass. Sez. Un. n. 17564/2019, Cass. Sez. Un. 19881/2014, Cass. Sez. Un. 8053/2014).
1.5 Tanto premesso, si osserva che nel caso di specie la CTR lombarda ha così motivato la decisione assunta, per quanto qui ancora interessa: «…occorre preliminarmente evidenziare che il Giudice di primo grado della CTP di Milano ha ritenuto di aderire ad un più recente indirizzo della Suprema Corte (Cass. ordinanza n. 3243/2013, confermativa delle decisioni della stessa Corte di Cassazione ai nn. 13478/2021 e 21169/2008) secondo cui rientra nei poteri dell’Amministrazione finanziaria la valutazione di congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, e ciò pure se in assenza di irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o di vizi negli atti giuridici d’impresa, con la possibilità di negare la deducibilità di un costo ritenuto insussistente o sproporzionato, non essendo l’ufficio vincolato ai
valori o ai corrispettivi indicati nelle delibere sociali o in contratti (cfr. Cassazione, sentenza n. 9497/2008). La Corte di legittimità, in sintesi, ha quindi concluso -peraltro in discontinuità con un suo non risalente orientamento -che la deducibilità dei compensi degli amministratori non implica che gli Uffici finanziari siano vincolati alla misura indicata in delibere sociali o in contratti (cfr. Cassazione, sentenze 13478/2001 e 12813/2000), rientrando nei normali poteri dell’ufficio la verifica dell’attendibilità economica delle rappresentazioni esposte nel bilancio e nella dichiarazione. Gli argomenti fondativi della soluzione invece condivisa da plurime pronunzie della Suprema Corte di Cassazione di segno opposto e diametralmente contrario a quello appena sopra indicato (cfr. precedenti contrari di cui alle sentenze n. 6588/2002, 21155/2005, 28595/2008, 24957/2010) sono invece i seguenti: la carenza di un potere di valutare la congruità del compenso dell’amministratore emergerebbe dal confronto tra la disposizione previgente che, in riferimento agli amministratori soci, stabiliva che i compensi fossero deducibili nei limiti delle spese correnti per gli amministratori non soci, volendosi così evitare eventuali manovre elusive attraverso la determinazione di un maggior compenso per gli amministratori soci, e quella successiva del nuovo TUIR che, in tema di deducibilità dei compensi agli amministratori, non contiene alcun riferimento a tabelle o altre indicazioni vincolanti che pongano limiti massimi di spesa e, quindi, di deducibilità. Argomento rafforzativo di tale orientamento è quello desumibile dalla impossibilità di valutare la inerenza di un costo in ragione della sua quantità: il costo è inerente se serve a produrre ricavi, ma è oggettivamente argomento assai difficile ritenere o meno la sussistenza del parametro della inerenza in funzione della quantità di ricavi che quel dato costo può produrre. Illustrati in premessa i profili ed i termini argomentativi del contrasto giurisprudenziale ancora in essere sul punto, ritiene, comunque, il Collegio giudicante
di dovere accogliere l’appello proposto dalla società RAGIONE_SOCIALE sotto il profilo dell’inadempiuto assolvimento dell’onere probatorio gravante sulla A.F., ritenendo che l’andamento -in concreto -dei compensi dell’amministratore della società appellante (con comprovate argomentazioni sul punto della RAGIONE_SOCIALE) poteva dirsi coerente ed in linea con l’andamento economico e finanziario della società medesima, ricordando che il compenso era stato aumentato da € 300mila ad € 600mila nel 2008 (con decorrenza dal 2009) in funzione dei buoni risultati conseguiti nell’anno, laddove uno stato di vera e propria recessione si era palesato solo nel 2011, tanto è vero che, a partire dal 2012, la misura del compenso era stata più che significativamente ridotta (anche prima peraltro di essere destinataria di un avviso di accertamento). In sintesi, a parere della Commissione Regionale adìta, è proprio sotto il profilo probatorio che l’appello proposto deve essere accolto, in quanto si reputa che l’Amministrazione Finanziaria non abbia compiutamente ed esaurientemente assolto l’onere probatorio su di sé gravante (cfr. Cass. sent. n. 4603/2014), e ciò anche ove e laddove si volesse ammettere (aderendo così al più recente orientamento della Cassazione, come pure ha inteso fare la CTP con la pronunzia oggi impugnata) la possibilità di un suo sindacato su entità e congruità del compenso degli amministratori; ed infatti, secondo consolidata giurisprudenza di legittimità, nei casi di asserita condotta abusiva del contribuente, che abbia cioè -quale suo elemento predominante ed assorbente -lo scopo di eludere il fisco, incombe sull’Erario medesimo l’onere di provare sia il disegno elusivo sia le modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale, mentre grava sul contribuente l’onere di allegare l’esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti che giustifichino quelle operazioni. Nella fattispecie in esame l’A.F.,
invece, non ha assolto compiutamente l’onere su di sé gravante a fronte delle articolate argomentazioni addotte dalla società appellante. Peraltro è da aggiungere che la riduzione artificialmente ed arbitrariamente operata dall’Ufficio non appariva rispondere -comunque ed in ogni caso -ad alcun criterio ovvero canone di razionalità o ad alcuna valida argomentazione, parametrandosi (ex se ed in modo assiomatico) l’inerenza quantitativa alla misura concordata per l’anno 2008, anno in cui erano stati conseguiti i migliori risultati (cfr. motivazione dell’accertamento, ma allora l’aumento fissato per il 2009 e poi per il 2010 era giustificato in base ai risultati). D’altra parte, il compenso dell’amministratore va determinato in relazione ai mezzi utilizzati per raggiungere i risultati positivi, dovendo escludere che l’obbligazione assunta dal soggetto munito dell’incarico gestorio sia quella di risultato. Né pare infine che possa invero negarsi che nella fattispecie siasi verificata (in fatto) una doppia imposizione fiscale: l’Amministratore ha subìto l’imposizione fiscale sul compenso di € 600mila, ossia anche sulla somma (€ 300mila) ritenuta non inerente, somma sulla quale a carico della società è caduta la imposizione fiscale quale maggior ricavato non dichiarato (…)» .
1.6 Come risulta palese dalle surriportate argomentazioni, la motivazione posta a base del «decisum» non solo esiste materialmente, ma risulta perfettamente intelligibile, ampia, esaustiva e priva di salti logici o di insanabili contraddizioni.
1.7 Invero, il collegio regionale ha chiaramente affermato che: (1)secondo un diffuso orientamento giurisprudenziale di legittimità formatosi anteriormente a quello seguìto dalla CTP di Milano, era da escludere il potere dell’Amministrazione Finanziaria di sindacare l’entità e la congruità dei compensi liquidati agli amministratori di una società; (2)pur volendo aderire al diverso indirizzo fatto proprio dai primi giudici, non poteva comunque ritenersi che l’Agenzia delle Entrate avesse adeguatamente assolto l’onere della
prova della non congruità del compenso corrisposto all’amministratore della RAGIONE_SOCIALE nell’anno 2010; (3)in ogni caso, l’Ufficio aveva arbitrariamente parametrato l’inerenza quantitativa dei costi deducibili alla misura del compenso liquidato all’amministratore nell’anno (2008) in cui era stato conseguito dalla società il più elevato utile di esercizio, senza considerare, per un verso, che l’aumento di tale compenso era stato deliberato in quello stesso anno, proprio in ragione dei positivi risultati ottenuti, per altro verso, che quella assunta dall’amministratore è un’obbligazione di mezzi e non di risultato; (4)in conseguenza dell’operata ripresa fiscale, si era «di fatto» verificata una doppia imposizione, essendo stata tassata due volte la stessa somma a carico della società e dell’amministratore.
1.8 Non sussiste, pertanto, il dedotto vizio di nullità della sentenza, essendosi al cospetto di una motivazione che si colloca ben al di sopra del «minimo costituzionale».
1.9 D’altro canto, si è già avuto modo di chiarire sopra che il vizio motivazionale comportante la nullità della sentenza per difetto del requisito di cui all’art. 132, comma 2, n. 4) c.p.c. -norma che nel processo tributario trova il suo corrispondente nell’art. 36, comma 2, n. 4) del D. Lgs. n. 546 del 1992 -deve emergere dal testo stesso della decisione, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (cfr. Cass. n. 3376/2024, Cass. n. 36135/2023, Cass. Sez. Un. n. 19881/2014, Cass. Sez. Un. n. 8053/2014).
1.10 Resta, quindi, escluso che a tal fine possa assumere rilievo l’eventualmente erronea o incompleta valutazione delle emergenze istruttorie compiuta dal giudice di merito.
Con il secondo motivo, proposto a norma dell’art. 360, comma 1, n. 3) c.p.c., è lamentata la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 53 Cost., degli artt. 115 e 116 c.p.c., degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c., degli artt. 39, 40 -bis e 67 del D.P.R. n. 600 del 1973, degli artt. 95, 109 e 163 del D.P.R. n. 917 del 1986 (TUIR), nonchè
del divieto di abuso del diritto.
2.1 Si assume che gli «errores in iudicando» commessi dalla CTR sarebbero consistiti: (a)nell’aver addossato all’Amministrazione Finanziaria l’onere della prova dell’inesistenza dei presupposti per l’integrale deducibilità dei costi relativi al compenso corrisposto dalla società al proprio amministratore unico; (b)nell’aver reputato che con l’avviso di accertamento fosse stata contestata una fattispecie di abuso del diritto, quando invece la ripresa fiscale si fondava sulla rilevazione di una condotta evasiva; in ogni caso, nell’aver affermato, in contrasto con le emergenze processuali, che l’Ufficio non avesse adempiuto l’onere della prova del disegno elusivo attuato dalla contribuente; (c)nell’aver ravvisato la violazione del divieto di doppia imposizione, da ritenersi, per contro, insussistente, tanto più perchè non risultava affatto dimostrato che l’amministratore unico della RAGIONE_SOCIALE avesse indicato i compensi di cui trattasi nella dichiarazione dei redditi presentata per l’anno 2010, né tantomeno che avesse provveduto al versamento del relativo tributo.
2.2 Il motivo è infondato.
2.3 Nella parte narrativa della sentenza viene rimarcato che la CTP milanese «condivideva l’ipotesi dell’Agenzia delle Entrate di ritenere che la determinazione di un compenso eccessivo costituisse un espediente volto a dissimulare una distribuzione di utili assoggettabile ad un regime fiscale più oneroso» .
2.4 Da ciò si ricava che, in base a quanto ricostruito dalla Commissione di seconde cure, con l’avviso di accertamento oggetto di causa era stata contestata alla contribuente un’ipotesi di elusione d’imposta, assumendosi da parte dell’Ufficio che la liquidazione di un compenso sproporzionato all’amministratore della RAGIONE_SOCIALE rappresentasse lo stratagemma congegnato dalla società allo scopo di realizzare -per la parte eccedente l’importo di 300.000 euro, ritenuto congruo -un indebito vantaggio fiscale.
2.5 L’apprezzamento in fatto espresso dai giudici regionali, incensurabile in cassazione, trova conferma nelle motivazioni della ripresa fiscale evincibili dallo stralcio dell’atto impositivo trascritto nel corpo del ricorso dalla stessa Agenzia delle Entrate (pag. 15, nota 12), ove si sottolinea che: -«una spesa, seppur astrattamente inerente, potrebbe non esserlo più nel momento in cui supera determinati limiti standard di normalità» ; -«a sostegno di tale posizione è inoltre riportata l’argomentazione della fittizia distribuzione di utili (qualora gli amministratori siano anche soci), al fine di porre in atto forme di elusione» ; -«infatti, nei casi in cui si ricompensa un socio -amministratore in maniera abnorme, si può configurare, di fatto, una distribuzione di utili dissimulata dietro lo schermo dell’erogazione di un compenso che, ovviamente per la parte in eccesso, viene attinto da risorse che, se non erogate in tale forma, giungerebbero al medesimo soggetto quale quota di utile spettante. In tal senso, non può sfuggire il fatto che, per effetto della parziale doppia imposizione introdotta dalla riforma Ires sulla distribuzione dei dividendi (società/socio persona fisica, imponibili per il 49,72%), una distribuzione diretta di utili ai soci subirebbe un carico tributario complessivo più oneroso che una distribuzione ‘indiretta’» .
2.6 Una volta ricondotta la fattispecie concreta nell’alveo dell’elusione fiscale, la CTR ha rettamente affermato, in linea con la consolidata giurisprudenza di questa Corte, che spettava all’Amministrazione Finanziaria offrire la prova sia del disegno elusivo che delle modalità di manipolazione e alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e utilizzati al solo fine del conseguimento di un indebito vantaggio d’imposta (cfr. Cass. n. 27709/2022, Cass. n. 16217/2018, Cass. n. 5400/2018, Cass. n. 9610/2017, Cass. n. 10458/2016).
2.7 Peraltro, non essendo applicabile «ratione temporis» all’odierna
contro
versia l’art. 10 -bis della L. n. 212 del 2000, inserito dall’art. 1, comma 1, del D. Lgs. n. 128 del 2015, il quale, al comma 9, espressamente prevede la non rilevabilità officiosa della condotta abusiva, ben poteva la CTR operare «ex officio» la qualificazione giuridica del comportamento del contribuente in termini di elusione, sulla base dei fatti acquisiti al processo e a prescindere da qualsiasi richiamo da parte dell’Amministrazione Finanziaria, stante la diretta derivazione unionale e costituzionale -rispettivamente per i tributi armonizzati e per quelli non armonizzati -del generale principio del divieto di abuso del diritto (cfr. Cass. n. 33793/2022, Cass. n. 24024/2015, Cass. n. 25671/2013, Cass. n. 7393/2012).
2.8 Fermo quanto precede, i giudici «a quibus» hanno comunque motivatamente escluso che i costi sostenuti nell’anno 2010 dalla RAGIONE_SOCIALE per il pagamento del compenso all’amministratore fossero da considerare incongrui, e perciò privi di inerenza sotto il profilo quantitativo, al riguardo precisando che l’aumento del detto compenso era stato deliberato nel 2008, in considerazione dei «buoni risultati conseguiti in quell’anno» dalla società (esercizio chiuso con un utile di 1.795.957 euro, come indicato dalla stessa ricorrente), e che la misura dello stesso «era stata più che significativamente ridotta» a partire dal 2012, non appena aveva iniziato a manifestarsi « uno stato di vera e propria recessione» : di qui la conclusione che «l’andamento -in concreto -dei compensi dell’amministratore della società appellante… poteva dirsi coerente ed in linea con l’andamento economico e finanziario della società medesima» .
2.9 In definitiva, anche a voler ritenere che, essendo stata contestata una fattispecie di evasione fiscale, incombesse sulla contribuente l’onere di dimostrare che i costi portati in deduzione fossero effettivamente inerenti all’attività d’impresa, detta prova è stata ritenuta raggiunta dalla CTR sulla scorta di un apprezzamento di merito che non può qui essere posto in discussione.
2.10 Non sussiste, dunque, l’ «error in iudicando» lamentato dalla ricorrente.
2.11 Quanto, poi, alle considerazioni finali svolte dal collegio d’appello in ordine alla doppia imposizione fiscale asseritamente verificatasi «in fatto» , esse rappresentano un mero «obiter dictum» non influente sulla decisione.
Con il terzo mezzo, introdotto ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5) c.p.c., è prospettato l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio e oggetto di discussione fra le parti.
3.1 Si rimprovera alla CTR di aver trascurato di considerare che: (1)il compenso riconosciuto dalla RAGIONE_SOCIALE al proprio amministratore risultava palesemente eccessivo e incongruo rispetto alla situazione patrimoniale e reddituale della società; (2)nella concreta fattispecie non poteva configurarsi una doppia imposizione vietata.
3.2 Il motivo è inammissibile.
3.3 Le questioni di cui viene lamentato l’omesso esame sono state, in realtà, trattate dalla Commissione regionale, come si è avuto
modo di notare in occasione dello scrutinio del motivo precedente.
3.4 Sotto le mentite spoglie della denuncia del vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 5) c.p.c. la doglianza si risolve, quindi, da un lato, in una non consentita critica del convincimento espresso nell’impugnata sentenza circa la congruità del compenso corrisposto all’amministratore della società e nel tentativo di sollecitare un riesame della valutazione delle risultanze processuali compiuta dai giudici d’appello; dall’altro, nella contestazione della correttezza della soluzione di una «quaestio iuris» che non può, in tutta evidenza, costituire un «fatto», nell’accezione accolta dalla menzionata norma del codice di rito, per tale dovendo intendersi esclusivamente una precisa circostanza in senso storico -naturalistico, uno specifico dato materiale o un episodio fenomenico rilevante (cfr., ex multis , Cass. n. 20255/2024, Cass. n.
16705/2024, Cass. n. 4190/2024, Cass. n. 11958/2022); e ciò a prescindere dalla rilevata natura di mero «obiter dictum» delle argomentazioni spese sul punto dalla CTR.
Per le ragioni illustrate, il ricorso deve essere respinto.
Le spese processuali seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
Non si fa luogo all’attestazione di cui all’art. 13, comma 1 -quater , del D.P.R. n. 115 del 2002, essendo applicabile all’Agenzia delle Entrate -in virtù del rinvio contenuto nell’art. 12, comma 5, del D.L. n. 16 del 2012, convertito in L. n. 44 del 2012 -la disposizione recata dall’art. 158, comma 1, lettera a), dello stesso D.P.R., prevedente la prenotazione a debito del contributo unificato in favore delle amministrazioni pubbliche.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna l’Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore , a rifondere alla controricorrente le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi 5.800 euro (di cui 200 per esborsi), oltre al rimborso forfettario nella misura del 15% e agli accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione