Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 7169 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 7169 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 18/03/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 26700/2020 R.G. proposto da :
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Direttore pro tempore , rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui Uffici è elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME elettivamente domiciliata presso il suo studio in Roma INDIRIZZO
-controricorrente-
per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania, sezione staccata di Salerno, n. 1116/2020 depositata il 5 febbraio 2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 17 gennaio 2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
1. -Con ricorso alla Commissione tributaria provinciale di Avellino, la RAGIONE_SOCIALE impugnava il silenzio rifiuto avverso la richiesta di rimborso della somma di euro 46.320,38 pagata indebitamente a titolo di sanzioni sulle imposte IRES e IRAP (compresi interessi per euro 3.146,00), relativamente alle annualità comprese tra il 2010 al 2013, a seguito dell’attivazione del procedimento di ‘collaborazione volontaria ‘ di cui alla l. 186/14, con cui la parte contribuente aveva aderito agli inviti dell’amministrazione su denuncia delle attività occultate. In particolare, la società deduceva il diritto alla restituzione delle maggiori sanzioni versate, a seguito della illegittimità della comunicazione di mancato perfezionamento della procedura di Voluntary Disclosure nell’ambito della successiva fase dell’accertamento con adesione. Infatti, in data 23 dicembre 2015, la società aveva presentato istanza di accesso alla procedura di Voluntary Disclosure per i periodi di imposta 2010/2013. In seguito all’accoglimento della detta istanza, l’Ufficio adottava 4 distinti inviti a comparire ex art. 5 comma 1 d.lgs.n.218/97 (uno per ogni annualità), indicando le imposte dovute (IRES, IRAP e IVA) per il perfezionamento della procedura, con applicazione del beneficio fiscale connesso a detta procedura, che riduce le sanzioni ad 1/6 del minimo edittale. La società evidenziava l’illegittimità degli inviti per la parte relativa all ‘IVA, in quanto non dovuta, atteso che l’impresa operava nel campo dell’editoria e aveva, quindi, posto in essere operazioni “fuori campo IVA” (mercato soggetto al regime speciale di cui all’art. 74 d.P.R. 633/72). Tale illegittimità era stata segnalata all ‘ ufficio. La società, quindi, al fine di non perdere il beneficio previsto della riduzione delle sanzioni versava i soli importi dovuti per IRES ed IRAP, oltre alle sanzioni in misura ridotta (1/6). L’Ufficio,
a fronte dei versamenti effettuati dalla società in misura inferiore agli importi contenuti negli inviti, riteneva non perfezionata la procedura di Volutary disclosure e avviava il successivo procedimento di accertamento con adesione. Solo in tale fase, l ‘amministrazione rideterminava gli importi delle imposte dovuti, escludendo quello ai fini IVA, chiedendo il versamento delle sanzioni nella misura di 1/3 (come prevista dalla procedura di accertamento con adesione). La società, accettata la proposta di adesione dell’Ufficio (al fine di evitare l’applicazione delle sanzioni al 100%), chiedeva il rimborso di quanto versato in precedenza a titolo di ‘collaborazione volontar ia’ .
L’Agenzia delle entrate si costituiva in giudizio, rilevando che la società aveva omesso di aderire totalmente agli inviti ex art. 5 comma 1 d.lgs. n. 218/97, con conseguente inapplicabilità dei benefici delle sanzioni ridotte a 1/6. Con ulteriori repliche l’Ufficio, richiamando le norme vigenti in materia di Voluntary disclosure , evidenziava come solo l’adesione totale all’invito, ex art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 218 del 1997, avrebbe permesso alla società di beneficiare di sanzioni ridotte nella misura di 1/6 (nel caso in esame ciò non è avvenuto non essendoci stata adesione totale all’invito).
La Commissione tributaria provinciale di Avellino, con sentenza n. 987 depositata il 24 settembre 2018, accoglieva il ricorso.
-Avverso tale sentenza, proponeva appello l’Agenzia delle entrate.
Si costituiva in giudizio la contribuente.
Con la sentenza n. 1116/5/2020, depositata in data 5 febbraio 2020, la Commissione tributaria regionale della Campania, sezione staccata di Salerno, ha respinto l’appello .
-L’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso per cassazione affidato a un unico motivo.
La società contribuente si è costituita con controricorso.
-Il ricorso è stato avviato alla trattazione camerale ai sensi dell’art. 380 -bis .1 cod. proc. civ.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. -Con l’unico motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 1, l. 186/14 in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ. La Commissione tributaria regionale ha respinto il gravame sul rilievo che l’ufficio avrebbe dovuto rettificare tempestivamente gli originari inviti a comparire, conseguenti alla denuncia di occultamento di attività da parte della società, essendo indubbio che l’IVA non fosse dovuta e ciò al fine di consentire alla società di ottenere il beneficio della riduzione delle sanzioni a un sesto dei minimi edittali, anziché di solo un terzo, conseguito a seguito di accertamento con adesione, azionato per il mancato perfezionamento della procedura della ‘collaborazione volontaria’ per insufficiente versamento delle imposte richieste. Parte ricorrente evidenzia l’erroneità sul punto della pronuncia. A tal fine richiama la disciplina sulla Volontary Disclosure o ‘collaborazione volontaria’ . Tale istituto è lo strumento che consente al contribuente di regolarizzare, la sua posizione con il Fisco nel caso detenga capitali all’estero e non abbia presentato alcuna dichiarazione fiscale. La procedura, disciplinata dall ‘art. 1 della l. 186/14, prevede che la parte contribuente presenti apposita denuncia all’ufficio fiscale, fornendo la relativa documentazione, a seguito della quale l’amministrazione finanziaria procede all’invio di un invito a comparire con l’indicazione dell’imponibil e, delle imposte e delle sanzioni da versare, che l’interessato è tenuto a versare nei modi e termini di legge, pena la decadenza del beneficio dello sconto delle sanzioni, pari a un sesto del minimo edittale. Qualora, infatti, il contribuente intenda contestare i calcoli operati dal Fisco, ovvero la ricostruzione da questi operata, può sempre ricorrere all’accertamento con adesione – come accaduto nella fattispecie versando le somme dovute entro venti giorni dalla scadenza
dell’atto, beneficiando, in tal caso, di una riduzione di un terzo delle sanzioni. Nel caso in esame, la società con la produzione dell’istanza di ‘collaborazione volontaria’ ha inteso sanare le violazioni commesse relativamente alle annualità di imposta 2010-2011-20122013 collegate all’omessa dichiarazione di ricavi per euro 1.100.000.00, usufruendo dei benefìci collegati alle sanzioni applicabili. In particolare, l’ amministrazione finanziaria, sulla base dei dati fomiti dall’impresa ha emesso quattro distinti inviti, uno per ciascuna annualità, provvedendo a liquidare, come per legge, le imposte dovute ai fini IVA con aliquota al 20% per gli anni 2010 e 2011, e del 21% per gli anni 2012 e 2013. Le citate aliquote venivano applicate dall’ufficio in ragione delle caratteristiche dell’attività esercitata dalla società, sulla base delle informazioni e degli elementi messi a disposizione dalla stessa società attraverso i modelli IVA presentati: da ciò, infatti, l’ufficio rilevava ‘la netta prevalenza delle operazioni impo nibili con aliquota massima’. Tuttavia, la procedura non si perfezionava, omettendo la società di versare l’I VA in quanto ritenuta non dovuta, cosicché la successiva acquiescenza, da parte contribuente, all’accertamento con adesione (piuttosto che all’invito a comparire) ha implicato un’evidente penalizzazione in materia di sanzioni che sono state abbattute fino ad un terzo (e non fino ad un sesto come voluto dalla parte). L’accoglimento da parte dell’ufficio, nel corso del contraddittorio, delle osservazioni del contribuente relativamente all’erronea applicazione dell’I VA ai maggiori imponibili dichiarati, sarebbe stato effettuato sulla scorta degli elementi probatori offerti dal contribuente solo in tale successiva fase. Si evidenzia, inoltre, che l ‘istituto della collaborazione volontaria diverge dall’accertamento con adesione, essendo obbligato il contribuente ad aderire all’invito fornito dal Fisco su denuncia della parte di tutte le attività occultate, non essendo possibile una adesione parziale ed essendo il contribuente obbligato a versare le imposte, compresi gli interessi, così come calcolati dall’ufficio senza
possibilità di revisione, pena la perdita dei benefici fiscali della riduzione delle sanzioni ed esclusione della punibilità dei reati tributari.
1.1. -Il motivo è infondato.
La legge n. 212 del 2000 pone – al comma 1 dell’art. 10 (la cui rubrica è « Tutela dell’affidamento e della buona fede. Errori del contribuente ») – il principio generale per il quale «I rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede» (Cass., Sez. V, 11 maggio 2021, n. 12372).
La centralità del principio discende dal rilievo preliminare che lo stesso sistema disegnato dallo Statuto del contribuente fornisce un complesso di regole di comportamento a carico delle parti, la cui violazione rileva in sé ai fini della stessa legittimità formale dell’atto solo in particolari casi (in ispecie per l’invio ante tempus dell’avviso in violazione del termine ex art. 12, comma 7, I. cit. Cass., Sez. Un., 29 luglio 2013, n. 18184; Cass., Sez. Un., 9 dicembre 2015, n. 24823), mentre in altre ipotesi, se in danno del contribuente, l’inosservanza, l’omissione o l’errore sono suscettibili di determinare conseguenze sull’atto se e in quanto lesivi del diritto di difesa (ad es. con riguardo all’omessa comunicazioni delle ragioni della verifica ex art. 12, comma 2, I. cit.: v. Cass. 9 novembre 2018, n. 28692; Cass. 21 gennaio 2015, n. 992) e, se in danno dell’Amministrazione, comportano il persistere dell’obbligazione impositiva e/o delle sanzioni e la non opponibilità degli eventuali atti del contribuente.
Questa Corte, con la sentenza n. 17576 del 10 ottobre 2002 ha già ampiamente esaminato l’ambito e la portata applicativa del principio di tutela dell’affidamento e della buona fede. La Corte ha rilevato, in primo luogo, che il principio della tutela del legittimo affidamento del cittadino «trova la sua base costituzionale nel principio di eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge (art. 3 Cost.) e costituisce un elemento essenziale dello Stato di diritto»
limitandone l’attività legislativa e amministrativa ed «è immanente in tutti i rapporti di diritto pubblico ed anche nell’ambito della materia tributaria, dove è stato reso esplicito dall’art. 10, comma primo, della legge n. 212 del 2000». In questa prospettiva, la Corte ha poi precisato il significato che deve essere attribuito a termini quali «collaborazione» e «buona fede». Il primo trova il suo riferimento, dal lato dell’Amministrazione finanziaria, nei principi di «buon andamento», «efficienza» e «imparzialità» dell’azione amministrativa tributaria di cui all’articolo 97, primo comma, Cost.; dal lato del contribuente, invece, vengono in rilievo quei «comportamenti non collidenti con il dovere, sancito dall’articolo 53, comma 1, della Costituzione e imposto a “tutti” i contribuenti, di “concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”». Il termine «buona fede», invece, «se riferito all’amministrazione finanziaria, coincide, almeno in gran parte, con i significati attribuibili al termine “collaborazione”, posto che entrambi mirano ad assicurare comportamenti dell’amministrazione stessa “coerenti”, vale a dire “non contraddittori” o “discontinui” (mutevoli nel tempo)».
Giova poi rilevare che l’attenzione della Corte si è soffermata, con frequenza, sulla previsione di cui all’art. 10, comma 2, l. n. 212 del 2000, norma che esclude l’irrogazione delle sanzioni e degli interessi – ferma l’applicazione dell’imposta – qualora il contribuente si sia conformato a indicazioni dell’Amministrazione finanziaria ovvero il suo comportamento derivi da errori, omissioni o errori dell’Amministrazione stessa.
Il prevalente orientamento, con una valutazione che tende ad accomunare entrambi i primi due commi dell’art. 10 cit., afferma che «la tutela dell’affidamento incolpevole del contribuente, sancita dall’art. 10, commi 1 e 2, della l. n. 212 del 2000, costituisce espressione di un principio generale dell’ordinamento tributario, che trova origine nei principi affermati dagli artt. 3, 23, 53 e 97 Cost. e,
in materia di tributi armonizzati, in quelli dell’ordinamento dell’Unione europea, sicché deve ritenersi che la situazione di incertezza interpretativa, ingenerata da risoluzioni dell’Amministrazione finanziaria, anche se non influisce sulla debenza dell’imposta, deve essere valutata ai fini dell’esclusione dell’applicazione delle sanzioni» (Cass. 9 gennaio 2019, n. 370). Occorre tuttavia sottolineare – come rileva la citata decisione n. 17576 del 2002 – che il principio della tutela del legittimo affidamento non è confinato alla previsione e alle conseguenze delineate dal secondo comma poiché «i casi di tutela espressamente enunciati dal comma secondo del cit. art. 10, riguardanti situazioni meramente esemplificative e legate a ipotesi ritenute maggiormente frequenti, non limitano la portata generale della regola, idonea a disciplinare una serie indeterminata di casi concreti» (negli stessi termini, Cass. 6 ottobre 2006, n. 21513; Cass. 14 gennaio 2015, n. 537).
La portata generale del principio affermato dall’art. 10, comma 1, cit. comporta, dunque, la necessità di correlarne l’applicazione alle caratteristiche proprie della specifica fattispecie, dovendosi aver riguardo agli obiettivi cui mirava la corretta attuazione dell’atto, del procedimento o dello svolgersi del rapporto impositivo. Si tratta di conclusione che trova ampio riscontro nella giurisprudenza della Corte. Se n’è derivato, ad esempio, il riconoscimento di benefici o agevolazioni (Cass. 18 luglio 2019, n. 19316, secondo la quale «in omaggio al principio della leale collaborazione e della buona fede, sancito dall’art. 10, comma 1, della l. n. 212 del 2000, l’inosservanza di un adempimento che costituisce un presupposto solo formale per il godimento di un’agevolazione non impedisce di riconoscere il diritto al beneficio del contribuente che abbia i requisiti per usufruire dello stesso, tanto più ove essi risultino da documentazione in possesso dell’Amministrazione» circostanza che, nella specie, era costituita dall’omessa comunicazione del contratto di locazione, già
noto al Comune; v. anche Cass. 17 maggio 2017, n. 12304; Cass. 10 giugno 2015, n. 12015). Il principio di collaborazione e buona fede permea, dunque, la disciplina tributaria, senza che la sua tutela – pur tipizzata in talune più ricorrenti ipotesi – sia ancorata a schemi precostituiti e al modello formale della validità/invalidità dell’atto, anzi richiedendo una declinatoria in concreto in relazione alla diversità delle fattispecie e delle situazioni.
Alla luce di tali principi va, dunque, esaminata la vicenda in giudizio.
Nel caso di specie sussiste un evidente errore compiuto dall’amministrazione nella liquidazione delle imposte in sede degli inviti a comparire ai sensi dell’art. 5, comma 1, d.lgs. n. 218 del 1997, laddove era stata inserita l’IVA, non dovuta dalla contribuente. Quest’ultima aveva peraltro evidenziato tempestivamente l’errore, contrariamente a quanto dedotto marginalmente nel motivo. La correzione dell’errore da parte dell’amministrazione finanziaria è stata effettuata soltanto nella fase successiva di accertamento con adesione, impedendo quindi sia il perfezionamento della procedura di collaborazione volontaria sia il pagamento delle sanzioni nella misura ridotta.
-Il ricorso va dunque rigettato.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 4.300,00 per compensi, oltre euro 200 per esborsi, spese generali (15%) e oneri accessori.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Quinta Sezione