Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 998 Anno 2024
Civile Sent. Sez. 5 Num. 998 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 10/01/2024
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 3661/2015 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO. (NUMERO_DOCUMENTO) che lo rappresenta e difende
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE) che lo rappresenta e difende
avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. BOLOGNA n. 74/2013 depositata il 12/12/2013.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 30/11/2023 dal Co: COGNOME NOME COGNOME
udito il Pubblico Ministero in persona del sost. Procuratore Generale NOME COGNOME che ha chiesto l’accoglimento del primo e l’assorbimento del secondo motivo;
uditi per le parti l’Avvocato dello Stato NOME COGNOME e l’Avvocato prof. NOME COGNOME per la parte contribuente.
FATTI DI CAUSA
In data 2 Marzo 2007 i militari della Guardia di Finanza redigevano processo verbale di constatazione nei confronti della società RAGIONE_SOCIALE, corrente in Torino, in INDIRIZZO Nel particolare, emergeva che la società verificata avesse sottoscritto un contratto di cash pooling in data 10 maggio 1999, secondo la formula dello ‘ zero balance system ‘ con la RAGIONE_SOCIALE, società di diritto irlandese e sua controllante. Nelle intenzioni dichiarate il contratto si sostanzia nella gestione di una tesoreria accentrata fra tutte le società afferenti al medesimo gruppo, ove ciascuna si impegna a trasmettere nel conto corrente bancario comune -tenuto dalla capofila- tutte le somme attive e a ricevere il ripianamento delle somme passive ad ogni fine di giornata, in modo che il saldo contabile di ciascuna consorziata sia sempre pari a zero, come lascia intendere la stessa intitolazione. Lo scopo è quello di armonizzare i flussi finanziari delle società afferenti al medesimo gruppo, usando la liquidità in eccesso dell’una per soccorrere l’altra e ridurre così al minimo l’accesso al mercato del denaro. Tuttavia, dall’analisi della documentazione verificata emergeva che il contratto di tesoreria accentrata si era concretato nei seguenti
caratteri essenziali: 1) il tasso mensile degli interessi attivi e passivi è stato fissato sul tasso Euribor del primo giorno lavorativo del mese contabile con una variazione in più o meno di 50 punti base, rispettivamente ove si trattasse di importi a debito o di importi a credito; 2) il detentore della tesoreria accentrata, la società madre irlandese, non ha operato alcuna ritenuta alla fonte a titolo di imposta sugli interessi attivi corrisposti o da corrispondersi alla società verificata quale remunerazione delle somme ricevute e gestite sul conto centralizzato, né ha mai chiesto alcuna commissione specifica per il servizio di tesoreria così offerto; 3) altresì la società verificata, nel periodo compreso tra gennaio e 2000 settembre 2005, non ha mai fatto ricorso al credito intragruppo, ma sempre e solo trasmesso alla tesoreria centralizzata i propri saldi attivi; 4) va altresì evidenziato che tali trasferimenti non avevano cadenza giornaliera, secondo la clausola tipica dello ‘ zero balance system ‘, ma avvenivano con periodi più lunghi; 5) altresì è determinante la circostanza che nel periodo di vigenza del contratto di tesoreria centralizzato la società italiana abbia mantenuto sul proprio conto corrente una capienza di somme che le hanno consentito di operare in autonomia. Da tutte queste circostanze si rilevava la stipulazione di un contratto eccentrico rispetto a quanto formalmente dichiarato e che esula dalla semplice tesoreria centralizzata fra società afferenti al medesimo gruppo.
Sulla base del processo verbale di constatazione, l’Ufficio adottava atto impositivo notificato il 27 maggio 2008, con ripresa a tassazione del maggior reddito maturato in ragione degli interessi induttivamente determinati per il deposito di somme continuativamente implementato presso la tesoreria della società controllante. L’Amministrazione finanziaria disconosceva infatti il contratto di tesoreria, ritenendo semplicemente essersi verificato un trasferimento di ricchezza con disponibilità di liquidità a favore della controllante, cui avrebbe dovuto seguire una remunerazione a
favore della controllata, indice di maggior capacità contributiva, donde la ripresa a tassazione di Irpeg ed Irap per l’anno di imposta 2001.
La società contribuente avversava la ricostruzione così operata dall’Ufficio e impugnava l’atto impositivo, trovando apprezzamento presso il giudice di prossimità, donde interponeva appello l’Amministrazione finanziaria, trovando però esito nella conferma della sentenza di primo grado.
Ricorre quindi l’Agenzia delle entrate, per il tramite del proprio patrono ex lege , affidandosi a tre strumenti, cui replica con tempestivo controricorso la parte contribuente.
In prossimità dell’odierna udienza il Pubblico Ministero -in persona del sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME– ha depositato le proprie conclusioni, in forma di memoria, chiedendo l’accoglimento del primo e l’assorbimento del secondo motivo.
In prossimità dell’udienza, la parte privata ha depositato memoria a sostegno delle proprie ragioni, chiedendo in subordine la rimodulazione delle sanzioni alla luce dello ius superveniens , ai sensi l’art. 1, comma 2 d.lgs. 16 dicembre 1997, n. 471 nel testo modificato dall’art. 15, comma 1 d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Vengono proposti due motivi di ricorso.
Con il primo motivo si prospetta censura di cui all’articolo 360 n. 4 cpc, per violazione e falsa applicazione degli articoli 132, secondo comma, e 112 cpc, nonché dell’articolo 36 decreto legislativo numero 546/1992, nella sostanza lamentando la motivazione apparente laddove il collegio d’appello ha confermato la sentenza di primo grado, richiamando questioni cui la commissione tributaria provinciale non aveva neppur fatto cenno.
Più nello specifico, il patrono erariale rappresenta come il primo collegio avesse pronunciato sulla decadenza del potere impositivo dell’Ufficio al momento dell’emissione dell’avviso di accertamento,
donde i profili ulteriori della questione non erano stati scrutinati. Se tale era il contenuto della sentenza e se contro tali argomenti si dirigeva l’appello dell’Amministrazione, fuori centro sarebbe la pronuncia di secondo grado che, in vece, ha esaminato la questione nel merito per ritenere la correttezza di quanto fatto dal privato e statuire -nel meritol’illegittimità della ripresa a tassazione.
La quesitone involge il tema della pronuncia implicita, dovendosi ritenere che la doglianza sia stata accolta ed esaminati gli altri profili della controversia, giungendo ad una statuizione di merito che era quanto chiedeva l’Amministrazione appellante che ha quindi ottenuto il soddisfacimento dell’interesse che ne sosteneva l’azione (art. 100 c.p.c.).
Ed infatti, Non ricorre vizio di omessa pronuncia su punto decisivo qualora la soluzione negativa di una richiesta di parte sia implicita nella costruzione logico-giuridica della sentenza, incompatibile con la detta domanda (v. Cass., 18/5/1973, n. 1433; Cass., 28/6/1969, n.2355). Quando cioè la decisione adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte comporti necessariamente il rigetto di quest’ultima, anche se manchi una specifica argomentazione in proposito (v. Cass., 21/10/1972, n. 3190; Cass., 17/3/1971, n. 748; Cass., 23/6/1967, n.1537). Secondo risalente insegnamento di questa Corte, al giudice di merito non può invero imputarsi di avere omesso l’esplicita confutazione delle tesi non accolte o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio non ritenuti significativi, giacché né l’una né l’altra gli sono richieste, mentre soddisfa l’esigenza di adeguata motivazione che il raggiunto convincimento come nella specie risulti da un esame logico e coerente, non già di tutte le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, bensì solo di quelle ritenute di per sé sole idonee e sufficienti a giustificarlo. In altri termini, non si richiede al giudice del merito di dar conto dell’esito dell’avvenuto esame di tutte le prove prodotte o
comunque acquisite e di tutte le tesi prospettategli, ma di fornire una motivazione logica ed adeguata dell’adottata decisione, evidenziando le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragarla, ovvero la carenza di esse (cfr. Cass. V, n. 5583/2011).
Non ricorre il vizio di mancata pronuncia su una eccezione di merito sollevata in appello qualora essa, anche se non espressamente esaminata, risulti incompatibile con la statuizione di accoglimento della pretesa dell’attore, deponendo per l’implicita pronunzia di rigetto dell’eccezione medesima, sicché il relativo mancato esame può farsi valere non già quale omessa pronunzia, e, dunque, violazione di una norma sul procedimento (art. 112 c.p.c.), bensì come violazione di legge e difetto di motivazione, in modo da portare il controllo di legittimità sulla conformità a legge della decisione implicita e sulla decisività del punto non preso in considerazione (Cass. III, n. 24953/2020).
Il primo motivo è dunque infondato e non può essere accolto.
Con il secondo motivo si profila censura di cui all’articolo 360 n. 3 cpc per violazione o falsa applicazione dell’articolo 26 bis del d.P.R. n.600/1973 e dell’articolo 2697 del codice civile. In altri termini, si contesta l’inquadramento della fattispecie operato dal secondo giudice che non ha ritenuto rilevanti gli elementi indicati dall’Ufficio, voi nell’atto impositivo ove erano stati valorizzati gli elementi fattuali per cui il contratto di tesoreria accentrata si era risolto in un diverso contratto dissimulato di sostanziale messa a disposizione di liquidità da parte della controllata italiana a favore della controllante irlandese a fronte del quale l’Ufficio ha individuato con modalità induttiva la redditività media facendo riferimento al tasso Rendistato cioè la media mensile dei rendimenti di un campione di titoli pubblici a tasso fisso pubblicato dalla Banca d’Italia, riprendendo la tassazione quanto non dichiarato dalla controllata italiana e parimenti non trattenuto dalla controllante irlandese.
Nella sostanza, si lamenta la violazione delle norme attinenti alla esenzione delle imposte sui redditi per i non residenti nonché al sistema delle presunzioni. Ed infatti, il contratto in esame non potrebbe essere considerato una forma di tesoreria accentrata, dovendosi considerare gli elementi precipui cioè la circostanza che i trasferimenti attivi e passivi non avvenivano a fine giornata, ma con cadenza più ampia, nonché la circostanza che solo le somme in eccedenza sono state versate dalla italiana alla irlandese, che mai l’italiana ha fatto ricorso al credito presso l’irlandese, che anzi ha sempre trattenuto presso di sé determinate somme liquide per poter operare in autonomia. Un tanto è incompatibile con la struttura della tesoreria unica centralizzata, tesa ad armonizzare i flussi finanziari infragruppo, e si sostanzia in un vero e proprio contratto di messa a disposizione della liquidità eccedente il fabbisogno di cassa della partecipata italiana a favore della controllante irlandese, a fronte del quale avrebbe dovuto essere fissato un onere di remunerazione che l’Ufficio ha calcolato induttivamente facendo riferimento alla redditività media dei titoli a tasso fisso pubblicato dalla Banca d’Italia.
Occorre muovere dal penultimo capoverso della motivazione della gravata sentenza ove si afferma non esserci stata contestazione da parte dell’Ufficio in ordine all’inattendibilità del riferimento al citato indice Rendistato. All’opposto, l’appello erariale è stato diretto avverso la sentenza nella sua integrità, involgendo ogni aspetto e, quindi, riproponendo in modo critico avverso i capi di sentenza le ragioni della parte pubblica, tra cui il procedimento di calcolo medio della redditività delle somme prestate dall’italiana all’irlandese, secondo il contratto dissimulato di vero e proprio finanziamento intragruppo, una volta riqualificatolo in luogo del simulato contratto di tesoreria unica, secondo gli elementi indiziari di cui all’art. 1362 del codice civile che danno prevalenza alla
sostanza sulla forma, con particolare riguardo al comportamento delle parti successivamente alla stipula.
Sul punto è intervenuta questa Corte, con orientamento costante negli ultimi anni, da cui non si rinvengono qui ragioni per discostarsene. Ed infatti, la tenuta della cassa comune tra due o più imprese (cd.cash pooling ) -secondo la giurisprudenza di questa Corte, che ha avuto modo di trattare dell’argomento (v. Cass.14730 del 23 giugno 2009; conf., seppur in diverso contesto, Cass. n.7215/2015 e Cass.n.14759/2015)- « quali che siano le modalità di tenuta, adempie all’evidente funzione di escludere o limitare all’accesso al credito bancario, finanziando l’impresa partecipante alla cassa comune con gli attivi di cassa dell’altra o delle altre imprese».
L’istituto ha trovato riconoscimento anche nei principi contabili nazionali (0IC14) e, a certe rigorosissime condizioni, anche nella giurisprudenza penale (v. Cass.Pen. n.34457/2018) ed è ricondotto, dalla dottrina maggioritaria, alla figura del contratto atipico, ai sensi dell’art. 1322 c.c., a causa mista, differenziandosi, attraverso l’analisi delle prassi aziendali, il cd. “national cash pooling” (generante interessi attivi a carico della capogruppo/ tesoriere e a favore delle partecipate/gestite) dal cd.” zero balance cash pooling”(il quale azzera le partite di dare – avere e genera, in alcune ipotesi al massimo un aggio a favore della capogruppo e a carico delle partecipate per il servizio di tesoreria svolto) (cfr. Cass. V, n. 20332/2019).
Inquadrata così la fattispecie nei suoi tratti essenziali, occorre ricordare che nel caso che ci occupa, peraltro, non si controverte di esenzione o meno, quanto di un contratto che non è teso ad organizzare una tesoreria centralizzata intragruppo, bensì ad un contratto di finanziamento, con proventi esteri che, peraltro, sono stati regolarmente iscritti nel bilancio della società italiana, come si evince dallo stesso atto impositivo.
La censura di violazione dell’art. 2697 del codice civile non si sostanzia quindi in una richiesta di nuova valutazione del compendio probatorio offerto dalle parti per giungere ad una conclusione diversa da quella della CTR, doglianza inammissibile avanti questa suprema Corte di legittimità, quanto piuttosto la violazione del riparto dell’onere della prova, poiché gli indizi offerti dall’Ufficio in ordine alla simulazione contrattuale non si sono tradotti in inversione dell’onere con prova contraria a carico della parte contribuente.
Seppure l’esegesi del contratto, anche e soprattutto tenendo conto del comportamento successivo delle parti, propende per una qualificazione di finanziamento infragruppo, non di meno gli elementi offerti dalla parte pubblica si riducono ad una diversa sussunzione normativa, priva però del carattere elusivo e neppure regolata da un indice di redditività antieconomico che giustifichi il disattenderlo per sostituirlo con un altro indice -quello del RendiStato- che non è omogeneo, né comparabile con il tipo di contratto sostanziale ricostruito dalla stessa parte pubblica.
Il tema, dunque, è quello del ” trasfer pricing ‘ finanziario internazionale (articoli 9 e 110 TUIR, peraltro mai evocati in corso di giudizio) ed in applicazione del criterio di riparto dell’onere della prova, in caso di finanziamento infragruppo è il fisco nazionale a dover fornire la prova della transazione ad un tasso d’interesse (apparentemente) inferiore a quello “normale”, quale presupposto della ripresa a tassazione degli interessi attivi sul finanziamento, quantificati però in base al tasso di interesse di mercato (osservabile in relazione a finanziamenti aventi caratteristiche sufficientemente comparabili, erogabili a soggetti aventi il medesimo “credit rating” dell’impresa debitrice associata), la cui determinazione è “quaestio facti” demandata al giudice di merito; dopodiché spetta alla società contribuente fornire la prova contraria, dimostrando l’aderenza del tasso di interesse
applicato ai tassi del mercato di riferimento, nel senso che identica transazione tra imprese indipendenti operanti nel libero mercato sarebbe avvenuta alle stesse condizioni finanziarie, tenuto di anche di eventuali “ragioni commerciali” interne al gruppo (Cfr. Cass. V, n.13850/2021). Se così è, RAGIONE_SOCIALE non ha attinenza con finanziamenti aventi caratteristiche sufficientemente comparabili e la “quaestio facti’ sembra essere stata risolta dal giudice di merito, rispetto ad un parametro (EURIBOR +/0,50% di aggio) tutt’altro che inconsueto.
Ne consegue che gli elementi offerti dal Fisco non assurgono ad indizi gravi precisi e concordanti, tali da far scattare l’inversione dell’onere probatorio in capo alla parte privata, sicché non appare violato l’art. 2697 c.c. invocato dal mezzo qui in scrutinio.
Anche il secondo motivo è dunque infondato ed il ricorso dev’essere rigettato.
Le spese seguono la regola della soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
Rilevato che risulta soccombente parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, non si applica l’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in €.cinquemila/00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in €.200,00 ed agli accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 30/11/2023.