Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 14724 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 14724 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 27/05/2024
ORDINANZA
Sul ricorso R.G.N. 28069/2020
promosso da
RAGIONE_SOCIALE (già RAGIONE_SOCIALE), in persona del legale rappresentante pro tempore , elettivamente domiciliata in RAGIONE_SOCIALE, INDIRIZZO, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO e dell’AVV_NOTAIO che la rappresentano e difendono in virtù di procura speciale in atti;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE (già RAGIONE_SOCIALE), in persona del Sindaco pro tempore , elettivamente domiciliata in RAGIONE_SOCIALE, INDIRIZZO (Avvocatura capitolina), presso lo studio dell’AVV_NOTAIO che la rappresenta e difende in virtù di procura speciale in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2182/2020 della Corte d’appello di RAGIONE_SOCIALE, pubblicata in data 30/04/2020 e non notificata;
udita la relazione della causa svolta all’udienza in camera di consiglio del 17/01/2024 dal Cons. NOME COGNOME; letti gli atti del procedimento in epigrafe.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza n. 19435/2015 il Tribunale di RAGIONE_SOCIALE – in parziale accoglimento della domanda di accertamento negativo di crediti, proposta da RAGIONE_SOCIALE, ora RAGIONE_SOCIALE (di seguito, RAGIONE_SOCIALE), nei confronti di RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE riduceva del 30% il canone di locazione degli impianti pubblicitari di proprietà comunale denominati ‘SPQR’, rispetto all’importo indicato negli avvisi di pagamento nn. 13282-13302 del 21/10/2006, relativi all’anno 2004, dichiarando correttamente applicata l’IVA sulle somme determinate.
Con sentenza n. 2182/2020 la Corte d’appello di RAGIONE_SOCIALE respingeva l’appello principale di RAGIONE_SOCIALE, confermando la debenza dell’IVA, e accoglieva l’appello incidentale di RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, dichiarando interamente dovute somme portate dai menzionati avvisi di pagamento.
In particolare, la Corte di merito riteneva che, in applicazione dell’art. 3, comma 2, n. 1) e dell’art. 4, comma 2, n. 2, d.P.R. n. 633 del 1972, il canone in questione dovesse essere assoggettato all’applicazione dell’IVA.
La medesima Corte riteneva non applicabile alla fattispecie la disciplina regolamentare, contenuta nelle delibere comunali n. 260 del 1997 e n. 86 dei 1999, che prevedevano la riduzione del 30% della tariffa dei canoni di concessione degli impianti pubblicitari, applicabile dal 1994 fino al completamento della procedura di riordino, perché riguardava il canone previsto per la concessione relativa a impianti pubblicitari privati e non quello stabilito per la locazione (o affitto) degli impianti pubblicitari comunali.
La stessa Corte riteneva, infine, che solo i canoni di concessione dovessero essere commisurati all’effettiva occupazione del suolo pubblico del mezzo pubblicitario, ma non anche i canoni di locazione degli impianti pubblicitari dell’ente locale, determinati
in base ad una diversa tariffa, confermando, dunque, la correttezza degli importi conteggiati negli avvisi di pagamento.
Avverso quest’ultima decisione, RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi.
RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE si è difesa con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione degli artt. 2909 cc., 324 c.p.c. e 1306 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., per avere la Corte d’appello illegittimamente escluso la applicabilità della riduzione del 30% della tariffa del canone di concessione, prevista per gli impianti pubblicitari privati, anche alla tariffa del canone di locazione/affitto dovuta per gli impianti pubblicitari pubblici (cd. SPQR), in quanto contraria ad altra pronuncia della stessa Corte di merito, relativa a un identico giudizio tra le stesse parti, divenuta definitiva prima che fosse tenuta l’udienza di precisazione delle conclusioni nel presente giudizio (sentenza n. 4683/14), oramai passata in giudicato.
Con il secondo motivo di ricorso è dedotta l’incoerenza e la contraddittorietà intrinseca della decisione impugnata, per contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili in essa contenute, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., quale violazione di legge costituzionalmente rilevante, laddove, in relazione all’art. 9, comma 7, d.lgs. n. 507 del 1993, così come novellato dall’art. 145, comma 55, l. n. 388 del 2000, dapprima ha equiparato le ipotesi del canone di locazione/affitto e quella del canone di concessione, entrambi da computare con riferimento all’effettiva occupazione del suolo pubblico del mezzo pubblicitario, e poi ha affermato che solo i canoni di concessione andavano commisurati all’effettiva occupazione del suolo pubblico del mezzo pubblicitario.
Con il terzo motivo di ricorso è dedotta la violazione dell’art. 9, comma 7, d.lgs. n. 507 del 1993, così come novellato dall’art. 145, comma 55, l. n. 388 del 2000, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., per avere la Corte d’appello fornito un’interpretazione della norma contraria al testo letterale della norma e all’interpretazione della stessa fornita dal Consiglio di Stato e, in via indiretta, da questa Corte di legittimità.
Con il quarto motivo di ricorso è dedotto l’omesso esame di un fatto principale, risultante dagli atti processuali, che ha costituito oggetto di discussione tra le parti ed avente carattere decisivo, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., concernente l’avvenuto inserimento nella procedura di riordino, da parte della società ricorrente, degli impianti pubblicitari (cd. TARGA_VEICOLO) fatti oggetto degli avvisi di pagamento.
Con il quinto motivo di ricorso è dedotta la violazione degli artt. 3, comma 1, n. 1, e 4, commi 4 e 5, lett. i, d.P.R. n. 633 del 1972, in relazione all’art. 10, comma 1, n. 8, d.P.R. n. 633 del 1972, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., per avere la Corte d’appello ritenuto assoggettabile ad IVA il canone di locazione/affitto degli impianti pubblicitari pubblici oggetto di controversia.
La parte controricorrente ha eccepito l’inammissibilità del ricorso, ritenendo, in particolare, che nella specie fosse mancante l’esposizione dei fatti di causa.
L’eccezione è infondata.
È, infatti, sufficiente leggere il ricorso per comprendere che in esso è contenuta la completa descrizione dello svolgimento del processo, con l’indicazione della materia del contendere rimessa alla cognizione del giudice di legittimità.
Il primo motivo di ricorso è inammissibile.
3.1. Parte ricorrente non ha dedotto di avere eccepito nel corso del giudizio di appello il passaggio in giudicato della sentenza n. 4683/2014 della Corte d’appello di RAGIONE_SOCIALE.
Ha, anzi, espressamente affermato di avere prospettato per la prima volta nel presente giudizio di legittimità il ritenuto giudicato, asseritamente intervenuto prima che venisse tenuta l’udienza di precisazione delle conclusioni in sede di gravame (p. 13-14 del ricorso per cassazione).
In particolare, parte ricorrente ha dedotto che il giudicato esterno si era formato il 26/09/2015, mentre l’udienza di precisazione delle conclusioni davanti alla Corte di appello si è tenuta l’11/06/2019 (p. 9 del ricorso per cassazione).
Come dedotto da parte ricorrente, il giudicato non è stato dedotto né rilevato d’ufficio nel corso del giudizio di appello, essendo stata la sentenza n. 4683/2014 menzionata nella pronuncia in questa sede impugnata solo quale precedente giurisprudenziale, dal quale la Corte d’appello ha inteso discostarsi motivatamente.
3.2. Questa Corte ha già precisato che avverso la sentenza d’appello che non tenga conto del giudicato formale intervenuto prima del suo deposito, a differenza di quanto avviene nell’ipotesi di giudicato sopravvenuto rispetto a tale momento, deve essere proposta revocazione ex art. 395 n. 5 c.p.c., e non ricorso per cassazione, in quanto l’esaurimento della fase di merito si ha solo con il deposito della decisione di secondo grado, sicché, nel corso del giudizio di gravame, il giudicato esterno può essere dedotto con la produzione della sentenza munita di attestato di definitività entro il termine ultimo per il compimento di attività consentita alla difesa della parte, anche dopo l’udienza di precisazione delle conclusioni, mediante un’apposita istanza che consenta la rimessione della causa sul ruolo (così Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 41519 del
27/12/2021; v. anche Cass., Sez. 5, Sentenza n. 13987 del 23/05/2019; Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 14883 del 31/05/2019; Cass., Sez. 5, Sentenza n. 25863 del 02/09/2022; Cass., Sez. 6-3, Ordinanza n. 8982 del 15/05/2020).
Nel caso di specie, come sopra evidenziato, si è verificata proprio l’ipotesi appena richiamata, sicché la parte non avrebbe dovuto proporre ricorso per cassazione, ma impugnazione per revocazione.
4. Il secondo motivo è infondato.
4.1. Com’è noto, in virtù della nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c. (introdotta dall’art. 54, comma 1, lett. b, d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. in l. n. 134 del 2012) non è più consentita l’impugnazione ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. «per omessa insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio» , ma soltanto «per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti» .
Le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato che la richiamata modifica normativa ha avuto l’effetto di limitare il vizio di motivazione, quale oggetto del sindacato di legittimità, alle fattispecie nelle quali esso si converte in violazione di legge (Cass., Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014).
In particolare, la riformulazione appena richiamata deve essere interpretata alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 prel., come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è divenuta denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuti in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le
risultanze processuali (Cass., Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014).
In altre parole, a seguito della riforma del 2012 è scomparso il controllo sulla motivazione con riferimento al parametro della sufficienza, ma resta il controllo sull’esistenza (sotto il profilo dell’assoluta omissione o della mera apparenza) e sulla coerenza (sotto il profilo della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta) della stessa, ossia il controllo riferito a quei parametri che determinano la conversione del vizio di motivazione in vizio di violazione di legge (art. 132 c.p.c.), sempre che emerga immediatamente e direttamente dal testo della sentenza impugnata (v. ancora Cass., Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014 e, da ultimo, Cass., Sez. 1, n. 13248 del 30/06/2020).
A tali principi si è uniformata negli anni successivi la giurisprudenza di legittimità, la quale ha più volte precisato che la violazione di legge, come sopra indicata, ove riconducibile alla violazione degli artt. 111 Cost. e 132, comma 2, n. 4, c.p.c., determina la nullità della sentenza ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c. (così Cass., Sez. U, Sentenza n. 22232 del 03/11/2016; conf. Cass. Sez. 6-3, Ordinanza n. 22598 del 25/09/2018; Cass., Sez. L, Sentenza n. 27112 del 25/10/2018; Cass., Sez. 6-L, Ordinanza n. 16611 del 25/06/2018; Cass., Sez. 3, Sentenza n. 23940 del 12/10/2017).
Questa Corte ha, in particolare, affermato che il vizio di motivazione previsto dall’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. e dall’art. 111 Cost. sussiste quando la pronuncia riveli una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio, né alcuna disamina logico-giuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito (Cass., Sez. L, Ordinanza n. 3819 del 14/02/2020).
Ricorre, dunque, il vizio in questione, quando la decisione, benché graficamente esistente, non rende percepibile il fondamento della decisione, perché reca argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche, congetture (Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 6758 del 01/03/2022; Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 13248 del 30/06/2020).
Tale evenienza si verifica non solo nel caso in cui la motivazione sia meramente assertiva, ma anche qualora sussista un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, perché non è comunque percepibile l’iter logico seguito per la formazione del convincimento e, di conseguenza, non è possibile effettuare alcun effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice (Cass., Sez. L, Ordinanza n. 12096 del 17/05/2018; Cass., Sez. 6L, Ordinanza n. 16611 del 25/06/2018).
Alle stesse conseguenze è assoggettata una motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, poiché anche in questo caso non è possibile comprendere il ragionamento seguito dal giudice e, conseguentemente, effettuare un controllo sulla correttezza dello stesso (cfr. Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 7090 del 03/03/2022).
Ovviamente il controllo della motivazione del giudice di merito, nei limiti sopra indicati, non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto tale giudice ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe, pur a fronte di un possibile diverso inquadramento degli elementi probatori valutati, in una nuova formulazione del giudizio di fatto (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 16526 del 05/08/2016).
4.2. Parte ricorrente ha richiamato il disposto dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., ma è evidente che ha voluto censurare la sentenza impugnata, ni termini sopra indicati, per vizio radicale della motivazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., lamentando la presenza di un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili.
4.3. Dalla semplice lettura della sentenza impugnata si evince, tuttavia, il vizio dedotto non sussiste (p. 11-12 della sentenza impugnata).
La Corte d’appello, infatti, ha dapprima riportato gli argomenti spesi dalla parte appellante ( «Quanto al terzo motivo di tale gravame principale, con lo stesso si deduce che il Giudice di primo grado … Tale assunto non è condivisibile … Il significato di tale disposizione è inequivoco, nell’equiparare le ipotesi del canone di locazione e quella del canone di concessione, entrambi da computare con riferimento all’effettiva occupazione del suolo pubblico del mezzo pubblicitario» ) e, poi, ha illustrato le proprie valutazioni che, non condividendo le ragioni della parte, hanno condotto al rigetto della censura ( «Osserva la Corte che va esaminata, secondo un’ottica grammaticale, l’ultima parte … Premesso che si richiamano sia i canoni di locazione che quelli di concessione, l’aggettivo ‘commisurati’ è riferito a ‘questi ultimi’, pertanto ai canoni di concessione indicati in successione rispetto ai canoni di locazione …» ).
Non si tratta, dunque, di affermazioni tra loro in contrasto, riconducibili tutte al giudizio operato dalla Corte, avendo il giudice di appello, prima, riportato gli argomenti dell’appellante principale e, poi, illustrato le proprie ragioni.
Il terzo motivo è infondato.
5.1. Parte ricorrente ha dedotto che la Corte d’appello ha operato un’interpretazione dell’art. 9, comma 7, d.lgs. n. 507 del
1993, nel testo modificato dall’art. 145, comma 55, d.lgs. n. 388 del 2000, vigente ratione temporis (poi abrogato dalla l. n. 160 del 2019), contrario al significato letterale e dall’interpretazione offerta dal Consiglio di Stato e, indirettamente, da questa Corte di legittimità.
5.2. Occorre precisare che il d.lgs. n. 507 del 1993 reca disposizioni volte alla revisione ed armonizzazione dell’imposta comunale sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni, della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche dei comuni e delle provincie nonché della tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, a norma dell’articolo 4 l. n. 421 del 1992, concernente il riordino della finanza territoriale.
Gli articoli 137 d.lgs. cit. disciplinano l’imposta comunale sulla pubblicità e i diritti sulle pubbliche affissioni.
In particolare, l’art. 9 d.lgs. cit. reca disposizioni che attengono al pagamento dell’imposta sulla pubblicità e, nel testo vigente ratione temporis (poi modificato dall’art. 1 l. n. 296 del 2006 n. 296 e abrogato dall’art. 1, comma 847, l. n. 160 del 2019), reca disposizioni che attengono al pagamento dell’imposta sulla pubblicità.
Il comma 7 dell’articolo appena richiamato, nel testo modificato dall’art. 145, comma 55, d.lgs. n. 388 del 2000, vigente prima dell’abrogazione operata dalla l. n. 160 del 2019, precisa che: «7. Qualora la pubblicità sia effettuata su impianti installati su beni appartenenti o dati in godimento al comune, l’applicazione dell’imposta sulla pubblicità non esclude quella della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche, nonché il pagamento di canoni di locazione o di concessione commisurati, questi ultimi, alla effettiva occupazione del suolo pubblico del mezzo pubblicitario» .
5.3. L’interpretazione della norma operata dalla Corte d’appello è corretta, sia sotto il profilo letterale, che sotto il profilo logico. Sul
piano letterale, infatti, la locuzione «commisurati, questi ultimi» non può che riferirsi ai soli canoni di concessione, che la norma nomina per ultimi, dopo i canoni di locazione ( «canoni di locazione o di concessione commisurati, questi ultimi» ), altrimenti la locuzione suindicata non avrebbe alcun senso, poiché sarebbe stato sufficiente dire che il pagamento di canoni di locazione o di concessione erano commisurati (entrambi) alla effettiva occupazione del suolo pubblico del mezzo pubblicitario. Si è voluto, invece, distinguere, da parte del legislatore, i canoni di locazione, che si riferiscono all’uso di impianti pubblici, ossia dell’ente comunale, dai canoni di concessione, che riguardano gli impianti privati, per i quali occorre una concessione di suolo pubblico.
Sul piano dell’interpretazione logica, è – per vero – evidente che, proprio perché necessariamente oggetto di una concessione, il canone relativo agli impianti privati non può che essere commisurato «alla effettiva occupazione del suolo pubblico del mezzo pubblicitario» . Per contro, il canone di locazione di impianti comunali, da adibire a pubblicità, è stato correttamente computato nella specie – trattandosi di impianti comunali – sulla base della superficie espositiva utilizzato dal mezzo pubblicitario.
Sono pertanto irrilevanti ai fini della statuizione i precedenti invocati, che attengono, appunto, a fattispecie diverse da quelle in esame. In particolare, la richiamata pronuncia del Consiglio di Stato (Cons., Stato, Sez. V, Sentenza n. 2942 del 22/05/2012) ha dichiarato l’illegittimità parziale di un regolamento comunale relativo alla COSAP, affermando che il canone COSAP deve essere calcolato dal RAGIONE_SOCIALE con riferimento alla effettiva occupazione di suolo pubblico (e non con riguardo alla dimensione del cartello e del messaggio esposto). Anche la sentenza di questa Corte, menzionata da parte ricorrente (Cass., Sez. 2, Sentenza n. 85 del 04/01/2013), attiene alla determinazione del canone di
concessione relativo a suolo pubblico su cui vengono installati impianti pubblicitari privati (v. anche Cass., Sez. 1, Sentenza n. 6887 del 20/03/2013, sempre in tema di occupazione di suolo pubblico con impianti pubblicitari privati).
La fattispecie nella specie esaminata è, si ribadisce, del tutto diversa, perché attiene alla locazione di impianti pubblicitari comunali, concessi in godimento a privati per svolgere attività pubblicitaria.
Il quarto motivo di ricorso è inammissibile.
6.1. Come sopra evidenziato, la nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c. consente l’impugnazione ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. «per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti» .
La norma si riferisce al mancato esame di un fatto decisivo, che è stato offerto al contraddittorio delle parti, da intendersi come un vero e proprio fatto storico, come un accadimento naturalistico.
Costituisce, pertanto, un fatto ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., non una questione o un punto controverso, ma un vero e proprio evento, un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante (Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 2268 del 26/01/2022; Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 22397 del 06/09/2019; Cass., Sez. 5, Ordinanza n. 24035 del 03/10/2018; v. anche Cass., Sez. 2, Ordinanza n. 13024 del 26/04/2022).
Può trattarsi di un fatto principale ex art. 2697 c.c. (un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) o anche di un fatto secondario (un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale), purché sia controverso e decisivo (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 17761 del 08/09/2016), nel senso che il mancato esame, evincibile dal tenore della motivazione, vizia la decisione perché influenza l’esito del giudizio.
Non integrano, dunque, fatti il cui omesso esame possa cagionare il vizio ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. le mere argomentazioni o le deduzioni difensive (Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 2268 del 26/01/2022; Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 22397 del 06/09/2019; Cass., Sez. 2, Sentenza n. 14802 del 14/06/2017), né i singoli elementi di un accadimento complesso, comunque apprezzato, o le mere ipotesi alternative, e neppure le singole risultanze istruttorie, qualora il fatto storico rilevante sia, comunque, stato preso in considerazione (Cass., Sez. 2, Ordinanza n. 27415 del 29/10/2018).
Per gli stessi motivi, non costituisce omesso esame, nei termini appena indicati, la mancata valutazione di domande o eccezioni, ovvero dei motivi di appello (Cass., Sez. L, Ordinanza n. 29952 del 13/10/2022).
Come appena evidenziato, l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo, censurabile ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass., Sez. 6-L, Ordinanza n. 28887 del 08/11/2019; Cass., Sez. 2, Ordinanza n. 27415 del 29/10/2018).
Ovviamente, la valutazione del materiale probatorio – in quanto destinata a risolversi nella scelta di uno (o più) tra i possibili contenuti informativi che il singolo mezzo di prova è, per sua natura, in grado di offrire all’osservazione e alla valutazione del giudicante – costituisce espressione della discrezionalità valutativa del giudice di merito ed è estranea ai compiti istituzionali della Corte di cassazione, con la conseguenza che, a seguito della riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., non è denunciabile col ricorso per cassazione come vizio della decisione,
restando totalmente interdetta alle parti la possibilità di discutere, in sede di legittimità, del modo attraverso il quale, nei gradi di merito, sono state compiute le predette valutazioni discrezionali (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 37382 del 21/12/2022).
6.2. Nel caso di specie, la Corte d’appello ha effettuato la ricostruzione contestata dalla ricorrente, che intende pervenire al risultato di estendere anche agli impianti pubblicitari pubblici concessi in locazione, come nella specie, l’applicabilità della procedura di riordino, che secondo la Corte si riferisce ai soli impianti privati posati su suolo pubblico, così operando un tentativo – del tutto surrettizio – di rivisitazione di un giudizio di merito.
7. Il quinto motivo è infondato.
Secondo un orientamento ormai consolidato di questa Corte in tema di IVA, gli enti pubblici non sono soggetti passivi di imposta, ai sensi dell’art. 13, paragrafo 1, della Direttiva CE del 28 novembre 2006, n. 112, per le attività od operazioni poste in essere in veste di “pubblica autorità”, anche quando, in relazione a tali attività od operazioni, percepiscono diritti, canoni, contributi o retribuzioni, salvo che, in tali evenienze, il loro mancato assoggettamento all’imposta sia idoneo a provocare distorsioni della concorrenza, attuali o potenziali, di una certa importanza. Vanno, invece, considerati soggetti passivi, ai fini IVA, qualora essi agiscano in forza dello stesso regime cui sono sottoposti gli operatori economici privati (Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 41519 del 27/12/2021; v. anche Cass., Sez. 5, Ordinanza n. 30508 del 03/11/2023; Cass., Sez. 5, Ordinanza n. 17795 del 06/07/2018).
Nella specie, la censura è priva di fondamento, atteso che la locazione di impianto pubblicitario su strada è attività svolta dal RAGIONE_SOCIALE con fine di lucro, e non attività esercitata dallo stesso quale pubblica autorità, vertendosi, dunque, in ipotesi di attribuzione dell’utilizzo di bene comunale a terzi a fronte del
pagamento di canoni, quale atto meramente finalizzato all’impiego produttivo del bene stesso, di cui l’ente ha la disponibilità e la gestione, che non riguarda un servizio necessario per la comunità (così Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 41519 del 27/12/2021).
Il ricorso deve pertanto essere respinto.
Le spese di lite seguono la soccombenza.
In applicazione dell’art. 13, comma 1 quater , d.P.R. n. 115 del 2002, si deve dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello richiesto per l’impugnazione proposta, se dovuto.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso;
condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite sostenute dalla controricorrente, che liquida in € 5.000,00 per compenso, oltre € 200,00 per esborsi e accessori di legge;
dà atto, in applicazione dell’art. 13, comma 1 quater , d.P.R. n. 115 del 2002, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello richiesto per l’impugnazione proposta, se dovuto.
Così deciso in RAGIONE_SOCIALE, nella camera di consiglio della Prima Sezione