Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 14715 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 14715 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 27/05/2024
ORDINANZA
Sul ricorso R.G.N. 01348/2021
promosso da
RAGIONE_SOCIALE (già RAGIONE_SOCIALE), in persona del legale rappresentante pro tempore , elettivamente domiciliata in RAGIONE_SOCIALE, INDIRIZZO, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO e dell’AVV_NOTAIO, che la rappresentano e difendono in virtù di procura speciale in atti;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE (già RAGIONE_SOCIALE), in persona del Sindaco pro tempore , elettivamente domiciliata in RAGIONE_SOCIALE, INDIRIZZO (Avvocatura capitolina), presso lo studio dell’AVV_NOTAIO che la rappresenta e difende in virtù di procura speciale in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 3451/2020 della Corte d’appello di RAGIONE_SOCIALE, pubblicata in data 14/07/2020 e non notificata;
udita la relazione della causa svolta all’udienza in camera di consiglio del 17/01/2024 dal Cons. NOME COGNOME; letti gli atti del procedimento in epigrafe.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza n. 4886/2015 il Tribunale di RAGIONE_SOCIALE ha rigettato l’opposizione a cinque avvisi di pagamento, emessi da RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE il 03/08/2006 per complessivi € 29.206,21 nei confronti di RAGIONE_SOCIALE, ora RAGIONE_SOCIALE (di seguito, RAGIONE_SOCIALE), quale credito residuo relativo ai canoni di locazione degli impianti pubblicitari di proprietà comunale denominati ‘SPQR’, riferiti all’anno 200 3.
Con sentenza n. 3451/2020 la Corte d’appello di RAGIONE_SOCIALE ha respinto l’appello di RAGIONE_SOCIALE.
La Corte di merito ha ritenuto non applicabile alla fattispecie la disciplina regolamentare, contenuta nelle delibere n. 260 del 1997 e n. 86 dei 1999, che prevedevano la riduzione del 30% della tariffa dei canoni di concessione degli impianti pubblicitari, applicabile dal 1994 fino al completamento della procedura di riordino, che riguardava soltanto il canone previsto per la concessione di aree si cui venivano installati impianti pubblicitari privati, e non quello stabilito per la locazione degli impianti pubblicitari comunali.
La stessa Corte ha, inoltre, ritenuto che solo i canoni di concessione dovessero essere commisurati all’effettiva occupazione del suolo pubblico del mezzo pubblicitario, ma non anche i canoni di locazione degli impianti, confermando, dunque, la correttezza degli importi conteggiati negli avvisi di pagamento.
Avverso quest’ultima decisione, RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi.
RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE si è difesa con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso è dedotta la nullità della sentenza per omessa pronuncia, in violazione dell’art. 112 c.p.c. e in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., sul motivo di appello in cui veniva denunciata l’illegittima applicazione dell’IVA in
aggiunta del canone di locazione/affitto richiesto con gli avvisi di pagamento di cui alla presente controversia.
Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la violazione dell’art. 9, comma 7, d.lgs. n. 507 del 1993, così come novellato dall’art. 145, comma 55, l. n. 388 del 2000, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., per avere la Corte d’appello fornito un’interpretazione della norma contraria al testo letterale della norma e all’interpretazione della stessa fornita dal Consiglio di Stato e, in via indiretta, da questa Corte di legittimità.
Con il terzo motivo di ricorso è dedotta la violazione degli artt. 2909 cc., 324 c.p.c. e 1306 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., per avere la Corte d’appello illegittimamente escluso la riduzione del 30% della tariffa del canone di concessione prevista per gli impianti pubblicitari privati anche alla tariffa del canone di locazione/affitto, dovuta per gli impianti pubblicitari pubblici (cd. SPQR), in quanto contraria ad altra pronuncia della stessa Corte di merito, relativa a un identico giudizio tra le stesse parti, divenuta definitiva prima che fosse tenuta l’udienza di precisazione delle conclusioni nel presente giudizio (sentenza n. 4683/14), oramai passata in giudicato.
Con il quarto motivo di ricorso è dedotta la violazione degli artt. 111 Cost., 134 e 348 ter c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., per avere la Corte d’appello adottato una motivazione perplessa e incomprensibile, che non rende palesi i motivi in base ai quali ha ritenuto che la riduzione del 30% dei canoni, prevista con le deliberazioni consiliari del RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE n. 260 del 1997 e 86 del 1999, operasse solo per i canoni concessori (dovuti per impianti privati insistenti su suolo pubblico) e non anche per quelli di locazione/affitto (dovuti per gli impianti pubblicitari comunali concessi in locazione a privati), richiesti con gli avvisi di pagamento di cui è causa.
Il primo motivo di ricorso deve essere respinto per le ragioni che seguono.
2.1. Il motivo di appello concernente l’applicazione dell’IVA ai canoni di locazione dei menzionati impianti pubblicitari di proprietà comunale, dal ricorrente ritenuta non dovuta, è stato compiutamente riportato nel ricorso per cassazione (p. 8-9 del ricorso per cassazione), ma non risulta essere stato in alcun modo esaminato nella sentenza impugnata.
2.2. Tuttavia, come già più volte affermato da questa Corte, con orientamento in questa sede condiviso, alla luce dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo, come costituzionalizzato nell’art. 111, comma 2, Cost., nonché in conformità ad una lettura costituzionalmente orientata dell’attuale art. 384 c.p.c., una volta verificata l’omessa pronuncia su un motivo di gravame, la Suprema Corte può omettere la cassazione con rinvio della sentenza impugnata e decidere la causa, esaminando il motivo omesso, allorquando la questione di diritto posta con quel motivo risulti infondata, così confermando il dispositivo della sentenza impugnata (determinando l’inutilità di un ritorno della causa in fase di merito), sempre che si tratti di questione che non richiede ulteriori accertamenti di fatto (cfr., Cass., Sez. 5, Sentenza n. 16171 del 28/06/2017; Cass., Sez. 5, Ordinanza 19/04/2018, n. 9693; Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 17416 del 16/06/2023).
2.3. Nel caso concreto, il motivo è infondato.
Questa Corte ha già, più volte, affermato che, in tema di IVA, gli enti pubblici non sono soggetti passivi di imposta, ai sensi dell’art. 13, paragrafo 1, della Direttiva CE del 28 novembre 2006, n. 112, per le attività od operazioni poste in essere in veste di “pubblica autorità”, anche quando, in relazione a tali attività od operazioni, percepiscono diritti, canoni, contributi o retribuzioni, salvo che, in tali evenienze, il loro mancato assoggettamento
all’imposta sia idoneo a provocare distorsioni della concorrenza, attuali o potenziali, di una certa importanza.
Vanno, invece, considerati soggetti passivi ai fini IVA qualora essi agiscano in forza dello stesso regime cui sono sottoposti gli operatori economici privati (Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 41519 del 27/12/2021; v. anche Cass., Sez. 5, Ordinanza n. 30508 del 03/11/2023; Cass., Sez. 5, Ordinanza n. 17795 del 06/07/2018).
2.4. Nella specie, come si evince dalla stessa prospettazione di parte ricorrente, la fattispecie attiene alla locazione di impianto pubblicitario (cartellone) su strada, che è attività svolta dal RAGIONE_SOCIALE con fine di lucro, e non attività esercitata dallo stesso quale pubblica autorità, vertendosi, dunque, in ipotesi di attribuzione dell’utilizzo di bene comunale a terzi a fronte del pagamento di canoni, quale atto meramente finalizzato all’impiego produttivo del bene stesso, di cui l’ente ha la disponibilità e la gestione, che non riguarda un servizio necessario per la comunità (così Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 41519 del 27/12/2021, ed anche Cass., Sez. 5, Ordinanza n. 30508 del 03/11/2023).
Non si tratta, in sintesi, di concessione in uso esclusivo di bene demaniale, bensì, come è del tutto pacifico, e come più volte affermato dallo stesso ricorrente in più punti del ricorso, di canone di locazione di impianti comunali, sicché l’IVA deve essere corrisposta.
Il secondo motivo è infondato.
3.1. Parte ricorrente ha dedotto che la Corte d’appello ha operato un’interpretazione dell’art. 9, comma 7, d.lgs. n. 507 del 1993, nel testo modificato dall’art. 145, comma 55, d.lgs. n. 388 del 2000, vigente ratione temporis (poi abrogato dalla l. n. 160 del 2019), contrario al significato letterale e dall’interpretazione offerta dal Consiglio di Stato e, indirettamente, da questa Corte di legittimità.
3.2. Occorre precisare che il d.lgs. n. 507 del 1993 reca disposizioni volte alla revisione ed armonizzazione dell’imposta comunale sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni, della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche dei comuni e delle provincie nonché della tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, a norma dell’articolo 4 della legge 23 ottobre 1992, n 421, concernente il riordino della finanza territoriale.
Gli articoli 137 d.lgs. cit. disciplinano l’imposta comunale sulla pubblicità e i diritti sulle pubbliche affissioni.
In particolare, l’art. 9 d.lgs. cit. reca disposizioni che attengono al pagamento dell’imposta sulla pubblicità e, nel testo vigente ratione temporis (poi modificato dall’art. 1 l. n. 296 del 2006 n. 296 e abrogato dall’art. 1, comma 847, l. n. 160 del 2019), contiene norme che attengono al pagamento dell’imposta sulla pubblicità.
Il comma 7 dell’articolo appena richiamato, nel testo modificato dall’art. 145, comma 55, d.lgs. n. 388 del 2000, vigente prima dell’abrogazione operata dalla l. n. 160 del 2019, precisa che: «7. Qualora la pubblicità sia effettuata su impianti installati su beni appartenenti o dati in godimento al comune, l’applicazione dell’imposta sulla pubblicità non esclude quella della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche, nonché il pagamento di canoni di locazione o di concessione commisurati, questi ultimi, alla effettiva occupazione del suolo pubblico del mezzo pubblicitario» .
3.3. L’interpretazione della norma operata dalla Corte d’appello è corretta sotto il profilo letterale ed anche sotto il profilo logico. Sul piano letterale, infatti, la locuzione «commisurati, questi ultimi» non può che riferirsi ai soli canoni di concessione, che la norma nomina per ultimi, dopo i canoni di locazione ( «canoni di locazione o di concessione commisurati, questi ultimi» ), altrimenti la locuzione suindicata non avrebbe alcun senso, poiché sarebbe stato sufficiente dire che il pagamento di canoni di locazione o di
concessione erano commisurati (entrambi) alla effettiva occupazione del suolo pubblico del mezzo pubblicitario. Si è voluto, invece, distinguere, da parte del legislatore, i canoni di locazione, che si riferiscono all’uso di impianti pubblici, ossia dell’ente comunale, dai canoni di concessione, che riguardano gli impianti privati, per i quali occorre una concessione di suolo pubblico. Sul piano dell’interpretazione logica, è – per vero – evidente che, proprio perché necessariamente oggetto di una concessione, il canone relativo agli impianti privati non può che essere commisurato «alla effettiva occupazione del suolo pubblico del mezzo pubblicitario» . Per contro, il canone di locazione di impianti comunali, da adibire a pubblicità, è stato correttamente computato nella specie – trattandosi di impianti comunali – sulla base della superficie espositiva utilizzato dal mezzo pubblicitario.
Sono pertanto irrilevanti ai fini della statuizione i precedenti invocati, che attengono, appunto, a fattispecie diverse da quelle in esame. In particolare, la richiamata pronuncia del Consiglio di Stato (Cons., Stato, Sez. V, Sentenza n. 2942 del 22/05/2012) ha dichiarato l’illegittimità parziale di un regolamento comunale relativo alla COSAP, affermando che il canone COSAP deve essere calcolato dal RAGIONE_SOCIALE con riferimento alla effettiva occupazione di suolo pubblico (e non con riguardo alla dimensione del cartello e del messaggio esposto). Anche la sentenza di questa Corte, menzionata da parte ricorrente (Cass., Sez. 2, Sentenza n. 85 del 04/01/2013), attiene alla determinazione del canone di concessione relativo a suolo pubblico su cui vengono installati impianti pubblicitari privati (v. anche Cass., Sez. 1, Sentenza n. 6887 del 20/03/2013, sempre in tema di occupazione di suolo pubblico con impianti pubblicitari privati).
La fattispecie in questa sede esaminata è, si ribadisce, del tutto diversa, perché attiene alla locazione di impianti pubblicitari
comunali, concessi in godimento a privati, per svolgere attività pubblicitaria.
Il terzo motivo è inammissibile.
4.1. Parte ricorrente non ha dedotto di avere eccepito nel corso del giudizio di appello il passaggio in giudicato della sentenza n. 4683/2014 della stessa Corte di merito. Ha, anzi, espressamente affermato di aver dedotto per la prima volta nel presente giudizio di legittimità il ritenuto giudicato, asseritamente intervenuto prima che venisse tenuta l’udienza di precisazione delle conclusioni in sede di gravame (p. 21 del ricorso per cassazione).
In particolare, parte ricorrente ha dedotto che il giudicato esterno si è formato il 26/09/2015, mentre l’udienza di precisazione delle conclusioni davanti alla Corte di appello si è tenuta l’08/07/2020 (p. 17 del ricorso per cassazione).
4.2. Questa Corte ha già precisato che avverso la sentenza d’appello che non tenga conto del giudicato formale, intervenuto prima del suo deposito, a differenza di quanto avviene nell’ipotesi di giudicato sopravvenuto rispetto a tale momento, deve essere proposta revocazione ex art. 395 n. 5 c.p.c., e non ricorso per cassazione, in quanto l’esaurimento della fase di merito si ha solo con il deposito della decisione di secondo grado, sicché, nel corso del giudizio di gravame, il giudicato esterno può essere dedotto con la produzione della sentenza munita di attestato di definitività entro il termine ultimo per il compimento di attività consentita alla difesa della parte, anche dopo l’udienza di precisazione delle conclusioni, mediante un’apposita istanza che consenta la rimessione della causa sul ruolo (così Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 41519 del 27/12/2021; v. anche Cass., Sez. 5, Sentenza n. 13987 del 23/05/2019; Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 14883 del 31/05/2019; Cass., Sez. 5, Sentenza n. 25863 del 02/09/2022; Cass., Sez. 6-3, Ordinanza n. 8982 del 15/05/2020).
4.3. Nel caso di specie, come sopra evidenziato, si è verificata proprio l’ipotesi appena richiamata, sicché la parte non avrebbe dovuto proporre ricorso per cassazione ma impugnazione per revocazione.
Anche il quarto motivo è inammissibile.
Secondo parte ricorrente la motivazione della sentenza impugnata è perplessa e non idonea a rivelare la ratio decidendi , nella parte in cui illustra le ragioni per le quali non ritiene applicabile la riduzione del 30% anche per la tariffa del canone dovuto per la locazione degli impianti pubblicitari comunali
5.1. Com’è noto, in virtù della nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c. (introdotta dall’art. 54, comma 1, lett. b, d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. in l. n. 134 del 2012) non è più consentita l’impugnazione ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. «per omessa insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio» , ma soltanto «per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti» .
Le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato che la richiamata modifica normativa ha avuto l’effetto di limitare il vizio di motivazione, quale oggetto del sindacato di legittimità, alle fattispecie nelle quali esso si converte in violazione di legge (Cass., Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014).
In particolare, la riformulazione appena richiamata deve essere interpretata alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 prel., come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è divenuta denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuti in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le
risultanze processuali (Cass., Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014).
In altre parole, a seguito della riforma del 2012 è scomparso il controllo sulla motivazione con riferimento al parametro della sufficienza, ma resta il controllo sull’esistenza (sotto il profilo dell’assoluta omissione o della mera apparenza) e sulla coerenza (sotto il profilo della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta) della stessa, ossia il controllo riferito a quei parametri che determinano la conversione del vizio di motivazione in vizio di violazione di legge, sempre che emerga immediatamente e direttamente dal testo della sentenza impugnata (v. ancora Cass., Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014 e, da ultimo, Cass., Sez. 1, n. 13248 del 30/06/2020).
A tali principi si è uniformata negli anni successivi la giurisprudenza di legittimità, la quale ha più volte precisato che la violazione di legge, come sopra indicata, ove riconducibile alla violazione degli artt. 111 Cost. e 132, comma 2, n. 4, c.p.c., determina la nullità della sentenza ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c. (così Cass., Sez. U, Sentenza n. 22232 del 03/11/2016; conf. Cass. Sez. 6-3, Ordinanza n. 22598 del 25/09/2018; Cass., Sez. L, Sentenza n. 27112 del 25/10/2018; Cass., Sez. 6-L, Ordinanza n. 16611 del 25/06/2018; Cass., Sez. 3, Sentenza n. 23940 del 12/10/2017).
Questa Corte ha, in particolare, affermato che il vizio di motivazione previsto dall’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. e dall’art. 111 Cost. sussiste quando la pronuncia riveli una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio, né alcuna disamina logico-giuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito (Cass., Sez. L, Ordinanza n. 3819 del 14/02/2020).
Ricorre, dunque, il vizio in questione, quando la decisione, benché graficamente esistente, non rende percepibile il fondamento della decisione, perché reca argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche, congetture (Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 6758 del 01/03/2022; Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 13248 del 30/06/2020).
Tale evenienza si verifica non solo nel caso in cui la motivazione sia meramente assertiva, ma anche qualora sussista un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, perché non è comunque percepibile l’iter logico seguito per la formazione del convincimento e, di conseguenza, non è possibile effettuare alcun effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice (Cass., Sez. L, Ordinanza n. 12096 del 17/05/2018; Cass., Sez. 6L, Ordinanza n. 16611 del 25/06/2018).
Alle stesse conseguenze è assoggettata una motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, poiché anche in questo caso non è possibile comprendere il ragionamento seguito dal giudice e, conseguentemente, effettuare un controllo sulla correttezza dello stesso (cfr. Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 7090 del 03/03/2022).
Ovviamente il controllo della motivazione del giudice di merito, nei limiti sopra indicati, non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto tale giudice ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe, pur a fronte di un possibile diverso inquadramento degli elementi probatori valutati, in una nuova formulazione del giudizio di fatto (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 16526 del 05/08/2016).
5.3. Nel caso di specie, parte ricorrente ha richiamato il disposto dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., ma è evidente che ha voluto censurare la sentenza impugnata, nei termini sopra indicati, per vizio radicale della motivazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., lamentando la presenza di una motivazione perplessa e non in grado di esternare la ratio decidendi .
5.4. La Corte d’appello, tuttavia, ha dapprima riportato sinteticamente le ragioni della decisione del Tribunale e poi ha spiegato con chiarezza i motivi per i quali ha ritenuto condivisibile il percorso motivazionale del giudice di primo grado. In particolare ha evidenziato che il RAGIONE_SOCIALE aveva determinato anche per l’anno in contestazione il canone dovuto per la locazione degli impianti SPQR in base alla delibera n. 150 del 2001 e che l’inserimento degli impianti pubblicitari TARGA_VEICOLO locati alla dante causa della RAGIONE_SOCIALE nella procedura di riordino non comportava necessariamente la riduzione del canone che era previsto solo per i canoni concessori, emergendo chiaramente dal verbale di partecipazione al procedimento di ricognizione dei crediti e debiti alla data del 04/08/2009 (intercorso tra il RAGIONE_SOCIALE e la dante causa della ricorrente), la distinzione tra canoni di locazione di impianti pubblicitari comunali e canoni di concessione di occupazione di suolo pubblico, oltre al fatto che solo questi ultimi erano suscettibili di riduzione in virtù della riduzione prevista nelle delibere comunali (p. 4-5 della sentenza impugnata).
5.5. La ricorrente ha criticato la ricostruzione operata dalla Corte d’appello, richiedendo al giudice di legittimità di estendere anche agli impianti pubblici concessi in locazione, come nella specie, l’applicabilità della procedura di riordino, che secondo la Corte si riferisce ai soli impianti privati posati su suolo pubblico, operando un tentativo di rivisitazione del giudizio di merito che, per i motivi sopra evidenziati è inammissibile in sede di legittimità.
Il ricorso deve pertanto essere respinto.
Le spese di lite seguono la soccombenza.
In applicazione dell’art. 13, comma 1 quater , d.P.R. n. 115 del 2002, si deve dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello richiesto per l’impugnazione proposta, se dovuto.
P.Q.M.
la Corte
rigetta il ricorso;
condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite sostenute dalla controricorrente, che liquida in € 3.400,00 per compenso, oltre € 200,00 per esborsi e accessori di legge;
dà atto, in applicazione dell’art. 13, comma 1 quater , d.P.R. n. 115 del 2002, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello richiesto per l’impugnazione proposta, se dovuto.
Così deciso in RAGIONE_SOCIALE, nella camera di consiglio della Prima Sezione