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Buona fede IVA: quando l’azienda non è responsabile

Una società è stata accusata dall’Agenzia Fiscale di aver partecipato a una frode IVA tramite operazioni in reverse charge con un partner estero. La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso dell’Agenzia, stabilendo che l’onere di provare la malafede del contribuente spetta all’Amministrazione Finanziaria. Se l’azienda dimostra di aver agito con la dovuta diligenza e in buona fede IVA, non può essere ritenuta responsabile della frode commessa da altri soggetti nella catena di fornitura.

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Pubblicato il 4 novembre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Buona fede IVA: quando l’azienda non è responsabile delle frodi altrui

Il principio della buona fede IVA è un baluardo fondamentale per le imprese che operano correttamente nel mercato, specialmente in contesti internazionali complessi. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha riaffermato con forza questo principio, chiarendo i confini della responsabilità di un’azienda involontariamente coinvolta in una frode fiscale. Il caso analizzato riguarda una società del settore metallurgico accusata di evasione IVA per operazioni in reverse charge con un partner ungherese, rivelatosi parte di un meccanismo fraudolento. La decisione della Suprema Corte offre spunti cruciali sulla diligenza richiesta agli operatori economici.

I Fatti del Caso: La Controversia sul Reverse Charge

Una società italiana attiva nella produzione di metalli si è vista notificare dall’Agenzia Fiscale diversi avvisi di accertamento per gli anni d’imposta 2013, 2014 e 2015. L’accusa era di aver emesso fatture non imponibili IVA nei confronti di una società ungherese, applicando il regime del reverse charge, nell’ambito di un presunto meccanismo fraudolento. Secondo l’Amministrazione Finanziaria, il cessionario ungherese era una figura fittizia creata al solo scopo di evadere l’IVA, che di fatto non veniva versata.

La società contribuente ha impugnato gli accertamenti, sostenendo di aver sempre agito in buona fede e con la massima diligenza operativa. Sia la Commissione Tributaria Provinciale che quella Regionale le hanno dato ragione, ritenendo che l’azienda avesse fornito prove sufficienti del suo comportamento corretto e prudente, nel rispetto delle normative fiscali.

La Decisione della Corte e la tutela della buona fede IVA

L’Agenzia Fiscale, non soddisfatta, ha portato il caso dinanzi alla Corte di Cassazione, lamentando un’errata valutazione da parte dei giudici di merito sull’onere della prova e sulla diligenza del contribuente. La Suprema Corte, tuttavia, ha rigettato il ricorso, confermando la sentenza d’appello.

Il fulcro della decisione risiede nella ripartizione dell’onere della prova. La Corte ha stabilito che non è il contribuente a dover dimostrare di non aver partecipato a una frode, ma è l’Amministrazione Finanziaria a dover provare, sulla base di elementi oggettivi, non solo l’esistenza della frode ma anche la consapevolezza (o la colpevole ignoranza) del contribuente. In altre parole, l’Agenzia deve dimostrare che l’operatore economico ‘sapeva o avrebbe dovuto sapere’ che l’operazione si inseriva in un’evasione d’imposta.

Le Motivazioni: L’Onere della Prova nelle Frodi IVA

La Corte di Cassazione ha ampiamente argomentato la sua decisione richiamando consolidati principi della giurisprudenza nazionale ed europea. Il ragionamento dei giudici si basa su alcuni pilastri fondamentali:

1. Presunzione di Buona Fede: L’operatore economico si presume in buona fede. Spetta all’autorità fiscale rovesciare questa presunzione.
2. Prova della Consapevolezza: L’Amministrazione Finanziaria deve fornire ‘elementi oggettivi e specifici’ che dimostrino che il contribuente era a conoscenza della frode o che avrebbe dovuto esserlo usando l’ordinaria diligenza richiesta dalla sua qualità professionale.
3. Diligenza dell’Operatore Accorto: Al contribuente spetta la ‘prova contraria’, ovvero dimostrare di aver agito con la massima diligenza esigibile da un operatore accorto. Questa diligenza va valutata secondo ‘criteri di ragionevolezza e proporzionalità’ in base alle circostanze del caso concreto. La semplice regolarità formale della contabilità e dei pagamenti non è, da sola, sufficiente.

Nel caso specifico, i giudici di merito avevano accertato che la società aveva operato con ‘buona fede’ e ‘diligenza operativa’, un giudizio di fatto che, se adeguatamente motivato, non può essere riesaminato in sede di legittimità. La Cassazione ha quindi ritenuto inammissibile il tentativo dell’Agenzia di ottenere una nuova valutazione del merito della controversia.

Le Conclusioni: Implicazioni Pratiche per le Imprese

Questa ordinanza è di grande importanza per tutte le imprese, in particolare per quelle che effettuano operazioni transfrontaliere. La decisione ribadisce che un’azienda non può essere trasformata in un investigatore fiscale per conto dello Stato. L’obbligo che le incombe è quello di agire con prudenza e diligenza.

Le implicazioni pratiche sono chiare: per tutelarsi e dimostrare la propria buona fede IVA, un’impresa deve adottare misure ragionevoli per verificare l’affidabilità dei propri partner commerciali. Ciò include, ad esempio, controllare la validità della partita IVA, verificare l’iscrizione al registro delle imprese e mantenere documentazione che attesti i controlli effettuati. Adottare queste cautele non solo è una buona pratica commerciale, ma costituisce una solida difesa contro eventuali contestazioni fiscali, proteggendo l’impresa da responsabilità per illeciti commessi da terzi.

Chi deve provare la partecipazione di un’azienda a una frode IVA?
Spetta all’Amministrazione Finanziaria l’onere di dimostrare, sulla base di elementi oggettivi e specifici, che il contribuente sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione a cui partecipava si inseriva in un’evasione dell’IVA.

Cosa deve fare un’azienda per dimostrare la propria buona fede?
L’azienda deve fornire la prova contraria di aver agito con la massima diligenza esigibile da un operatore economico accorto, secondo criteri di ragionevolezza e proporzionalità, adottando tutte le misure necessarie per non essere coinvolta in una situazione illecita.

La regolarità formale di contabilità e pagamenti è sufficiente a provare la buona fede?
No, la sentenza chiarisce che la mera regolarità della contabilità e dei pagamenti non è di per sé sufficiente. La prova decisiva riguarda la diligenza concreta adottata per assicurarsi dell’affidabilità della controparte e della liceità dell’operazione.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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