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Buona fede e IVA: la prova contro le frodi fiscali

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 5897/2024, ha chiarito i limiti della prova della buona fede del contribuente in caso di operazioni soggettivamente inesistenti. L’Agenzia delle Entrate aveva contestato a una società la detrazione dell’IVA per l’anno 2012. La Commissione Tributaria Regionale aveva dato ragione alla società, ritenendo provata la sua inconsapevolezza. La Cassazione ha ribaltato la decisione, affermando che la regolarità contabile e i pagamenti tracciabili non sono sufficienti a dimostrare la buona fede. È necessario che il giudice valuti anche gli indizi contrari forniti dall’amministrazione finanziaria, che possono far sorgere il sospetto in un imprenditore mediamente esperto. Il caso è stato rinviato per un nuovo esame.

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Pubblicato il 4 novembre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Buona Fede e IVA: Quando la Diligenza Diventa la Migliore Difesa

L’ordinanza n. 5897/2024 della Corte di Cassazione riaccende i riflettori su un tema cruciale per ogni impresa: la detrazione dell’IVA e il rischio di essere coinvolti in frodi fiscali. La decisione sottolinea come la semplice apparenza di regolarità non sia sufficiente a proteggere un’azienda, ribadendo che la buona fede del contribuente deve essere supportata da una prova concreta di massima diligenza. Questo caso serve da monito per tutti gli operatori economici sull’importanza di verificare attentamente i propri partner commerciali.

I Fatti di Causa

Una società si era vista notificare un avviso di accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate per l’indebita detrazione dell’IVA relativa all’anno 2012. La contestazione si fondava sulla presunta partecipazione della società a operazioni soggettivamente inesistenti, ovvero acquisti da un fornitore fittizio, inserito in uno schema fraudolento.

Inizialmente, la Commissione Tributaria Provinciale aveva respinto il ricorso della società. Tuttavia, in appello, la Commissione Tributaria Regionale (CTR) aveva ribaltato la decisione, accogliendo le ragioni del contribuente. Secondo la CTR, l’azienda aveva fornito prove sufficienti della propria inconsapevolezza e, quindi, della propria buona fede. Tra gli elementi considerati a favore della società vi erano la congruità dei prezzi praticati, la regolarità delle scritture contabili e l’utilizzo di mezzi di pagamento tracciabili.

Insoddisfatta, l’Agenzia delle Entrate ha portato il caso dinanzi alla Corte di Cassazione, lamentando un’errata valutazione delle prove e una violazione delle norme sull’onere probatorio.

La Decisione della Cassazione: L’Insufficienza della Prova di Buona Fede Formale

La Suprema Corte ha accolto il ricorso dell’amministrazione finanziaria, cassando la sentenza della CTR e rinviando la causa per un nuovo esame. Il cuore della decisione risiede nel principio, ormai consolidato, secondo cui la prova della buona fede del contribuente non può limitarsi a elementi puramente formali.

La Cassazione ha chiarito che, in tema di operazioni soggettivamente inesistenti, spetta all’Agenzia delle Entrate provare due elementi:
1. La natura fittizia del fornitore.
2. L’esistenza di indizi idonei a suggerire che il cessionario (l’acquirente) fosse a conoscenza della frode o avrebbe dovuto esserlo usando l’ordinaria diligenza di un imprenditore esperto.

Una volta che l’amministrazione ha fornito questi elementi, l’onere della prova si sposta sul contribuente, che deve dimostrare di aver agito con la massima diligenza possibile per non essere coinvolto nella frode.

Le Motivazioni

I giudici di legittimità hanno evidenziato l’errore commesso dalla CTR: aver fondato la propria decisione esclusivamente su elementi (prezzi di mercato, contabilità regolare, pagamenti tracciabili) che, da soli, sono inidonei a dimostrare l’estraneità del contribuente alla frode. Questi aspetti, infatti, possono essere facilmente orchestrati da chi organizza lo schema fraudolento per dare un’apparenza di normalità all’operazione.

L’errore più grave, secondo la Corte, è stato quello di non aver effettuato una valutazione comparativa tra le prove fornite dalla società e gli indizi di segno contrario presentati dall’Ufficio. La CTR ha, di fatto, ignorato gli elementi che l’Agenzia aveva addotto per dimostrare che un operatore accorto si sarebbe dovuto insospettire. La sentenza impugnata è stata quindi ritenuta carente perché non ha messo a confronto le due tesi, limitandosi a valorizzare solo gli argomenti del contribuente.

Le Conclusioni

L’ordinanza n. 5897/2024 rappresenta un’importante conferma del rigore richiesto alle imprese nella gestione dei rapporti commerciali. La lezione è chiara: la buona fede non è uno scudo automatico. Per poter detrarre l’IVA legittimamente, non basta pagare le fatture e registrarle correttamente. È fondamentale adottare un approccio proattivo e diligente nella selezione e nel monitoraggio dei propri fornitori. Le aziende devono essere in grado di dimostrare di aver fatto tutto il possibile per verificare la reale operatività e affidabilità delle controparti commerciali, specialmente in presenza di circostanze anomale. In caso contrario, il rischio è quello di vedersi disconoscere il diritto alla detrazione e di subire pesanti sanzioni, pur essendo stati, in ipotesi, vittime inconsapevoli di una frode altrui.

In caso di operazioni soggettivamente inesistenti, cosa deve dimostrare l’amministrazione finanziaria?
L’amministrazione finanziaria ha l’onere di provare, anche tramite indizi, non solo che il fornitore era un soggetto fittizio, ma anche che l’acquirente era consapevole, o avrebbe dovuto esserlo, della frode in base a elementi che avrebbero messo in allarme un qualsiasi imprenditore onesto e mediamente esperto.

È sufficiente per un’azienda dimostrare la regolarità contabile e i pagamenti tracciabili per provare la propria buona fede?
No. Secondo la Corte di Cassazione, la regolarità delle scritture contabili e l’uso di pagamenti tracciabili non sono, da soli, elementi sufficienti a dimostrare la buona fede del contribuente e la sua inconsapevolezza di partecipare a una frode.

Qual è stato l’errore principale della Corte Tributaria Regionale secondo la Cassazione?
L’errore principale è stato quello di fondare la propria decisione esclusivamente su elementi addotti dal contribuente (prezzi di mercato, regolarità contabile), ritenendoli sufficienti a provare la sua buona fede, senza però confrontarli né valutare gli elementi di segno contrario indicati dall’Agenzia delle Entrate, che avrebbero potuto dimostrare la consapevolezza della frode.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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