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Buona fede contribuente: onere della prova in frode IVA

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 198/2025, ha ribadito i principi sull’onere della prova in materia di frodi IVA. Quando l’Amministrazione Finanziaria fornisce indizi gravi, precisi e concordanti sull’esistenza di operazioni soggettivamente inesistenti, spetta al contribuente dimostrare la propria buona fede e di aver adottato la massima diligenza per non essere coinvolto. La Corte ha accolto il ricorso di una società solo su alcuni vizi procedurali della sentenza di secondo grado, confermando però il principio cardine sulla ripartizione dell’onere probatorio.

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Pubblicato il 17 settembre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Buona fede del contribuente: la Cassazione chiarisce l’onere della prova nelle frodi IVA

L’ordinanza n. 198/2025 della Corte di Cassazione torna su un tema cruciale del diritto tributario: il confine tra la buona fede del contribuente e la sua responsabilità in complesse frodi IVA. La vicenda analizzata riguarda una società della grande distribuzione che si è trovata al centro di un meccanismo fraudolento basato su false dichiarazioni d’intento. La pronuncia offre importanti chiarimenti sulla ripartizione dell’onere della prova tra Fisco e contribuente, un aspetto fondamentale per qualsiasi operatore economico.

I Fatti di Causa: una presunta frode carosello

Una società operante nel settore della grande distribuzione riceveva un avviso di accertamento per maggiori imposte (IRPEG, IRAP e IVA) relative all’anno 2002. L’Amministrazione Finanziaria contestava l’emissione di numerose fatture per operazioni non imponibili, a fronte di vendite di merce a soggetti che si presentavano come esportatori abituali. Questi ultimi fornivano regolari dichiarazioni d’intento, che permettevano alla società venditrice di non applicare l’IVA.

Tuttavia, una verifica fiscale svelava che le dichiarazioni d’intento erano false: la merce non veniva esportata, ma ceduta all’interno del territorio nazionale in totale evasione d’imposta. I reali acquirenti erano soggetti diversi da quelli formalmente indicati nelle fatture. Si configurava, quindi, un’ipotesi di operazioni soggettivamente inesistenti.

La Commissione Tributaria Regionale, riformando la decisione di primo grado, riteneva la società contribuente pienamente coinvolta nella frode, o quantomeno consapevole della stessa, sulla base di una serie di elementi gravi, precisi e concordanti.

La Decisione della Cassazione e la prova della buona fede del contribuente

La Corte di Cassazione, pur accogliendo il ricorso della società su alcuni motivi di carattere procedurale, ha confermato l’orientamento consolidato in materia di onere della prova nelle frodi IVA.

L’inversione dell’onere probatorio

Il principio cardine affermato dai giudici è il seguente: qualora l’Amministrazione Finanziaria contesti un’operazione come soggettivamente inesistente e fornisca elementi oggettivi e specifici per dimostrare che il contribuente era a conoscenza della frode (o avrebbe dovuto esserlo usando l’ordinaria diligenza), l’onere della prova si sposta sul contribuente stesso. Non è più il Fisco a dover provare la malafede, ma è l’impresa a dover dimostrare la propria estraneità e la propria buona fede contribuente.

Le motivazioni

La Corte ha ritenuto che la Commissione Tributaria Regionale avesse correttamente applicato questo principio. La sua decisione non si basava su mere supposizioni, ma su “plurimi e imponenti elementi” emersi dalla verifica fiscale, tra cui:

* Documentazione extracontabile: Registri non ufficiali che provavano la reale destinazione della merce.
* Dichiarazioni di terzi: Testimonianze di dipendenti e altri soggetti coinvolti che confermavano il meccanismo fraudolento.
* Gestione del trasporto: Il trasporto della merce era effettuato con mezzi riconducibili direttamente ai reali acquirenti e non ai fittizi intestatari delle fatture.
* Firme sui documenti: Le ricevute di pagamento e le fatture recavano la firma dei promotori della frode.

Di fronte a un quadro indiziario così solido, la semplice esibizione delle dichiarazioni d’intento non è stata ritenuta sufficiente a dimostrare la buona fede della società. Quest’ultima avrebbe dovuto fornire la prova contraria di aver adottato tutte le misure ragionevoli per assicurarsi che l’operazione non la conducesse a partecipare a un’evasione fiscale.

La Cassazione ha invece cassato la sentenza per vizi procedurali specifici. In particolare, i giudici di secondo grado avevano omesso di pronunciarsi su alcune questioni sollevate dalla società, come l’irregolarità formale di altre fatture intracomunitarie e l’applicazione di un regime sanzionatorio più favorevole (principio del favor rei). Su questi punti, il processo dovrà essere nuovamente celebrato.

Le conclusioni

Questa ordinanza è un monito per tutte le imprese: la lotta all’evasione fiscale richiede un ruolo attivo e diligente da parte degli operatori economici. La buona fede del contribuente non può essere presunta, ma deve essere dimostrata con fatti concreti quando emergono solidi indizi di una frode. Non è sufficiente adempiere agli obblighi formali, come l’acquisizione della dichiarazione d’intento; è necessario esercitare una diligenza “massima esigibile da un operatore accorto” per verificare la reale natura della controparte e dell’operazione commerciale, al fine di non essere coinvolti, anche inconsapevolmente, in meccanismi fraudolenti.

In una frode IVA basata su operazioni soggettivamente inesistenti, chi deve provare cosa?
Inizialmente, spetta all’Amministrazione Finanziaria fornire elementi di prova (anche presuntivi, purché gravi, precisi e concordanti) che dimostrino la consapevolezza del contribuente di partecipare a un’evasione. Una volta fornita tale prova, l’onere si inverte e grava sul contribuente dimostrare di aver agito in buona fede e con la massima diligenza per evitare di essere coinvolto nella frode.

Quali elementi possono indicare il coinvolgimento di un’impresa in una frode?
La sentenza evidenzia diversi indizi, tra cui la consegna della merce a soggetti diversi dagli intestatari delle fatture, l’esistenza di documentazione extracontabile, dichiarazioni di dipendenti, la gestione del trasporto da parte dei reali acquirenti e il fatto che i documenti di pagamento siano firmati dai promotori della frode anziché dai rappresentanti legali delle società acquirenti.

La sola ricezione di una dichiarazione d’intento è sufficiente per escludere la responsabilità del cedente?
No. Secondo la Corte, se la dichiarazione d’intento si rivela ideologicamente falsa, la sua mera acquisizione non è sufficiente a garantire la non imponibilità dell’operazione. Il contribuente cedente deve dimostrare di non essere stato a conoscenza della frode e di aver adottato tutte le misure ragionevoli in suo potere per accertare la veridicità delle condizioni legali per l’applicazione del regime di non imponibilità.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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