Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 198 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 198 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 07/01/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 28760/2021 R.G. proposto da
RAGIONE_SOCIALE rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME come da procura speciale allegata al ricorso (PEC: EMAIL; EMAIL;
-ricorrente –
Contro
Agenzia delle Entrate , rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale è domiciliata in Roma, INDIRIZZO
-controricorrente – avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Sicilia n. 3178/10/2021, depositata l’8.0 4.2021.
Udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME nella camera di consiglio del 7 novembre 2024.
RILEVATO CHE
Con la sentenza in epigrafe indicata la CTR della Sicilia accoglieva l’appello principale proposto da ll’Agenzia delle entrate e rigettava quello incidentale proposto dalla società RAGIONE_SOCIALE
Oggetto:
Tributi
operante nel settore della grande distribuzione, contro la sentenza della CTP di Messina che aveva accolto parzialmente il ricorso proposto dalla predetta contribuente avverso l’avviso di accertamento relativo all’anno d’imposta 200 2, emesso a seguito di verifica fiscale, all’esito della quale venivano recuperate a tassazione maggiori IRPEG, IRAP e IVA;
dalla sentenza impugnata si evince, per quanto ancora qui rileva, che:
il primo giudice aveva accolto parzialmente il ricorso introduttivo, previo espletamento di una CTU, rideterminando l’imposta dovuta con riferimento ad una parte delle riscontrate differenze inventariali e disconoscendo la responsabilità della società contribuente per l’evasione dell’ IVA, con riguardo alle false lettere d’intento prodotte da terzi, per le quali erano state ipotizzate operazioni soggettivamente inesistenti;
-era infondata l’eccezione riproposta in appello, riguardante il vizio di motivazione dell’atto impositivo, atteso che gli atti tributari possono essere motivati ‘per relationem’ , anche con rinvio ad un precedente atto istruttorio (nella specie al PVC), spettando al giudice valutare se ne sia derivata una motivazione insufficiente;
-nel merito, l’appello principale proposto dall’Agenzia delle entrate era fondato;
dalla verifica fiscale era emerso che la contribuente aveva emesso numerose fatture per operazioni non imponibili, a fronte della vendita di merce dietro presentazione, da parte di apparenti compratori, di dichiarazioni d’intent o ex art. 8, comma 2, del d.P.R. n. 633 del 1972, risultate poi false, in quanto la relativa merce non era stata esportata, bensì ceduta all’interno d el territorio nazionale, in totale evasione di imposta, in favore di tali NOME COGNOME e NOME COGNOME
risultanti i promotori, unitamente ad altri soggetti, del meccanismo fiscale incriminato;
con riferimento alla valenza di dette dichiarazioni di intenti e all’onere della prova circa il coinvolgimento del cedente, andava richiamato l’orientamento giurisprudenziale in materia di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, ricadendo sul cedente l’ onere di dimostrare l’effettiva esportazione o cessione intracomunitaria della merce o, in alternativa, di fornire la prova della propria buona fede;
-nella specie, si è erroneamente ritenuto che le dichiarazioni d’intento fossero veridiche e regolari, sulla base del solo dato formale della loro intestazione e della circostanza secondo cui la società aveva operato la vendita delle merci “franco magazzino’ , senza considerare che dalle risultanze della verifica fiscale era emerso che era stata la stessa contribuente ad emettere fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, dato che le merci venivano consegnate a soggetti diversi dagli apparenti intestatari delle fatture, tra i quali il RAGIONE_SOCIALE e COGNOME NOME;
-le dichiarazioni d’intent o venivano emesse, quindi, al fine di consentire alla contribuente e agli altri effettivi acquirenti di evadere l’IVA, come risultava avvalorato dalla documentazione extracontabile acquisita, dalle dichiarazioni rese dai soggetti che avevano partecipato alle operazioni (che, in quanto dichiarazioni di terzi, dovevano essere considerate quale elemento indiziario, seppure da valutare unitamente ad altri elementi), nonché dalla non operatività e/o dal dissesto finanziario dei formali destinatari delle fatture, che andavano considerati vere e proprie ‘cartiere’, pur essendosi accreditati come esportatori abituali;
inoltre, dagli accertamenti svolti dalla Guardia di Finanza e dalle dichiarazioni rese da alcuni dipendenti della società contribuente era emerso che al trasporto delle merci uscite dai magazzini della
contribuente provvedevano vettori con mezzi direttamente riconducibili a INDIRIZZO‘Imbesi, allo Scali e al Famà ;
le ricevute bancarie, gli assegni, i manoscritti rinvenuti e le fatture recavano la firma per ricezione della merce di Famà NOME e di COGNOME NOME, soci amministratori della RAGIONE_SOCIALE;
per quanto riguardava i rilievi in ordine alle differenze inventariali e ai relativi imponibili fiscali, doveva ritenersi errata la metodologia utilizzata dal CTU ‘che ha fatto propri tutti i rilievi evidenziati dalla ditta (disattesi dalla guardia di finanza in sede di verifica perché non supportati), concernenti il cattivo carico/scarico dei pall-box, il cattivo carico/scarico formaggio’ ;
-l’interesse della contribuente a compiere operazioni fraudolente era ‘in re ipsa’ , essendo desumibile dalla stessa emissione di fatture ‘ senza dovere assolvere all’immediato obbligo di versamento dell’IVA e nell’incremento del volume d’affari ‘;
-i ‘ plurimi e imponenti elementi ‘ emersi dalla verifica fiscale inducevano a confermare l’atto impositivo impugnato, non essendo sufficiente per l’esenzione la semplice attivazione delle procedura di verifica, ma ricadendo sul cedente l’onere di dimostrare l’effettiva esportazione della merce o, in mancanza, di fornire, adeguata prova della sua buona fede, dimostrando che lo stesso non era stato in grado di rendersi conto della frode; a dimostrazione della buona fede non erano sufficienti le sole lettere d’intent o, rilasciate dagli apparenti cessionari al momento dell’acquisto dei beni destinati all’esportazione , tenuto conto del fatto ‘o ggettivo ed incontestabile ‘ che il trasporto delle merci uscite dai magazzini della contribuente veniva effettuato con mezzi direttamente riconducibili alle ditte simulate de ll’Imbesi, del Famà e dello Scali;
non solo la contribuente non aveva dato prova della sua estraneità rispetto al meccanismo fraudolento accertato, ‘ ma anzi gli elementi
esposti costituiscono indizi gravi della esistenza della contestata compartecipazione’ ;
-la sentenza di primo grado andava invece confermata con riferimento al rilievo riguardante l’omessa regolarizzazione degli acquisti di servizi, per euro 110.579,20, per il quale era stata annullata la sola ripresa relativa all’IVA, e ‘in relazione alla riscontrata regolarità dell’applicazione della sanzione per tardiva fatturazione di operazioni imponibili attive ‘ , non avendo l’Agenzia proposto appello sul punto, ‘ sicchè l’accoglimento dell’appello principale avanzato dall’Agenzia Delle Entrate (con conseguente rigetto dell’appello incidentale), comporterà l’accoglimento del ricorso proposto in primo grado dalla RAGIONE_SOCIALE limitatamente a quanto sopra, con rigetto nel resto’ ;
la contribuente impugnava la sentenza della CTR con ricorso per cassazione, affidato a ventidue motivi;
-l’Agenzia delle entrate resisteva con controricorso.
CONSIDERATO CHE
Con il primo motivo di ricorso, la contribuente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 41 e 50 del d.l. n. 331 del 1993, 54 del d.P.R. n. 633 del 1972, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., per avere la CTR ritenuto erroneamente che, in difetto di prova che le merci avessero effettivamente lasciato il territorio italiano, l’onere della prova gravante sulla contribuente, per avvalersi del regime di non imponibilità IVA, previsto per le cessioni intracomunitarie dall’art. 41 del d.l. n. 331 del 1993, convertito nella l. n. 427 del 1993, consisteva nella dimostrazione dell’impossibilità di essere venuto a conoscenza della frode, senza considerare che nel caso in esame erano i cessionari a provvedere al ritiro e al trasporto dei beni acquistati con propri vettori, sicchè era sufficiente che il cedenti dimostrasse la normale diligenza richiesta nelle transazioni
commerciali, la buona fede e di avere adottato le misure ragionevoli in suo potere, consistenti nel controllo sulla operatività della società cessionaria, sulla sua natura di esportatore e sull’esistenza del codice identificativo comunitario;
-con il secondo motivo di ricorso, la contribuente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 41 e 50 del d.l. n. 331 del 1993, 54 del d.P.R. n. 633 del 1972, 2697 e 2729 cod. civ., 115 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., per avere la CTR ritenuto erroneamente che la contribuente non avesse dimostrato di non essere stata in grado di venire a conoscenza della frode posta in essere dal Famà , dallo COGNOME e dall’COGNOME (che erano clienti abituali della contribuente e avevano sempre agito correttamente) e che, anzi, vi avesse partecipato, sebbene la Guardia di Finanza non fosse riuscita ad individuare gli effettivi destinatari delle merci in relazione agli acquirenti RAGIONE_SOCIALE di COGNOME RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE e per una parte delle fatture emesse nei confronti dell’impresa RAGIONE_SOCIALE di COGNOME NOME; aggiunge che dalle dichiarazioni rese dai dipendenti della contribuente, dai trasportatori e dai presunti effettivi acquirenti non risultava che la contribuente fosse consapevole dell’effettiva destinazione della merce, in quanto non era compito della cedente assicurarsi quale fosse il luogo di effettiva destinazione della merce, essendo stata prevista la clausola ‘franco magazzino’ e avendo la predetta agito correttamente nei limiti della buona fede e della normale diligenza;
– con il terzo motivo di ricorso, la contribuente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 41 e 50 del d.l. n. 331 del 1993, 54 del d.P.R. n. 633 del 1972, 2697 e 2729 cod. civ., 115 co. proc. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., per avere la CTR ritenuto che la compartecipazione della contribuente alla frode e la
sua consapevolezza di avere emesso fatture per operazioni soggettivamente inesistenti emergesse dalla circostanza secondo cui le ricevute bancarie e gli assegni relativi ai pagamenti della merce acquistata presso la contribuente recavano la firma del Famà o dell’Imbesi, sebbene tale elemento presuntivo (che riguardava, peraltro, solo la Igiene 2000) non avesse alcun riscontro decisivo, atteso che all’epoca costituiva prassi commerciale consolidata quella di pagare mediante assegni circolari emessi o ricevuti, previa girata, da altri imprenditori, ed era difficile controllare e verificare chi fosse l’emittente dell’assegno e ogni singola girata;
con il quarto motivo di ricorso, la contribuente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 41 e 50 del d.l. n. 331 del 1993, 54 del d.P.R. n. 633 del 1972, 2697 e 2729 cod. civ., 115 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., per avere la CTR ritenuto erroneamente che la compartecipazione della contribuente alla frode e la sua consapevolezza di avere emesso fatture per operazioni soggettivamente inesistenti emergesse dalla circostanza secondo cui alcuni dipendenti della società contribuente (COGNOME NOME COGNOME, COGNOME Daniele, COGNOME NOME e COGNOME NOME) avevano concordemente affermato che la RAGIONE_SOCIALE e i suoi soci (promotori della frode) fossero gli effettivi cessionari dei beni al cui ritiro presso la contribuente provvedeva la predetta società con propri mezzi di trasporto, atteso che i predetti dipendenti non avevano concordemente affermato che la società RAGIONE_SOCIALE e i suoi soci erano gli effettivi cessionari, avendo dette dichiarazioni un contenuto ben diverso e più complesso, riguardando, peraltro, la sola impresa RAGIONE_SOCIALE;
con il quinto motivo di ricorso, la contribuente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 41 e 50 del d.l. n. 331 del 1993, 54 del d.P.R. n. 633 del 1972, 2697 e 2729 cod. civ., 115 co. proc. civ., in
relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., per avere la CTR ritenuto erroneamente che la compartecipazione della contribuente alla frode e la sua consapevolezza di avere emesso fatture per operazioni soggettivamente inesistenti emergesse dalla non operatività e dal dissesto finanziario dei formali destinatari della merce, per fallimento e/o per cessazione di attività, senza considerare che l’impresa RAGIONE_SOCIALE era cessata in data 31.12.2002, mentre le altre due (RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE) non erano fra quelle indicate nella sentenza impugnata;
con il sesto motivo di ricorso, la contribuente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2727 e 2729 cod. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., per avere la CTR violato le norme regolanti l’onere della prova e la valutazione delle presunzioni semplici in sede processuale, accogliendo il gravame erariale in base ad una serie di elementi presuntivi, nonostante la difesa della contribuente avesse evidenziato l ‘irrilevanza di alcuni di essi e la difformità del loro contenuto rispetto a quanto preteso dall’Ufficio appellante;
– con il settimo motivo, denuncia la violazione degli artt. 36, comma 2, n. 4 del d.lgs. n. 546 del 1992 e 132, comma 2, n. 4 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., per avere la CTR motivato in modo apparente e palesemente illogico nella parte in cui ha ritenuto che la dimostrazione della compartecipazione della contribuente alla frode e della sua consapevolezza di avere emesso fatture per operazioni soggettivamente inesistenti emergesse dalla circostanza secondo cui l’interesse della società rispetto alle operazioni fraudolente risultava in re ipsa , essendo desumibile dalla stessa emissione di fatture senza l’immediato obbligo di versamento dell’IVA e dall’incremento del volume d’affari;
-i predetti motivi, che per connessione vanno esaminati congiuntamente, sono in parte infondati e in parte inammissibili;
dalla sentenza impugnata si evince che uno dei recuperi riguardava l’emissione, da parte della contribuente, di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti , senza l’applicazione dell’IVA, in quanto emesse nei confronti di soggetti dichiaratisi esportatori abituali, che presentavano false lettere d’intenti ai sensi dell’art. 8, comma 2, del d.P.R. n. 633 del 1972 e che non erano i reali destinatari della merce; -le censure investono la questione della detraibilità dell’IVA nel caso di fatturazione per operazioni ritenute soggettivamente inesistenti e riguardano sia l’oggetto della prova dell’inesistenza soggettiva di dette operazioni sia il riparto dell’onere probatorio tra l’Amministrazione finanziaria e il contribuente;
sul punto va richiamato l’orientamento di questo Corte secondo cui « qualora l’Amministrazione finanziaria contesti che la fatturazione attiene ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, incombe sulla stessa l’onere di provare la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi specifici, che il contribuente fosse a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; ove l’Amministrazione assolva a detto incombente istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto » (Cass. 31.01.2022, n. 2922; Cass. 20.07.2020, n. 15369; Cass. 28.02.2019, n. 5873; Cass. 20.04.2018, n. 9851);
è stato affermato, inoltre, che, poiché ai fini della ripartizione dell’onere della prova occorre considerare che il diniego del diritto di detrazione segna un’eccezione al principio di neutralità dell’Iva che tale diritto costituisce, incombe, in primo luogo, sull’Amministrazione finanziaria provare che, a fronte dell’esibizione del titolo, difettano, le condizioni, oggettive e soggettive, per la detrazione e che, una volta raggiunta questa prova, spetterà al contribuente fornire la prova contraria, ossia di aver svolto le trattative in buona fede, ritenendo incolpevolmente che le merci acquistate fossero effettivamente rifornite dalla società cedente (Cass. n. 9851 del 2018, cit.; Corte di Giustizia UE, 1.12.2022, in C-512/21, paragrafi 26 -33);
-come ha poi evidenziato questa Corte, l’onere probatorio gravante sull’Amministrazione «ben può esaurirsi nella prova che il soggetto interposto è privo di dotazione personale e strumentale adeguata all’esecuzione della prestazione fatturata (è, cioè, una cartiera), costituendo ciò, di per sé, elemento idoneamente sintomatico della mancanza di buona fede del cessionario, poiché l’immediatezza dei rapporti tra i soggetti coinvolti nella frode induce ragionevolmente ad escludere l’ignoranza incolpevole del contribuente » (Cass. n. 9851 del 2018, in motivazione);
il giudice tributario di merito deve, quindi, valutare, con un giudizio di fatto non sindacabile in sede di legittimità, se l’atto impositivo si fonda su elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti, esaminandoli sia singolarmente sia nel loro complesso nella motivazione della sentenza; in tale contesto, vanno esaminate anche eventuali dichiarazioni rilasciate da terzi, le risultanze delle indagini condotte nei confronti di altre società, gli atti trasmessi dalla Guardia di finanza, risultanti dall’attività di polizia giudiziaria, se contenuti negli atti (come il processo verbale di constatazione) allegati all’atto impositivo notificato o trascritti essenzialmente nella motivazione
dello stesso, in quanto costituenti parte integrante del materiale indiziario e probatorio, che il giudice di merito deve valutare dandone adeguato conto nella motivazione della sentenza;
dopo avere ritenuto, in base a deduzioni logiche di ragionevole probabilità (non necessariamente di certezza), che gli indizi esaminati siano sufficienti a supportare la presunzione semplice di fondatezza della pretesa, con riguardo all’esistenza dell’organizzazione fraudolenta, alla partecipazione ad essa del contribuente o, quanto meno, alla consapevolezza da parte sua di avvantaggiarsi della frode in danno dell’erario, la domanda dell’Amministrazione deve ritenersi provata; a quel punto, si sposta sul contribuente, secondo la regola generale ricavabile dagli artt. 2727 cod. civ. e ss. e 2697 cod. civ., l’onere di provare eventuali fatti a lui favorevoli, sicchè la mancata deduzione di idonea prova contraria, fin dall’atto introduttivo del giudizio, o l’insuccesso di essa, comportano l’accoglimento della pretesa fiscale fondata su valide presunzioni;
-per quanto riguarda la contestazione delle false dichiarazioni d’intento, poi, è stato affermato che la non imponibilità ad I VA delle cessioni all’esportazione effettuate nei confronti di esportatori abituali, prevista dall’art. 8, comma 1, lett. c), del d.P.R. n. 633 del 1972, non può essere subordinata alla sola formale specifica dichiarazione d’intento dell’esportatore, ove questa sia ideologicamente falsa, occorrendo in tale ipotesi che il contribuente cedente dimostri l’assenza di un proprio coinvolgimento nell’attività fraudolenta, ossia di non essere stato a conoscenza dell’assenza delle condizioni legali per l’applicazione del regime di non imponibilità o di non essersene potuto rendere conto pur avendo adottato tutte le ragionevoli misure in suo potere (Cass. 5.10.2016, n. 19896; Cass. 9.01.2015, n. 176; Cass. 11.05.2012, n. 7389);
– poiché la lotta contro la frode, l’evasione fiscale ed eventuali abusi costituisce un obiettivo riconosciuto e incoraggiato dalla direttiva IVA (da ultimo, Corte di Giustizia, sentenza 8 maggio 2019, causa C712/17, RAGIONE_SOCIALE, punto 31), a fronte della partecipazione del cedente al meccanismo frodatorio o della consapevolezza di esso, permarrebbe il rischio di perdita di gettito dell’erario qualora i cessionari o committenti fossero soggetti inesistenti o del tutto incapienti; il sistema, per conseguenza, non consente l’esercizio fraudolento del diritto di valersi del limite esecutivo correlato alla qualità di esportatore abituale qualora, anche in base a elementi presuntivi, emerga che il cedente disponesse di elementi tali, da sospettare l’esistenza di irregolarità e da sollecitare il suo onere di diligenza (Cass. 5.04.2019, n. 9586, che fa leva sull’adozione di tutte le ragionevoli misure disponibili; più di recente, Cass. 15.07.2020, n. 14979 e Cass., 12 luglio 2023, n. 19981);
-sempre con riferimento alla dichiarazione d’intento, è stato altresì precisato che « Nelle cessioni all’esportazione in regime di sospensione d’imposta ex art. 8 del D.P.R. n. 633/1972, se la dichiarazione d’intenti si riveli ideologicamente falsa, perché emessa da soggetto privo del requisito di esportatore abituale, al cedente non è consentito l’esercizio fraudolento del diritto di valersi del limite di esecutività correlato alla suddetta qualità di esportatore abituale qualora, anche in base ad elementi presuntivi, questi disponga di elementi tali da sospettare l’esistenza di irregolarità, gravando sul medesimo un onere di diligenza mediante l’adozione di tutte le ragionevoli misure in proprio potere (Cass., Sez. V, 15 luglio 2020, n. 14979; Cass., Sez. V, 5 aprile 2019, n. 9586; Cass., Sez. V, Sez. 5, 5 ottobre 2016, n. 19896). Principio, questo, conforme alla richiamata giurisprudenza eurounitaria (Corte di Giustizia UE, RAGIONE_SOCIALE, C-495/17, punto 41, cit.), non diversamente dallo standard di
diligenza richiesto comunque al contribuente al fine di non essere coinvolto in una frode IVA » (Cass. 12.07.2022, n. 22003) e che « In tema di IVA, la non imponibilità delle cessioni all’esportazione effettuate nei confronti di esportatori abituali non può essere subordinata alla sola formale specifica dichiarazione d’intento dell’esportatore, ove questa sia ideologicamente falsa, occorrendo in tale ipotesi che il contribuente cedente dimostri l’assenza di un proprio coinvolgimento nell’attività fraudolenta, ossia di non essere stato a conoscenza dell’assenza delle condizioni legali per l’applicazione del regime di non imponibilità o di non essersene potuto rendere conto pur avendo adottato tutte le ragionevoli misure in suo potere » (Cass., 1.03.2022, n. 6786);
– anche questo Collegio intende dare continuità ad un principio ormai consolidato e coerente con quanto già chiarito dalla Corte di Giustizia della Comunità europea, laddove, nello specifico, ha affermato che « L’art. 28 quater, parte A, lett. a), primo comma, della sesta direttiva 77/388, come modificata dalla direttiva 2000/65, va interpretato nel senso che osta a che le autorità competenti dello Stato membro di cessione obblighino un fornitore, che ha agito in buona fede e ha presentato prove giustificanti prima facie il suo diritto all’esenzione di una cessione intracomunitaria di beni, ad assolvere successivamente l’IVA su tali beni, quando tali prove si rivelano essere false senza che risulti tuttavia provata la partecipazione del fornitore medesimo alla frode fiscale, purchè quest’ultimo abbia adottato tutte le misure ragionevoli in suo potere al fine di assicurarsi che la cessione intracomunitaria effettuata non lo conducesse a partecipare ad una frode siffatta » (cfr. Corte di Giustizia, sentenza 27 settembre 2007, C- 409/04);
nella specie, i giudici di appello hanno applicato correttamente i suesposti principi, dando atto dei ‘ plurimi e imponenti elementi ‘
emersi dalla verifica fiscale in ordine all’inesistenza soggettiva delle operazioni contestate, affermando che le merci, sebbene fatturate dalla contribuente con l’indicazione degli apparenti destinatari, venivano consegnate a soggetti diversi, sicchè le dichiarazioni d’intento erano state emesse ‘ al fine di consentire alla RAGIONE_SOCIALE nonché agli effettivi acquirenti dei beni, l’evasione d’IVA ‘;
la CTR è pervenuta a siffatta conclusione sulla base dell’esame della documentazione extracontabile acquisita, delle dichiarazioni rese dai soggetti che avevano partecipato alle operazioni e della non operatività e/o del dissesto finanziario dei formali destinatari della merce, che avevano operato come mere cartiere, accreditandosi come esportatori abituali;
– i giudici di appello hanno affermato, inoltre, che ‘dagli accertamenti compiuti dalla Guardia di Finanza in loco è emerso che del trasporto delle merci uscite dai magazzini di essa cedente, se ne siano occupati vettori con mezzi direttamente riconducibili ai signori RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, ditte simulate, rispettivamente cessate: l’ingrosso RAGIONE_SOCIALE in data 20/10/2003 (per fallimento), IGIENE 2000 in data 31.12.2022; RAGIONE_SOCIALE al 19/11/2003 e RAGIONE_SOCIALE al 14/7/2004 (per fallimento)’ e che ‘gli stessi dipendenti della società COGNOME COGNOME NOME COGNOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME Antonio) hanno concordemente affermato che la RAGIONE_SOCIALE ed i suoi soci (promotori accertati della frode) fossero effettivi cessionari dei beni, al cui ritiro presso la società, la stessa provvedeva con propri mezzi di trasporto. Peraltro è risultato documentato che le ricevute bancarie, gli assegni, i manoscritti e le fatture, recavano la firma per ricezione della merce, di COGNOME NOME e COGNOME NOME, soci amministratori della RAGIONE_SOCIALE;
la Commissione regionale ha poi evidenziato che il contribuente non aveva fornito elementi di prova in suo favore, non avendo dimostrato la sua ‘estraneità rispetto al meccanismo fraudolento realizzato nell’occorso, ma anzi gli elementi esposti costituiscono indizi gravi della esistenza della contestata compartecipazione ‘;
-la sentenza impugnata ha, dunque, riconosciuto l’adeguatezza degli elementi dedotti dall’Amministrazione finanziaria, concludendo nel senso della sussistenza della responsabilità della società ricorrente non solo in termini di conoscibilità del meccanismo fraudolento, ma anche quale vera e propria compartecipazione allo stesso, e ha ritenuto che le controprove offerte dalla contribuente non fossero idonee a scalfire gli indizi allegati dall’Ufficio;
il processo valutativo compiuto dalla CTR è risultato, quindi, coerente con le regole di governo delle prove presuntive, in particolare in tema di operazioni soggettivamente inesistenti, nei limiti in cui tale valutazione può essere verificata in questa sede (Cass. n. 10973 del 2917; Cass. n. 34248 del 2021), tenuto conto anche di quanto indicato sul punto dalla giurisprudenza euro -unitaria ( ex multis , Corte di Giustizia, sentenza 1.12.2022, in C512/21, nei § da 26 a 33);
di conseguenza, la ricorrente deduce solo apparentemente la violazione di plurime norme di legge e l’omessa motivazione o motivazione apparente, ma in realtà mira alla rivalutazione dei fatti, operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito (Cass. n. 8758 del 4/07/2017), prospettando nel ricorso non l’analisi e l’applicazione delle norme, bensì un evidente apprezzamento delle prove, rimesso alla esclusiva valutazione del giudice di merito ( ex multis , Cass. n. 3340 del
5/02/2019; Cass. n. 640 del 14/01/2019; Cass. n. 24155 del 13/10/2017);
-con l’ottavo motivo, denuncia la violazione degli artt. 36, comma 2, n. 4 del d.lgs. n. 546 del 1992 e 132, comma 2, n. 4 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., per avere la CTR motivato in modo apparente nella parte in cui non ha esposto le ragioni per cui doveva considerarsi inconferente, ai fini della difesa della contribuente, la mancata allegazione degli atti relativi alla verifica effettuata nei confronti della società RAGIONE_SOCIALE;
con il nono motivo, denuncia la violazione degli artt. 36, comma 2, n. 4 del d.lgs. n. 546 del 1992 e 132, comma 2, n. 4 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., per avere la CTR motivato in modo apparente nella parte in cui non ha esposto le ragioni per cui doveva considerarsi inconferente, ai fini della difesa della contribuente, la mancata allegazione degli atti relativi alla verifica effettuata nei confronti della società RAGIONE_SOCIALE
entrambi i motivi vanno esaminati unitariamente, essendo connessi, e sono infondati;
è stato più volte affermato che ‘la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perchè affetta da “error in procedendo”, quando, benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture ‘ (Cass., Sez. U. 3.11.2016, n. 22232);
la sentenza impugnata non è affetta da tale grave vizio nella parte in cui affronta la questione della motivazione ‘per relationem’ dell’atto impositivo, in quanto presenta una motivazione che, a
prescindere dalla sua correttezza o meno, palesa l’ iter logico seguito dai giudici di appello, secondo i quali l’avviso impugnato rinviava legittimamente alle conclusioni contenute nel PVC, condividendone il contenuto che era già noto alla contribuente;
le argomentazioni svolte esplicitano le ragioni della decisione, per cui eventuali profili di insufficienza della motivazione, anche se sussistenti, non la viziano in modo così radicale da renderla meramente apparente, dovendosi ritenere che il giudice tributario di appello abbia assolto il proprio obbligo motivazionale al di sopra del “minimo costituzionale” (Cass. Sez. U. 7.04.2014, n. 8053);
con il decimo motivo, denuncia la violazione degli artt. 36, comma 2, n. 4 del d.lgs. n. 546 del 1992 e 132, comma 2, n. 4 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., per avere la CTR motivato in modo apparente nella parte in cui ha accolto e ritenuto fondato l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate in ordine ai rilievi relativi alle differenze inventariali, limitandosi a definire errata la metodologia utilizzata dal CTU, senza nulla delibare in ordine al vaglio degli elementi che hanno portato a rigettare le argomentazioni dedotte dalla contribuente e ad accogliere sul punto la tesi erariale , nonostante l’Agenzia delle entrate non avesse contestato le risultanze della CTU nel giudizio di primo grado;
-con l’undicesimo motivo, deduce la violazione degli artt. 88, 112 e 115 cod. proc. civ. e 111 Cost., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 4, cod. proc. civ., per avere la CTR violato il principio di non contestazione, essendo onere delle parti processuali contestare, alla prima difesa utile, eventuali critiche alla consulenza svolta dal CTU, che, in caso di mancata contestazione, deve ritenersi accettata nelle valutazioni ed indagini tecniche ivi contenute;
con il dodicesimo motivo, denuncia la violazione degli artt. 36, comma 2, n. 4 del d.lgs. n. 546 del 1992 e 132, comma 2, n. 4 cod.
proc. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., per avere la CTR motivato in modo apparente nella parte in cui ha accolto l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate e respinto l’appello incidentale della società contribuente in ordine ai rilievi relativi alle differenze inventariali, limitandosi a definire errata la metodologia utilizzata dal CTU, senza esporre le ragioni del rigetto del gravame incidentale con riferimento all’illegittima applicazione da parte dell’Ufficio delle presunzioni di cessione ed acquisto;
-con il tredicesimo motivo, deduce la violazione dell’art. 4 del d.P.R. n. 441 del 1997, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., per non avere la CTR considerato che la presunzione di cessione e di acquisto si applica con riferimento alle differenze inventariali solo laddove il dato divergente emerga tra giacenze contabili e giacenze effettive oppure tra due differenti scritture contabili obbligatorie e non anche quando, come nella specie, sia rilevato esclusivamente dalle scritture ausiliarie di magazzino;
con il quattordicesimo motivo, deduce la violazione degli artt. 36, comma 2, n. 4 del d.lgs. n. 546 del 1992 e 132, comma 2, n. 4 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., riproponendo, sotto altro profilo, la medesima censura mossa con il dodicesimo motivo;
con il quindicesimo motivo, deduce la violazione degli artt. 36, comma 2, n. 4 del d.lgs. n. 546 del 1992 e 132, comma 2, n. 4 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., per avere la CTR motivato in modo apparente nella parte in cui ha accolto l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate e respinto l’appello incidentale della società contribuente in ordine ai rilievi relativi alle differenze inventariali, limitandosi a definire errata la metodologia utilizzata dal CTU, senza esporre le ragioni del rigetto del gravame
incidentale con riferimento al rilievo sul cattivo carico / scarico dei pall-box;
con il sedicesimo motivo, deduce la violazione degli artt. 36, comma 2, n. 4 del d.lgs. n. 546 del 1992 e 132, comma 2, n. 4 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., per avere la CTR motivato in modo apparente nella parte in cui ha accolto l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate e respinto l’appello incidentale della società contribuente in ordine ai rilievi relativi alle differenze inventariali, limitandosi a definire errata la metodologia utilizzata dal CTU, senza esporre le ragioni del rigetto del gravame incidentale con riferimento al rilievo sul cattivo carico / scarico dei prodotti acquistati in forme intere e poi ceduti in porzioni più piccole, a seguito di lavorazione interna del prodotto;
con il diciassettesimo motivo, deduce la violazione degli artt. 36, comma 2, n. 4 del d.lgs. n. 546 del 1992 e 132, comma 2, n. 4 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., per avere la CTR motivato in modo apparente nella parte in cui ha accolto l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate e respinto l’appello incidentale della società contribuente in ordine ai rilievi relativi alle differenze inventariali, limitandosi a definire errata la metodologia utilizzata dal CTU, senza esporre le ragioni del rigetto del gravame incidentale con riferimento al rilievo sulla rettifica imputabile all’anno 2001;
il decimo, il dodicesimo, il quattordicesimo, il quindicesimo, il sedicesimo e il diciassettesimo motivo, che vanno trattati unitariamente, riguardando tutti la questione della motivazione apparente in relazione alla ripresa relativa alle differenze inventariali, sono infondati;
-alla luce della giurisprudenza richiamata nell’esaminare l’ottavo e il nono motivo, occorre evidenziare che, con riferimento specifico alla
ripresa riguardante le differenze inventariali, la CTR ha spiegato, seppure sinteticamente, ma in modo comprensibile, che era ‘errata la metodologia utilizzata dal CTU, che ha fatto propri tutti i rilievi evidenziati dalla ditta (disattesi dalla guardia di finanza in sede di verifica perché non supportati), concernenti il cattivo carico/scarico dei pall-box, il cattivo carico/scarico formaggio’;
-le argomentazioni contenute nella sentenza impugnata con riferimento alla predetta ripresa, quindi, permettono di comprendere il percorso motivazionale svolto dal giudice di appello che ha ritenuto di riformare sul punto la decisione di primo grado, sulla base delle risultanze della verifica fiscale effettuata dalla Guardia di Finanza, che smentivano sia i rilievi della contribuente sia le conclusioni del CTU nominato dal primo giudice;
-anche l’undicesimo motivo è infondato;
come ha più volte evidenziato questa Corte, con riferimento alla CTU, l’onere di contestazione per la parte attiene alle circostanze di fatto e non anche alla loro componente valutativa, che è sottratta al principio di non contestazione, sicché non sussiste alcun onere di contestazione con riferimento alla valutazione svolta dal consulente tecnico d’ufficio (Cass. n. 30744 del 21/12/2017; n. 12748 del 21/06/2016; n. 6606 del 6/04/2016); poiché la componente valutativa è sottratta al principio di non contestazione (Cass. n. 19181 del 29/09/2016), la parte non ha alcun onere di contestazione con riferimento alla valutazione svolta dal CTU;
il tredicesimo motivo è inammissibile per difetto di specificità ed autosufficienza;
la ricorrente sostiene che la CTR ha erroneamente ritenuto che nella fattispecie in esame dovesse operare la presunzione legale di cessione e di acquisto di cui al d.P.R. n. 441 del 1997, sebbene le
differenze inventariali fossero state rilevate esclusivamente dalle scritture ausiliarie di magazzino;
– occorre premettere al riguardo che il d.P.R. 10 novembre 1997, n. 441 (regolamento recante norme per il riordino della disciplina delle presunzioni di cessione e di acquisto), emanato in attuazione dell’art. 3, comma 137, della legge n. 662 del 1996, con efficacia sostitutiva della disciplina dettata dall’art. 53 del d.P.R. n. 633 del 1972 (cfr. art. 5, comma 2) – che, per costante giurisprudenza di questa Corte, trova applicazione anche con riferimento alle imposte dirette ( ex plurimis , Cass. n. 15087 del 2000, Cass. n. 16483 del 2006, Cass. n. 15312 del 2008, n. 12245 del 2018) – dopo aver stabilito, per quanto qui interessa, all’art. 1, comma 1, che “si presumono ceduti i beni acquistati, importati o prodotti che non si trovano nei luoghi in cui il contribuente svolge le proprie operazioni, né in quelli dei suoi rappresentanti” , ed aver poi previsto tipologia e modalità della prova contraria a carico del contribuente idonea a vincere la presunzione di cessione (art. 1, commi 2 e ss., e art. 2), dispone all’art. 4, che: “1. Gli effetti delle presunzioni di cessione e di acquisto, conseguenti alla rilevazione fisica dei beni, operano al momento dell’inizio degli accessi, ispezioni e verifiche; 2. Le eventuali differenze quantitative derivanti dal raffronto tra le risultanze delle scritture ausiliarie di magazzino di cui alla lettera d) dell’art. 14, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, o della documentazione obbligatoria emessa e ricevuta, e le consistenze delle rimanenze registrate costituiscono presunzione di cessione o di acquisto per il periodo d’imposta oggetto del controllo”;
-come è stato già precisato da questa Corte, si tratta di presunzioni legali relative, annoverabili tra quelle «miste», in quanto consentono, entro i limiti di oggetto e di mezzi di prova stabiliti a fini antielusivi, la dimostrazione contraria da parte del contribuente, il quale sarà
tenuto a provare, con le modalità tassativamente indicate dagli artt. 1 e 2 del d.P.R. n. 441 del 1997, la legittima fuoriuscita dei beni dal circuito aziendale (per la presunzione di cessione) o il legittimo ingresso degli stessi (per la presunzione di acquisto), tale da rendere inoperante lo stesso regime presuntivo (Cass. n. 25917 del 2/09/2022; Cass. n. 1784 del 23/01/2019; Cass. n. 27549 del 30/10/2018);
– questa Corte ha condivisibilmente affermato più volte, tuttavia, che ‘In tema di accertamento dell’IVA e delle imposte sui redditi, il rilievo di ammanchi di beni sulla base di scritture contabili non obbligatorie (nella specie i prospetti inventariali di magazzino relativi ai depositi di singoli punti vendita appartenenti ad aziende della grande distribuzione, essendo tali prospetti prescritti dagli artt. 14 e 22 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, solo per i “magazzini interni centralizzati”) esclude l’applicabilità della disciplina dettata dal d.P.R. 10 novembre 1997, n. 441, in materia di presunzioni di cessione e di acquisto di beni, la quale presuppone che gli ammanchi siano riscontrati a seguito di un inventario fisico dei beni o di un confronto basato su documentazione contabile obbligatoria. Non sono tuttavia inapplicabili le disposizioni generali che consentono la rettifica delle dichiarazioni fiscali anche sulla base di presunzioni semplici dotate dei requisiti di cui all’art. 2729 cod. civ., in quanto queste possono essere desunte anche da documentazione contabile non obbligatoria tenuta dal contribuente e rinvenuta dai verificatori o spontaneamente esibita. ‘ (Cass. n. 9628 del 13.06.2012; n. 18211 del 24.06.2021); ai fini dell’operatività della presunzione legale (relativa), quindi, è beni esistenti nei luoghi sopra indicati e quelli acquistati, importati o prodotti risulta o a seguito di una verifica fisica delle giacenze, oppure
-necessario che la differenza quantitativa, in negativo, dei dal confronto tra la consistenza delle rimanenze registrate e le
risultanze delle scritture ausiliarie di magazzino di cui all’art. 14, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 600 del 1973, o di altra documentazione obbligatoria;
la norma ora citata, poi, nel prescrivere l’obbligo, per le società, gli enti e gli imprenditori commerciali di cui al primo comma del precedente art. 13, della tenuta, fra l’altro, delle scritture ausiliarie di magazzino (“dirette a seguire le variazioni intervenute tra le consistenze negli inventari annuali” e nelle quali “devono essere registrate le quantità entrate ed uscite delle merci destinate alla vendita”), prevede che, per le attività elencate ai numeri 1) e 2) dell’art. 22 del d.P.R. n. 633 del 1972, tra le quali – n. 1) – le cessioni di beni effettuate da commercianti al minuto autorizzati in locali aperti al pubblico, “le registrazioni vanno effettuate solo per i movimenti di carico e scarico dei magazzini interni centralizzati che forniscono due o più negozi o altri punti di vendita”;
ne consegue, pertanto, che le aziende della grande distribuzione, come la ricorrente, non sono obbligate alla tenuta delle scritture ausiliarie di magazzino per i depositi dei singoli punti vendita che non fungono da “magazzini interni centralizzati”, sicchè, se gli ammanchi di beni non siano stati riscontrati né a seguito di un inventario fisico degli stessi, né di un confronto basato sulla documentazione contabile obbligatoria, si è fuori dall’ambito applicativo della disciplina dettata dal d.P.R. n. 441 del 1997;
nella specie è rimasto incontestato che le differenze inventariali erano state riscontrate all’interno delle sole scritture ausiliarie di magazzino (cfr. stralcio del l’avviso di accertamento, nella parte relativa al PVC del 5.05.2015, riprodotto nella nota 1 a p. 14 del ricorso per cassazione);
occorre, tuttavia, rilevare che, l’inoperatività, nella specie, delle presunzioni legali di cessione e di acquisto, non comporta anche
l’inapplicabilità delle norme generali in tema di accertamento delle imposte (in specie, dell’art. 39 del DPR n. 600 del 1973 e dell’art. 54 del DPR n. 633 del 1972), le quali consentono la rettifica delle dichiarazioni anche sulla base di presunzioni semplici dotate dei requisiti di cui all’art. 2729 cod. civ., atteso che anche la documentazione non obbligatoria tenuta dal contribuente, rinvenuta dai verificatori o spontaneamente esibita, può essere valutata ai fini dell’accertamento e della prova della ripresa fiscale ( Cass. n. 7184 del 2009 e n. 18211 del 2021 cit.);
dalla sentenza impugnata non risulta che la ripresa riguardante le differenze inventariali si sia basata solo sulle presunzioni legali di cui al d.P.R. n. 441 del 1997 e la ricorrente non ha riprodotto il contenuto del PVC nella parte relativa al metodo accertativo utilizzato dai verbalizzanti e al conseguente titolo della ripresa, dovendosi considerare che la rettifica delle dichiarazioni può essere consentita anche mediante l’utilizzo di presunzioni semplici dotate dei requisiti di cui all’art. 2729 cod. civ., atteso che la documentazione non obbligatoria tenuta dal contribuente, rinvenuta dai verificatori o spontaneamente esibita, può essere comunque valutata ai fini dell’accertamento e della prova della ripresa fiscale;
con il diciottesimo motivo, deduce la violazione degli artt. 36, comma 2, n. 4 del d.lgs. n. 546 del 1992 e 132, comma 2, n. 4 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., per avere la CTR motivato in modo apparente nella parte in cui ha confermato la sentenza di primo grado con riferimento al rilievo riguardante l’omessa regolarizzazione degli acquisti di servizi per euro 110.579,20, per il quale era stata ritenuta legittima la sola sanzione irrogata e non anche il recupero d’imposta, limitandosi a respingere l’appello incidentale della contribuente che contestava anche il
provvedimento di applicazione della sanzione, senza esporre le ragioni di tale rigetto;
il motivo è fondato;
-in relazione al motivo dell’appello incidentale proposto dalla contribuente, con il quale era stata contestata la residua ripresa relativa alla sanzione irrogata dall’Amministrazione finanziaria con riferimento alla presunta omessa regolarizzazione di acquisti di servizi, riguardante il rapporto con la RAGIONE_SOCIALE, la CTR si è limitata ad affermare che, ‘ in punto di omessa regolarizzazione degli acquisti di servizi (quesito e posto al CTU) per euro 110.579,20, per i quali è stata riconosciuta dal primo Giudice la non dovutezza dell’Iva, ma della sola sanzione di euro 22.115,80 ( ….. ) la stessa Agenzia non ha proposto appello avverso la sentenza impugnata, avendo concordato con quanto esposto dal consulente tecnico, sicchè l’ accoglimento dell’appello principale avanzato dall’Agenzia Delle Entrate (con conseguente rigetto dell’appello incidentale), comporterà l’accoglimento del ricorso proposto in primo grado dalla RAGIONE_SOCIALE, limitatamente a quanto sopra, con il rigetto nel resto. ‘;
si tratta di una motivazione del tutto apparente che non permette di individuare, in relazione alla questione prospettata, l’effettiva ratio decidendi , non avendo il giudice tributario d’appello assolto sul punto il proprio obbligo motivazionale al di sopra del ‘minimo costituzionale’;
-con il diciannovesimo motivo, deduce la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., perché la CTR non si è pronunciata sulla questione (riproposta dalla contribuente nell’atto di controdeduzioni e appello incidentale) riguardante la presunta irregolare fatturazione di cessioni all’esportazione con documenti privi dei requisiti essenziali previsti dalla normativa IVA comunitaria, effettuate nei confronti di due
soggetti residenti in Germania (COGNOME RAGIONE_SOCIALE e NOME RAGIONE_SOCIALE), in relazione alle quali era stata recuperata l’IVA per euro 15.732,99 (p. 97 del PVC), in quanto era stato contestato che nelle fatture non fossero indicati i motivi della loro non imponibilità, sebbene i verbalizzanti non avesse contestato la natura di cessioni intracomunitarie di dette operazioni;
con il ventesimo motivo, deduce la violazione degli artt. 36, comma 2, n. 4 del d.lgs. n. 546 del 1992 e 132, comma 2, n. 4 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., per avere la CTR comunque motivato in modo apparente in relazione al rilievo riguardante le cessioni all’esportazione con documenti privi dei requisiti essenziali, non avendo la CTR esposto le ragioni per cui ha accolto sul punto l’appello erariale;
il diciannovesimo motivo è fondato, con assorbimento del ventesimo motivo;
la contribuente ha evidenziato di avere contestato fin dal ricorso introduttivo il recupero dell’IVA in relazione ad alcune operazioni di cessione intracomunitaria; la sentenza di primo grado aveva annullato detta ripresa, ma l’Agenzia delle entrate ha proposto appello anche su questo punto;
sebbene la CTR abbia riportato al p. 3 della sentenza il contenuto del motivo di appello proposto dall’Agenzia delle entrate in ordine alla suindicata ripresa (‘Quanto alle contestate cessioni all’esportazione con documenti privi dei requisiti essenziali previsti dalla normativa comunitaria, contestava le conclusioni del CTU che aveva ritenuto le irregolarità di carattere meramente formale, il che aveva indotto la Commissione ad annullare il recupero dell’IVA accertata in euro 15.732,99 e le connesse sanzioni irrogate. Ribadiva che il rilievo non era solo formale, avendo la società indicato sulle fatture né la partita IVA delle ditte cessionarie, né altro titolo per la loro
esenzione. Chiedeva, pertanto, sui punti segnalati, la riforma della sentenza impugnata .’) e a p. 5 della sentenza quanto controdedotto sul punto dalla contribuente ( ‘ribadendo che gli stessi verificatori, con riferimento alle operazioni intracomunitarie ritenute irregolari solo formalmente dal CTU, mai avevano posto in dubbio la effettività di esse, con ciò confermando quindi la valutazione dello stesso Consulente d’ufficio il contenuto delle controdeduzioni della contribuente’ ), non si è poi pronunciata sulla predetta censura;
-con il ventunesimo motivo, deduce la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., perché la CTR non si è pronunciata sulla questione (rilevata dalla contribuente nella memoria del 9.07.2018, depositata prima dell’udienza di trattazione dell’appello) riguardante la applicazione del regime sanzionatorio più favorevole, approvato dal d.lgs. n. 158 del 2015, in forza del principio del favor rei di cui all’art. 3, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 472 del 1997;
con il ventiduesimo motivo, deduce la violazione degli artt. 36, comma 2, n. 4 del d.lgs. n. 546 del 1992 e 132, comma 2, n. 4 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., per avere la CTR comunque motivato in modo apparente in relazione all’applicazione del regime sanzionatorio più favorevole, approvato dal d.lgs. n. 158 del 2015;
anche il ventunesimo motivo è fondato, con assorbimento del ventiduesimo motivo;
la CTR ha dato atto a p. 6 della sentenza impugnata che la contribuente aveva invocato, con la memoria del 9.07.2018, l’applicazione della più favorevole disciplina sopravvenuta di cui al d.lgs. n. 158 del 2015, ma non si è poi pronunciata sulla sua applicazione al caso in esame;
in conclusione, vanno accolti il diciottesimo, diciannovesimo e il ventunesimo motivo, assorbiti il ventesimo e il ventiduesimo motivo, rigettati gli altri;
la sentenza impugnata va cassata, in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Corte di Giustizia tributaria di secondo grado della Sicilia, in diversa composizione, per nuovo esame e per regolare le spese del presente procedimento.
P.Q.M.
La Corte accoglie il diciottesimo, il diciannovesimo e il ventunesimo motivo, assorbiti il ventesimo e il ventiduesimo motivo, rigettati gli altri ; cassa l’impugnata sentenza, in relazione ai motivi accolti, e rinvia alla Corte di Giustizia tributaria di secondo grado della Sicilia, in diversa composizione, anche per la regolazione delle spese del presente procedimento.
Così d eciso in Roma, nell’adunanza camerale del 7 novembre 2024.