Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 19243 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 5 Num. 19243 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 13/07/2025
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 24097/2023 R.G. proposto da:
NOME RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliata in NAPOLI CENTRO DIREZIONALE INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE) che la rappresenta e difende;
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE, domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO . (NUMERO_DOCUMENTO) che lo rappresenta e difende;
-controricorrente-
avverso la SENTENZA di CORTE DI GIUSTIZIA TRIBUTARIA II GRADO CAMPANIA n. 2685/2023 depositata il 26/04/2023.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13/05/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
Sentito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha concluso per l’accoglimento dei motivi dal secondo al settimo.
Uditi l’avv. NOME COGNOME su delega dell’avv. COGNOME per la ricorrente e l’avv. dello Stato NOME COGNOME per la controricorrente.
FATTI DI CAUSA
La Società RAGIONE_SOCIALE impugnava avviso di accertamento per IVA relativa al 2015, oltre sanzioni, emesso dall’Agenzia delle entrate e fondato sulla considerazione nella base imponibile di una maggiore imposta di consumo, che il contribuente aveva calcolato considerando soltanto la percentuale di nicotina presente nel liquido e non l’intero liquido.
La Commissione Tributaria Provinciale (CTP) di Napoli, con la sentenza n. 11340, depositata in data 22.10.2021, rigettava il ricorso.
La Corte di giustizia tributaria di secondo grado (CGT -2) della Campania, con la sentenza in epigrafe, rigettava l’appello della contribuente, osservando: -era infondata l’eccezione di difetto di potere di accertamento in capo all’Agenzia delle entrate, trattandosi di accertamento ai fini IVA, a seguito di definizione agevolata dell’accertamento delle accise contestate come evase per l’anno in esame; -sicché era « venuta a mancare ogni contestazione sulla quantificazione della base imponibile da sottoporre a tassazione ai fini i.v.a. », tanto che, con le memorie depositata nel primo grado del giudizio, si era spostata « l’attenzione sulla non imponibilità dell’imponibile accertato in € 82.828,86 perché la Società non avrebbe incassato dette somme non avendole addebitate all’atto della cessione»; -peraltro, secondo la Corte, non rilevava il mancato incasso di dette somme, non addebitate al cessionario da parte della società cedente, la quale, ai sensi dell’art. 17 d.P.R. n. 633/1972, è comunque tenuta al versamento del tributo gravante sulle cessioni, la cui base imponibile doveva tener conto dell’accisa nella misura accertata.
Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione la contribuente che si è affidata a sette motivi e ha depositato memoria.
Ha resistito con controricorso l’Agenzia delle entrate.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo si deduce, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., nullità della sentenza impugnata per violazione degli artt. 132, comma 2 n. 4 c.p.c., art. 36, comma 2, n. 4, d.lgs. n. 546 del 1992, art. 111 Cost., per essere stato rigettato l’appello dal giudice di secondo grado con motivazione meramente apparente. In particolare, secondo la ricorrente, « Le scarne argomentazioni contenute nella sentenza impugnata non permettono di comprendere il percorso argomentativo svolto dalla Corte di Giustizia di secondo grado e su quali prove ha fondato il proprio convincimento ».
1.1. Il motivo è infondato.
1.2. Non essendo più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost., individuabile nelle ipotesi -che si convertono in violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. e danno luogo a nullità della sentenza di ‘mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, purché il vizio emerga dal testo della sentenza impugnata (Cass. n. 23940 del 2018; Cass. sez. un. 8053 del 2014), a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (v., ultimamente, anche Cass. n. 7090 del 2022).
1.3. Questa Corte ha, altresì, precisato che « la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da “error in procedendo”, quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture » (Cass. sez. un., n. 22232 del 2016; v. anche Cass., n. 9105 del 2017, secondo cui ricorre il vizio di omessa motivazione della sentenza, nella duplice manifestazione di difetto assoluto o di motivazione apparente, quando il Giudice di merito ometta di indicare, nella sentenza, gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero indichi tali elementi in modo da rendere impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento).
1.4. In questo caso, come si desume dalla superiore espositiva in fatto, la sentenza attinge il cd. ‘minimo costituzionale’ e, nonostante la sua sinteticità, restituisce in maniera chiara il percorso logico – giuridico seguito: in sostanza, secondo il giudice di merito, l’accisa in questione, accertata dal competente ufficio dell’Agenzia delle dogane e definita in via agevolata dalla contribuente, doveva far parte della base imponibile, non rilevando la mancata rivalsa di tale tributo sui clienti.
Con il secondo motivo si deduce , in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 112 c.p.c., perché il giudice di secondo grado aveva omesso di pronunciarsi sulla nullità dell’avviso di accertamento per motivazione contraddittoria e/o incomprensibile.
2.1. In particolare, la ricorrente aveva dedotto la « gravissima contraddizione» in cui era incorso l’Ufficio nel suo accertamento, finendo per rendere incomprensibili le ragioni del proprio recupero, perché aveva affermato che era inclusa nella base imponibile IVA
solo l’imposta di consumo addebitata al cliente e aveva ammesso che la Società non aveva addebitato l’imposta di consumo asseritamente evasa ai propri clienti; ciò nonostante aveva ritenuto che la Società avrebbe dovuto includere nella base imponibile IVA l’imposta di consumo non addebitata ai propri clienti . Su tale questione il giudice d’appello aveva omesso di decidere.
Con il terzo motivo si deduce , in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 112 c.p.c., perché il giudice di secondo grado aveva omesso di pronunciarsi sull’illegittimità dell’avviso di accertamento per incompatibilità della normativa nazionale in tema di determinazione della base imponibile IVA con il diritto dell’Unione Europea e sulla richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 267 TFUE: nell’atto d’appello la ricorrente aveva dedotto che viola la normativa unionale – e, segnatamente, gli artt. 73 e 78 della Direttiva 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006 un’interpretazione dell’art. 13 del d.P.R. n. 633 che assoggetta ad IVA anche le imposte di consumo che, come quelle in discussione, non sono oggetto di rivalsa e, dunque, non costituiscono parte del corrispettivo contrattuale; invero, quelle norme sovranazionali vietano di ricondurre alla base imponibile IVA spese o oneri che, sebbene posti dalla legge a carico del cedente o prestatore, non siano stati da quest’ultimo inglobati nel prezzo fatto pagare all’acquirente; anche su questa questione la CGT aveva omesso di decidere.
Con il quarto motivo si deduce , in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 112 c.p.c., per aver il giudice di secondo grado omesso di pronunciarsi sulla richiesta di annullamento parziale dell’avviso di accertamento. La Società si è avvalsa della facoltà, prevista dall’art. 8 del decreto -legge 23 ottobre 2018, n. 119, convertito in Legge 17 dicembre 2018, n. 136, corrispondendo un
importo pari al 5 per cento degli importi dovuti e così definendo l’ammontare complessivo dell’imposta di consumo dovuta per le immissioni di prodotti liquidi da inalazione senza combustione effettuate dalla Società nell’anno 2015 nell’ammontare di euro 4.223,34; pertanto, aveva chiesto che su tale somma venisse calcolata l’IVA cosicché la somma eventualmente dovuta all’ADE sarebbe stata di euro 931,55 e non quella pretesa dall’Ufficio ma anche su tale questione la CGT aveva omesso di decidere.
Con il quinto motivo si deduce, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 112 c.p.c., per aver omesso il giudice di secondo grado di pronunciarsi sulla richiesta di annullamento delle sanzioni irrogate con l’avviso di accertamento, avendo dedotto che le sanzioni non erano dovute per il sussistere di obiettive condizioni di incertezza in ordine alla portata e all’ambito di applicazione dell’art. 13 del d.P.R. n. 633.
I motivi possono essere esaminati congiuntamente e vanno disattesi.
6.1. Deve richiamarsi, in proposito, l’orientamento di questa Corte secondo cui « ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia » (Cass., n. 20311 del 2011; Cass., n. 10696 del 2007; Cass., n. 26397 del 2013; Cass., n. 15936 del 2018). Anche di recente, questa Corte ha affermato che « Non ricorre il vizio di mancata pronuncia su una
eccezione di merito sollevata in appello qualora essa, anche se non espressamente esaminata, risulti incompatibile con la statuizione di accoglimento della pretesa dell’attore, deponendo per l’implicita pronunzia di rigetto dell’eccezione medesima, sicché il relativo mancato esame può farsi valere non già quale omessa pronunzia, e, dunque, violazione di una norma sul procedimento (art. 112 c.p.c.), bensì come violazione di legge e difetto di motivazione, in modo da portare il controllo di legittimità sulla conformità a legge della decisione implicita e sulla decisività del punto non preso in considerazione » (cfr. Cass., n. 11717 del 2022; Cass., n. 24953 del 2020; Cass., n. 14486 del 2004).
6.2. Ciò posto, non si ravvisa alcuna violazione dell’art. 112 c.p.c., in quanto il rigetto delle questioni indicate nei motivi di ricorso che precedono è implicito nella costruzione logico-giuridica della sentenza impugnata, che ha rigettato l’appello nel merito esplicitando che deve intendersi « disattesa o dichiarata assorbita ogni ulteriore non pertinente eccezione, deduzione ed istanza ». Del resto, il Giudice non è tenuto ad occuparsi espressamente e singolarmente di ogni allegazione, prospettazione ed argomentazione delle parti, risultando necessario e sufficiente, in base all’art. 132, n. 4, c.p.c., che esponga, in maniera concisa, gli elementi posti a fondamento della sua decisione, e dovendo ritenersi per implicito disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con l’ iter argomentativo seguito. Ne consegue che il vizio di omessa pronuncia – configurabile allorché risulti completamente omesso il provvedimento del giudice indispensabile per la soluzione del caso concreto – non ricorre nel caso in cui, seppure manchi una specifica argomentazione, la decisione adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte ne comporti il rigetto (Cass. n. 12652 del 2020) e la reiezione implicita di una tesi difensiva o di una eccezione è censurabile
mediante ricorso per cassazione non per omessa pronunzia (e, dunque, per la violazione di una norma sul procedimento), bensì come violazione di legge e come difetto di motivazione, sempreché la soluzione implicitamente data dal giudice di merito si riveli erronea e censurabile oltre che utilmente censurata, in modo tale, cioè, da portare il controllo di legittimità sulla decisione inespressa e sulla sua decisività (Cass. n. 12131 del 2023).
Con il sesto motivo si deduce, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 115 c.p.c., per aver il giudice di secondo grado erroneamente ritenuto che l’accertamento dell’Agenzia delle entrate fosse successivo alla definizione dell’imposta di consumo, incorrendo in un errore di percezione sul contenuto oggettivo della prova su una circostanza che ha formato oggetto di discussione tra le parti. Invero, l’avviso di accertamento era stato notificato alla società in data 4.6.2019, mentre la definizione agevolata dell’imposta di consumo e dell’accettazione era avvenuta successivamente, l’11.7.2019; pertanto, quando ha emesso l’avviso di accertamento, l’Agenzia delle Entrate non poteva aver avuto notizia dell’avvenuta accettazione della richiesta di definizione agevolata presentata all’Agenzia delle Dogane.
7.1. Il motivo è inammissibile per plurime ragioni.
7.2. La questione non è decisiva perché la CGT-2 esclude ogni contestazione sull’accisa in quanto questa era stata comunque definita dalla contribuente in via agevolata, restando irrilevante quindi la tempistica rispetto all’emissione dell’avviso di accertamento l’Agenzia delle entrate.
7.3. Inoltre, va considerato che secondo la giurisprudenza di questa Corte, « una censura relativa alla violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo se si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base
della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione » (Cass. n. 6774 del 2022; Cass. n. 1229 del 2019; Cass. n. 27000 del 2016). Quanto al travisamento della prova, poi, le Sezioni Unite di questa Corte (v. sentenza n.5792 del 05/03/2024) hanno stabilito che il travisamento del contenuto oggettivo della prova -il quale ricorre in caso di svista concernente il fatto probatorio in sé e non di verifica logica della riconducibilità dell’informazione probatoria al fatto probatorio – trova per un verso il suo istituzionale rimedio nell’impugnazione per revocazione per errore di fatto, laddove ricorrano i presupposti richiesti dall’art. 395, n. 4, cod. proc. civ.. Per altro verso, – se il fatto probatorio ha costituito un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare e, cioè, se il travisamento rifletta la lettura del fatto probatorio prospettata da una delle parti – il vizio va fatto valere ai sensi dell’art. 360, n. 4, o n. 5, cod. proc. civ., a seconda che si tratti di fatto processuale o sostanziale.
8. Con il settimo motivo si deduce , in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., violazione degli artt. 16, comma 3 e 61, comma 2 del T.U.A. e dell’art. 13 del D.P.R. n. 633/1972, in quanto l’imposta di consumo sui liquidi da inalazione, come calcolata dall’Ufficio, non può concorrere alla base imponibile delle cessioni di beni poste in essere dalla Società perché quest’ultima non l’ha mai traslata sui propri clienti e, dunque, non l’ha mai percepita a titolo di corrispettivo delle cessioni. La Società si è limitata a traslare sui propri clienti soltanto la c.d. ‘mini -imposta’ e, cioè, l’imposta di consumo applicata esclusivamente sulla quantità di nicotina presente nei liquidi da inalazione e non già su tutto il volume di tali liquidi. La ricorrente non solo non ha mai conseguito dai propri
clienti il maggior ammontare di imposta di consumo che, secondo gli assunti del PVC del 21 dicembre 2017, avrebbe dovuto scontare se solo avesse commisurato le aliquote all’intero volume del liquido venduto, ma neppure aveva il diritto di conseguirlo, non essendosi riservata nei contratti stipulati con i propri clienti il diritto di ripetere eventuali maggiori imposte di consumo che si fossero rivelate dovute sui prodotti da essa ceduti e rinunciando così a rivalersi nei confronti dei propri clienti di eventuali importi di imposta di consumo ulteriori rispetto a quelli già compresi nel prezzo di vendita pattuito.
8.1. Il motivo è fondato.
8.2. Va premesso che secondo l’art. 62 quater , comma 1 -bis , TUA, (Testo unico delle disposizioni legislative concernenti le imposte sulla produzione e sui consumi e relative sanzioni penali e amministrative), introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera f), numero 1), del d. lgs. 15 dicembre 2014, n. 188 (Disposizioni in materia di tassazione dei tabacchi lavorati, dei loro succedanei, nonché di fiammiferi, a norma dell’articolo 13 della l. 11 marzo 2014, n. 23), nella versione applicabile ratione temporis , « I prodotti da inalazione senza combustione costituiti da sostanze liquide, contenenti o meno nicotina, esclusi quelli autorizzati all’immissione in commercio come medicinali ai sensi del decreto legislativo 24 aprile 2006, n. 219, e successive modificazioni, sono assoggettati ad imposta di consumo in misura pari al cinquanta per cento dell’accisa gravante sull’equivalente quantitativo di sigarette (..) ». Secondo il successivo comma 1 -ter , « Il soggetto autorizzato di cui al comma 2 è obbligato al pagamento dell’imposta di cui al comma 1 -bis e a tal fine dichiara all’Agenzia delle dogane e dei monopoli, prima della loro commercializzazione, la denominazione e il contenuto dei prodotti da inalazione, la quantità di prodotto delle confezioni destinate alla vendita al pubblico nonché gli altri
elementi informativi previsti dall’articolo 6 del decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, e successive modificazioni ».
8.3. Passando all’IVA, l’art. 13, comma 1, del d.P.R. n. 633 del 1972 prevede che « la base imponibile delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi è costituita dall’ammontare complessivo dei corrispettivi dovuti al cedente o prestatore secondo le condizioni contrattuali, compresi gli oneri e le spese inerenti all’esecuzione e i debiti o altri oneri verso terzi accollati al cessionario o al committente, aumentato delle integrazioni direttamente connesse con i corrispettivi dovuti da altri soggetti ». Si tratta di una indicazione estremamente ampia, tale, dunque, da includere anche gli oneri fiscali, quali i tributi ex TUA, non potendosi ricavare una indicazione in senso contrario dall’art. 15 del d.P.R. n. 633 del 1972 (rubricato « Esclusioni dal computo della base imponibile »), che non menziona né le accise né altre imposte. Nel corrispettivo finale su cui applicare l’IVA debbano essere inclusi anche tutti i tributi di ogni genere (esclusa solo l’IVA per evidenti ragioni) e, in particolare, quelli che gravano la produzione e la vendita dei beni, il cui importo sia posto a carico del destinatario della cessione. A questa stregua, secondo questa Corte, « ai sensi degli artt. 1 e 13, comma 1, del d.P.R. n. 633 del 1972 ed in conformità all’art. 78, par. 1, lett. a), della direttiva 2006/112/CE, nella base imponibile dell’IVA rientrano tutti i costi sostenuti dal fornitore prima della cessione del bene (o della prestazione dei servizi), purché connessi con essa, incluse le imposte che, come le accise (il cui prelievo costituisce un elemento del costo del prodotto venduto), lo Stato esige unicamente dal fornitore, in qualità di sostituto d’imposta, dato che quest’ultimo è autonomamente responsabile del pagamento delle stesse » (Cass. n. 24015 del 2018). Ancor più univoca è la disciplina unionale. La disciplina fondamentale dell’IVA, infatti, si rinviene nella legislazione europea: secondo l’art. 73 della direttiva n. 2006/112/CE la base imponibile comprende « tutto ciò che
costituisce il corrispettivo versato o da versare al fornitore o al prestatore per tali operazioni da parte dell’acquirente, del destinatario o di un terzo, comprese le sovvenzioni direttamente connesse con il prezzo di tali operazioni » mentre l’art. 78, par. 1, lett. a), della direttiva aggiunge che « Nella base imponibile devono essere compresi gli elementi seguenti: a) le imposte, i dazi, le tasse e i prelievi, ad eccezione della stessa IVA; (…) ». La Corte di giustizia della UE, in numerose decisioni, ha precisato che l’inclusione nella base imponibile delle imposte ulteriori -in sé non costituenti un corrispettivo economico della cessione -si giustifica in quanto sussista un legame diretto tra esse e la cessione (cfr. CGUE 23 settembre 1988, in causa C -230/87; CGUE 10 giugno 2006, in causa C -98/05; CGUE 22 dicembre 2010, in causa C -433/09, punto 34; CGUE 28 luglio 2011, in causa C -106/10, punto 33), successivamente precisando che tale legame diretto è ravvisabile allorquando le tasse, i tributi e i prelievi divengono esigibili dal momento che sono forniti e solo quando sono forniti i servizi (CGUE 5 dicembre 2013, in cause C -618/11, C -637/11 e C659/11 punto 41).
8.4. Peraltro, « il rapporto tributario in materia di accise intercorre esclusivamente tra il fornitore del bene sottoposto ad accisa e lo Stato, là dove il rapporto tra il fornitore ed il consumatore è di natura contrattuale e si pone su un piano distinto rispetto a quello tributario. E’, quindi, sempre il fornitore ad essere titolare, dal lato passivo, dell’obbligazione tributaria di corrispondere l’accisa in generale e, in esito al pagamento, egli può riversarne l’onere mediante rivalsa. Una siffatta interpretazione è coerente con la caratterizzazione tipologica delle accise che postula, per poter risultare efficace e garantire un gettito costante all’erario, la concentrazione del controllo su pochi soggetti, ossia i produttori o gli importatori dei prodotti, e con la configurabilità della rivalsa come oggetto di un diritto e non come elemento
connaturale ed ineludibile della fisionomia del tributo (così, Cass., sez. un., 31 dicembre 2018, n. 33687; 19 aprile 2013, n. 9567; 6 agosto 2014, n. 17627 e, tra le ultime, 1 febbraio 2019, n. 3050; 24 maggio 2019, n. 14200; 4 giugno 2019, n. 15199; 30 ottobre 2019, nn. 27791 e 27792)» (Cass., n. 15712 del 2020). A questa stregua, si è affermato, in tema di accise sull’energia elettrica ma il principio ha una portata generale, che esse rientrano nella base imponibile dell’IVA a condizione che le stesse siano state effettivamente traslate sul consumatore finale ex art. 16, comma 3, del d.lgs. n. 504 del 1995, poiché solo in questo caso entrano a far parte del prezzo da quest’ultimo corrisposto e vengono, dunque, a costituire un elemento del costo del prodotto venduto (Cass. n. 26145 del 2019; Cass. n. 24434 del 2024). La soluzione è conforme alla giurisprudenza unionale, secondo cui il corrispettivo ottenuto o da ottenere per la prestazione di un servizio va inteso come il corrispettivo effettivamente ricevuto a tal fine: « la base imponibile è determinata da quello che il soggetto passivo percepisce realmente come corrispettivo » (CGUE 24 ottobre 2013, in causa C -440/12, punto 38): « Sebbene la base imponibile corrisponda nella maggior parte dei casi al prezzo che il consumatore finale deve corrispondere in cambio della prestazione di un servizio o della cessione di un bene, deriva dalla formulazione stessa dell’articolo 73 della direttiva IVA che non è sempre e necessariamente così. Infatti, ai sensi di tale articolo, la base imponibile comprende tutto ciò che costituisce il corrispettivo ‘versato’ al prestatore per un’operazione, da parte del destinatario ‘o di un terzo, comprese le sovvenzioni direttamente connesse con il prezzo di tali operazioni’. Perciò la base imponibile è determinata da quello che il soggetto passivo percepisce realmente come corrispettivo e non da quello che un destinatario determinato versa in un caso concreto (v. in tal senso, in particolare, sentenza del 19
giugno 2003, RAGIONE_SOCIALE, C -149/01, Racc. pag. I -6289, punti da 28 a 31 e giurisprudenza ivi citata) ».
Conclusivamente, accolto il settimo motivo e rigettati gli altri, la sentenza deve essere cassata e la causa deve essere rinviata al giudice del merito per nuovo esame.
P.Q.M.
accoglie il settimo motivo di ricorso, rigettati gli altri, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Campania in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 13/05/2025.