Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 4140 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 5 Num. 4140 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 18/02/2025
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 3262/2024 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE DI NOME COGNOME elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE;
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE , domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO . (NUMERO_DOCUMENTO) che la rappresenta e difende;
-controricorrente-
avverso la SENTENZA di CORTE DI GIUSTIZIA TRIBUTARIA II GRADO LAZIO n. 5453/2023 depositata il 03/10/2023.
Udita la relazione svolta nella udienza pubblica del 22/10/2024 dal Consigliere NOME COGNOME
Sentito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.
Uditi l’avv. NOME COGNOME per il ricorrente e l’avv. dello Stato NOME COGNOME per la controricorrente.
FATTI DI CAUSA
L’Agenzia delle Entrate ha emesso avvisi di accertamento n.TK3016700229/2020 e n. TK3016700239/2020 per IVA relativa al 2015 e 2016 nei confronti della ditta individuale RAGIONE_SOCIALE di NOME COGNOME titolare di una rivendita di prodotti liquidi da inalazione senza combustione.
Con gli atti impositivi, derivanti da PVC redatto in data 27/11/2019 dalla Guardia di Finanza, l’Agenzia ha rettificato in aumento la base imponibile IVA delle fatture emesse dal contribuente, comprendendovi anche l’ imposta di consumo sui prodotti liquidi da inalazione ( ex art. 62quater , comma 1bis , D.Lgs. 504/1995, TUA).
Il contribuente ha proposto ricorso che la Commissione Tributaria Provinciale (CTP) di Roma ha accolto, osservando che essendo facoltativa e non obbligatoria la traslazione dell’imposta di consumo dal fornitore al cessionario, di questa deve essere data prova, ritenuta mancante in questo caso.
L’Agenzia delle entrate ha interposto l’appello e il contribuente ha proposto appello incidentale; la Corte di giustizia tributaria (CGT) di secondo grado del Lazio ha accolto il primo e rigettato il secondo.
Ha ritenuto che la base imponibile IVA è comprensiva anche dell’imposta di consumo e in questo caso era stata provata in via presuntiva la sua traslazione. Inoltre, parte ricorrente non aveva mosso alcuna censura con riguardo agli altri rilievi per omessa presentazione degli elenchi INTRASTAT e per irregolare/omessa integrazione delle fatture comunitarie.
Avverso questa pronuncia ha proposto ricorso per cassazione il contribuente, che si è affidato a sei motivi e ha depositato memoria.
Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di impugnazione si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 62 -quater, comma 1-bis, d.lgs. 504/1995, dell’art. 13 comma 1 d.P.R. n. 633/72 e dell’art. 78 direttiva CEE/112/2006, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. perché erroneamente la CGT ha ritenuto dovuta dal ricorrente la maggior imposta IVA richiesta negli avvisi di accertamento impugnati, includendo nella base imponibile l’imposta di consumo in questione che grava non sulle attività di rivendita al dettaglio di prodotti liquidi da inalazione bensì sui soggetti autorizzati di cui all’art. 62 quater comma 2, cit. ovvero sui gestori dei depositi fiscali o sui soggetti esteri muniti di rappresentante fiscale in Italia; cosicché tale onere poteva essere compreso nella base imponibile IVA della ditta ricorrente soltanto se da questo traslata sul consumatore finale.
Con il secondo motivo si deduce, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 132, comma 3, n. 3 e 111 cost. per motivazione meramente apparente sempre sulla ritenuta debenza da parte del ricorrente della maggior imposta IVA richiesta con gli avvisi di accertamento impugnati.
Con il terzo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 54 d.p.r. n. 633/1972, dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 115 c.p.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., perché non era stata accertata la traslazione dell’imposta di consumo sul prezzo di vendita.
Con il quarto motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 115, comma 2, c.p.c., in relazione all’art 360, comma 1, n.
4, c.p.c., laddove la CGT ha ritenuto non contestato dal ricorrente l’avviso di accertamento relativo all’anno 2015 nella parte relativa alla omessa presentazione degli elenchi Intrastat e alla irregolare/omessa integrazione delle fatture comunitarie.
Con il quinto motivo si deduce, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 132, comma 3, n. 3 e 111 cost. per motivazione assente o meramente apparente in punto di rigetto dell’appello incidentale, proposto dal ricorrente con riguardo alla incompetenza dell’Agenzia delle entrate in materia di imposta di consumo, che doveva essere accertata da parte dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli, e alla eccepita contraddittorietà ed insufficiente motivazione degli avvisi di accertamento impugnati.
Con il sesto motivo si deduce, subordinatamente al mancato accoglimento dei motivi 1 e 2 che precedono, violazione e falsa applicazione dell’art. 112, c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n 4 c.p.c., per omessa pronuncia in ordine alla eccepita incompatibilità tra la normativa nazionale e quella comunitaria in punto di determinazione della base imponibile iva.
Il primo e il terzo motivo, che possono essere esaminati congiuntamente in quanto strettamente connessi, sono fondati, con assorbimento del secondo e del sesto.
2.1. Va premesso che secondo l’art. 62 quater, comma 1 -bis, TUA, nella versione applicabile ratione temporis , « I prodotti da inalazione senza combustione costituiti da sostanze liquide, contenenti o meno nicotina, esclusi quelli autorizzati all’immissione in commercio come medicinali ai sensi del decreto legislativo 24 aprile 2006, n. 219, e successive modificazioni, sono assoggettati ad imposta di consumo in misura pari al cinquanta per cento dell’accisa gravante sull’equivalente quantitativo di sigarette (..)». Secondo il successivo comma 1 -ter, « Il soggetto autorizzato di cui al comma 2 è obbligato al pagamento dell’imposta di cui al comma
1 -bis e a tal fine dichiara all’Agenzia delle dogane e dei monopoli, prima della loro commercializzazione, la denominazione e il contenuto dei prodotti da inalazione, la quantità di prodotto delle confezioni destinate alla vendita al pubblico nonché gli altri elementi informativi previsti dall’articolo 6 del decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, e successive modificazioni ». Il comma 2 stabilisce che « La commercializzazione dei prodotti di cui ai commi 1 e 1 -bis, è assoggettata alla preventiva autorizzazione da parte dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli nei confronti di soggetti che siano in possesso dei medesimi requisiti stabiliti, per la gestione dei depositi fiscali di tabacchi lavorati, dall’articolo 3 del regolamento di cui al decreto del Ministro delle finanze 22 febbraio 1999, n. 67 ». L’art.1 del citato decreto ministeriale definisce « “deposito fiscale”, l’impianto in cui vengono fabbr ic ati e trasformati dai soggetti abilitati per legge nonché detenuti, ricevuti o spediti tabacchi lavorati sottoposti ad accisa, in regime di sospensione dei diritti di accisa ».
2.3. Tali soggetti depositari, obbligati al pagamento della imposta al consumo, non vanno confusi con i rivenditori al pubblico, previsti dall’art. 62 quater, comma 5, cit. che, nella versione applicabile ratione temporis, stabiliva: « In attesa di una disciplina organica della produzione e del commercio dei prodotti di cui ai commi 1 e 1-bis, la vendita dei prodotti medesimi e’ consentita, in deroga all’articolo 74 del decreto del Presidente della Repubblica 14 ottobre 1958, n. 1074, altresì per il tramite delle rivendite di cui all’articolo 16 della legge 22 dicembre 1957, n. 1293, ferme le disposizioni del regolamento di cui al decreto del Ministro dell’economia e delle finanze 21 febbraio 2013, n. 38, adottato in attuazione dell’articolo 24, comma 42, del decretolegge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, quanto alla disciplina in materia di distribuzione e vendita al pubblico dei prodotti ivi disciplinati ». La
stessa Amministrazione riconosce, come indicato nel PVC del 27.11.2019, riportato per autosufficienza in ricorso, che «(i) l’imposta di consumo (…) è dovuta dal depositario autorizzato che ‘immette in consumo’ ovvero estrae dal deposito i prodotti liquidi da inalazione, per essere ceduti agli esercizi che ne effettuano a vendita al pubblico ovvero ai diretti consumatori; (ii) i negozianti che effettuano la vendita al pubblico ovvero i consumatori finali non sono tenuti ad alcun obbligo specifico, né al pagamento dell’imposta, in quanto ricevono i prodotti ad imposta già assolta dal depositario autorizzato o dal rappresentante fiscale.. ».
3. Passando all’IVA, si evince dall’art. 13, primo comma, del d.P.R. n. 633 del 1972, che « la base imponibile delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi è costituita dall’ammontare complessivo dei corrispettivi dovuti al cedente o prestatore secondo le condizioni contrattuali, compresi gli oneri e le spese inerenti all’esecuzione e i debiti o altri oneri verso terzi accollati al cessionario o al committente, aumentato delle integrazioni direttamente connesse con i corrispettivi dovuti da altri soggetti ». Si tratta di una indicazione estremamente ampia, tale, dunque, da includere anche gli oneri fiscali, quali i tributi ex TUA, neppure potendosi ricavare una indicazione in senso contrario dall’art. 15 del d.P.R. n. 633 del 1972 (rubricato « Esclusioni dal computo della base imponibile »), che non menziona né le accise né altre imposte.
3.1. La disciplina interna, dunque, porta a concludere che, in linea di principio, nel corrispettivo finale su cui applicare l’IVA debbano essere inclusi anche tutti i tributi di ogni genere (esclusa solo l’IVA per evidenti ragioni) e, in particolare, quelli che gravano la produzione e la vendita dei beni, il cui importo sia posto a carico del destinatario della cessione. A questa stregua, secondo questa Corte, « ai sensi degli artt. 1 e 13, comma 1, del d.P.R. n. 633 del 1972 ed in conformità all’art. 78, par. 1, lett. a), della direttiva 2006/112/CE, nella base imponibile dell’IVA rientrano tutti i costi
sostenuti dal fornitore prima della cessione del bene (o della prestazione dei servizi), purché connessi con essa, incluse le imposte che, come le accise (il cui prelievo costituisce un elemento del costo del prodotto venduto), lo Stato esige unicamente dal fornitore, in qualità di sostituto d’imposta, dato che quest’ultimo è autonomamente responsabile del pagamento delle stesse » (Cass. n. 24015 del 2018).
3.2. Ancor più univoca è la disciplina unionale. La disciplina fondamentale dell’IVA, infatti, si rinviene nella legislazione europea: l’art. 78, § 1, lett. a), della direttiva n. 2006/112/CE dispone, in termini risolutivi, « Nella base imponibile devono essere compresi gli elementi seguenti: a) le imposte, i dazi, le tasse e i prelievi, ad eccezione della stessa IVA ; (…)». La Corte di giustizia della UE, in numerose decisioni, ha precisato che l’inclusione nella base imponibile delle imposte ulteriori – in sé non costituenti un corrispettivo economico della cessione – si giustifica in quanto sussista un legame diretto tra esse e la cessione (cfr. CGUE 23 settembre 1988, in causa C-230/87; CGUE 10 giugno 2006, in causa C-98/05; CGUE 22 dicembre 2010, in causa C-433/09, punto 34; CGUE 28 luglio 2011, in causa C-106/10, punto 33), successivamente precisando che tale legame diretto è ravvisabile allorquando le tasse, i tributi e i prelievi divengono esigibili dal momento che sono forniti e solo quando sono forniti i servizi (CGUE sentenza 5 dicembre 2013, in cause C-618/11, C-637/11 e C659/11 punto 41).
Tirando le fila del discorso, l’imposta di consumo in questione non è dovuta dal rivenditore al pubblico e non è legata alla cessione al consumatore. Ne deriva che solo nel caso in cui tale onere venga traslato dal rivenditore al consumatore dette imposte vengono a costituire parte del costo del prodotto ceduto e, pertanto, rientrano nella base imponibile IVA. Del resto, deve rammentarsi che, secondo la giurisprudenza unionale il
corrispettivo ottenuto o da ottenere per la prestazione di un servizio va inteso come il corrispettivo effettivamente ricevuto a tal fine: « la base imponibile è determinata da quello che il soggetto passivo percepisce realmente come corrispettivo » (CGUE 24 ottobre 2013, in causa C-440/12, punto 38).
La CTR ha accertato presuntivamente, sulla base di quanto riportato nel PVC, soltanto la traslazione dell’imposta dal fornitore alla ditta ricorrente, titolare della rivendita al pubblico: « diversamente da quanto osservato dal primo Giudicante, l’amministrazione finanziaria ha dato prova, anche solo presuntiva, che l’imposta di consumo fosse stata accollata o traslata dal fornitore-soggetto passivo alla ditta ricorrente, concorrente alla formazione dell’imponibile IVA». Nessun accertamento risulta svolto per verificare se quest’onere era stato traslato, a sua volta, dal ricorrente ai suoi clienti.
Il quarto motivo è inammissibile per difetto di chiarezza, in quanto contraddittorio, e comunque carente di autosufficienza.
6.1. Nella rubrica del motivo si lamenta che erroneamente la CGT aveva ritenuto non contestata l ‘ omessa presentazione degli elenchi Intrastat e la irregolare/omessa integrazione delle fatture comunitarie. Argomentando la censura, però, il ricorrente, che non riporta in maniera puntuale né l’avviso di accertamento né le sue doglianze contro quei rilievi, sembra ammettere che quella contestazione non era stata mossa e sostiene l’irrilevanza della questione: « A nulla rilevando, in merito, la mancata contestazione in ordine alla rilevata omessa presentazione degli elenchi RAGIONE_SOCIALE e per l’irregolare/omessa integrazione delle fatture comunitarie, ai sensi dell’art. 11 comma 4 del D.Lgs 471/97, involgendo detti profilli, seppure riportati nell’avviso di accertamento relativo al 2015, delle mere irregolarità contabili che non incidono sui corrispettivi di vendita praticati dalla Ricorrente e sui quali si attesterebbe il preteso, omesso, versamento della
imposta di consumo e della connessa IVA. Ovverosia integrano, stando a quanto riportato nello stesso verbale di PVC, una mera ‘violazione formale’ (pag. 21 e pag. 33) che nulla ha a che vedere con il preteso omesso versamento della imposta di consumo e dell’IVA, infatti, contestato separatamente e quale ‘violazione sostanziale’». Pertanto, non è possibile, sulla base della sola lettura del ricorso, la piena comprensione della censura. Come noto, il principio di autosufficienza -prescritto, a pena di inammissibilità, dall’art. 366, comma 1, n. 3, c.p.c. e volto ad agevolare la comprensione dell’oggetto della pretesa e dei motivi dell’impugnazione -richiede che il ricorrente esponga i detti motivi in maniera chiara e funzionale ad una loro valutazione in base alla sola lettura del ricorso da parte della Corte di cassazione, che non è tenuta a ricercare gli atti o a stabilire essa stessa se ed in quali parti rilevino (tra le tante, Cass. n. 24432 del 2020; Cass. n. 24340 del 2018).
7. Il quinto motivo è infondato perché la sentenza si è pronunciata su entrambe le questioni oggetto dell’appello incidentale con motivazione che attinge il c.d. ‘minimo costituzionale’. Va premesso che non essendo più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost., individuabile nelle ipotesi – che si convertono in violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. e danno luogo a nullità della sentenza -di ‘mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, purché il vizio emerga dal testo della sentenza impugnata (Cass. n. 23940 del 2018; Cass. sez. un. 8053 del 2014), a prescindere dal
confronto con le risultanze processuali (v., ultimamente, anche Cass. n. 7090 del 2022). Questa Corte ha, altresì, precisato che « la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da “error in procedendo”, quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture » (Cass., sez. un., n. 22232 del 2016; conf. Cass. n. 9105 del 2017, secondo cui ricorre il vizio di omessa motivazione della sentenza, nella duplice manifestazione di difetto assoluto o di motivazione apparente, quando il Giudice di merito ometta di indicare, nella sentenza, gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero indichi tali elementi senza una approfondita disamina logica e giuridica in modo da rendere impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento).
7.1. Con riguardo alla questione dell’incompetenza dell’Agenzia delle entrate ad accertare l’imposta di consumo, la Corte ha lasciato chiaramente intendere che non vi era stato alcun accertamento dell’imposta di consumo: « come correttamente osservato dai primi Giudici, l’Agenzia delle Entrate non ha compiuto un accertamento sull’imposta di consumo di cui all’art. 62-quater, comma 1-bis, del d.lgs. 26 ottobre 1995, n. 504, effettivamente di competenza dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, essendosi limitata ad accertare una maggiore IVA non corrisposta, sul mero presupposto che nella base imponibile dovesse essere inclusa anche l’imposta di consumo presa in considerazione al pari di qualsiasi voce fattuale che debba concorrere alla formazione dell’imponibile ». In relazione ai vizi motivazionali degli accertamenti il Giudice d’appello ha comunque osservato che «… è da escludersi che gli avvisi di accertamento contengano una
motivazione contraddittoria, posto che gli atti impositivi, descrivono compiutamente i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che giustificano l’insorgere dell’obbligazione tributaria a carico del contribuente, ponendolo oltretutto nelle condizioni di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali, così da consentirgli di contestarne efficacemente l’an o il quantum debeatur ».
Conclusivamente, accolti il primo e terzo motivo, assorbiti il secondo e il sesto e rigettati gli altri, la causa deve essere rinviata al giudice del merito.
P.Q.M.
Accoglie il primo e terzo motivo di ricorso, assorbiti il secondo e sesto e rigettati gli altri; cassa di conseguenza la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Lazio in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 22/10/2024.