Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 24972 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 24972 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 10/09/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 18472/2017 R.G. proposto da: COGNOME NOMECOGNOME elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO . (NUMERO_DOCUMENTO) che la rappresenta e difende
-controricorrente-
avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. DEL LAZIO n. 190/2017 depositata il 26/01/2017.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 09/07/2025 dal Consigliere COGNOME
FATTI DI CAUSA
Il contribuente COGNOME NOME, di professione notaio, veniva sottoposto ad accertamento fiscale. L’Agenzia delle Entrate procedeva, per gli anni 2009 e 2010, alla rettifica delle dichiarazioni fiscali presentate ai fini IRPEF, IRAP e IVA, recuperando i maggiori importi dovuti. Al contribuente venivano notificati gli avvisi recanti i seguenti numeri: TFK011100433/2014 e TFK011100441/2014, relativi ai predetti anni d’imposta.
Gli atti impositivi costituivano l’epilogo di una verifica fiscale condotta dalla Guardia di Finanza di Latina, conclusasi con la redazione di un processo verbale di constatazione (PVC). In particolare, all’esito della verifica si accertava che il contribuente aveva omesso di istituire il registro delle somme ricevute in deposito a titolo di spese da sostenere in nome e per conto dei clienti, previsto dall’art. 3 del DM 31 ottobre 1974. Tali somme non risultavano annotate neppure nel registro cronologico, previsto dall’art. 3 del DM 20 dicembre 1990, nel quale devono essere registrati analiticamente, in due sottoconti distinti, da un lato i compensi per onorari, dall’altro gli importi ricevuti per spese anticipate.
Secondo la prospettazione dell’Amministrazione finanziaria, gli importi incassati a titolo di spese anticipate, esclusi dal professionista dall’imposizione diretta e indiretta, risultavano di gran lunga superiori ai costi effettivamente sostenuti e documentati nei medesimi periodi d’imposta. In definitiva, dalle scritture contabili e dalle dichiarazioni fiscali del contribuente emergeva una sistematica acquisizione di somme dai clienti per spese che, in misura rilevante, non erano mai state sostenute e che, pertanto, dovevano essere considerate, in via presuntiva, quali onorari non dichiarati nelle dichiarazioni presentate.
Il contribuente impugnava con distinti ricorsi i due avvisi sopra menzionati. La Commissione Tributaria Provinciale di Latina, con la sentenza n. 888/06/15, rigettava il ricorso avverso l’avviso di accertamento relativo all’anno 2009, e con la sentenza n. 964/03/15 respingeva, parimenti, quello relativo all’anno 2010. La Commissione Tributaria Regionale rigettava, con separate sentenze nn. 190 e 191/18/17, i ricorsi in appello del contribuente, il quale propone ora ricorso per cassazione, articolato in cinque motivi.
L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso. La difesa del contribuente deposita memoria illustrativa. La Procura Generale, nella persona del Sostituto Procuratore Generale dott. NOME COGNOME insiste con nota scritta per l’accoglimento del ricorso limitatamente al quarto e al quinto motivo.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione dell’art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., lamentando l” inesistenza dell’avviso impositivo impugnato ‘ nonché la ‘ motivazione apparente ‘, in quanto gli avvisi risultano privi della sottoscrizione del ‘ capo dell’ufficio ‘.
Con il secondo motivo di ricorso si denuncia la violazione dell’art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., per la ‘ nullità dell’atto impugnato per difetto di motivazione sotto il profilo della mancanza delle ragioni di diritto ‘, avendo l’Agenzia ‘ enunciato solo i fatti, senza minimamente motivare in diritto ‘: in particolare, non era stata citata alcuna norma del D.P.R. n. 600/73 che disciplina le modalità di rettifica delle dichiarazioni fiscali presentate dal contribuente né erano state indicate le disposizioni seguite per la rideterminazione del presunto reddito posseduto dal contribuente nei periodi d’imposta oggetto di accertamento.
Con il terzo motivo di ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 39, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 600 del 1973 e dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., per l’indebita inversione dell’onere della prova.
Con il quarto motivo di ricorso si contesta l’omesso esame di una circostanza controversa tra le parti, in relazione all’art. 360, n. 5, c.p.c., nonché la violazione e falsa applicazione dell’art. 54, comma 2, del TUIR, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., per avere la CTR omesso di pronunciarsi, nella sentenza n. 190/18/17, sulla deduzione dei costi per lavori di manutenzione dell’immobile in cui il contribuente esercita la propria attività professionale.
Con il quinto motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa interpretazione dell’art. 12, comma 1, del D.Lgs. n. 472 del 1997, nonché la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., per l’erroneità del calcolo delle sanzioni.
Il primo motivo è infondato.
Giova premettere che, in tema di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, l’avviso di accertamento – ai sensi degli artt. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 56 del d.P.R. n. 633 del 1972 (che, rinviando alla disciplina sulle imposte sui redditi, richiama implicitamente il citato art. 42) – deve essere sottoscritto, a pena di nullità, dal capo dell’ufficio o da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato, ossia, secondo la classificazione prevista dall’art. 17 del CCNL comparto ‘Agenzie fiscali’ per il quadriennio 2002-2005, da un funzionario di terza area, senza che sia richiesta la qualifica dirigenziale (Cass., 26 febbraio 2020, n. 5177; Cass., 10 dicembre 2019, n. 32172).
È stato altresì chiarito che l’avviso di accertamento è nullo, ai sensi delle norme sopra richiamate, se privo della sottoscrizione del capo dell’ufficio o di altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato. Qualora la sottoscrizione non provenga dal titolare dell’ufficio, incombe all’Amministrazione, in caso di contestazione,
dimostrare il corretto esercizio del potere sostitutivo da parte del sottoscrittore e l’esistenza della delega (Cass., 17 maggio 2022, n. 15898; Cass., 28 luglio 2022, n. 23651; Cass., 29 luglio 2022, n. 23735).
Nel caso in esame, la CTR ha accertato in fatto, in entrambe le sentenze d’appello, la sussistenza di una valida delega di firma. Nella sentenza n. 190/18/17 si rileva in motivazione l’esistenza di ‘ una delega specifica, motivata e per un periodo di tempo ben individuato ‘, ritenuta ‘ pienamente efficace ‘ ai fini della sottoscrizione dell’avviso.
Nella sentenza n. 191/18/17 si osserva che ‘ l’avviso è stato sottoscritto dal Capo Ufficio Controlli dr. NOME COGNOME in qualità di sostituto del direttore dell’ufficio dr. NOME COGNOME; il sostituto ha dunque firmato quale ‘ soggetto delegato dal capo dell’ufficio ‘, in virtù di una delega esistente e valida.
Come affermato da questa Corte, ‘ la delega alla sottoscrizione dell’avviso di accertamento conferita, ai sensi dell’art. 42, comma 1, del d.P.R. n. 600 del 1973, dal dirigente a un funzionario diverso da quello istituzionalmente competente, avendo natura di delega di firma e non di funzioni, è un atto organizzativo interno all’ufficio, sicché, se lo stesso apparato da cui promana non ne disconosce gli effetti, deve presumersi la sussistenza, in capo al funzionario sottoscrittore, dei requisiti soggettivi dell’appartenenza ai ruoli della carriera direttiva ‘ (Cass. n. 689 del 2025).
Inoltre, è stato chiarito che ‘la delega per la sottoscrizione dell’avviso di accertamento, conferita dal dirigente ex art. 42, comma 1, del d.P.R. n. 600 del 1973, è una delega di firma e non di funzioni, in quanto realizza un mero decentramento burocratico senza rilevanza esterna, con l’atto firmato dal delegato imputabile all’organo delegante. Ne consegue che l’attuazione di detta delega può avvenire anche mediante ordini di servizio, senza necessità di indicazione nominativa, essendo sufficiente l’individuazione della
qualifica rivestita dal delegato, idonea a consentire la verifica della corrispondenza tra sottoscrittore e destinatario della delega’ (Cass. n. 21839 del 2024; Cass. n. 11013 del 2019; Cass. n. 28850 del 2019). In particolare, ‘ La delega per la sottoscrizione dell’avviso di accertamento conferita dal dirigente ex art. 42, comma 1, del d.P.R. n. 600 del 1973 è una delega di firma e non di funzioni: ne deriva che il relativo provvedimento non richiede l’indicazione né del nominativo del soggetto delegato, né della durata della delega, che può pertanto essere conferita mediante ordini di servizio, con l’indicazione della qualifica rivestita, idonea a consentire, ex post, la verifica del potere in capo al soggetto che ha materialmente sottoscritto l’atto ‘ (Cass. n. 8819 del 2019).
In ogni caso, l’art. 42 del d.P .R. n. 600/1973 impone, a pena di nullità, che l’avviso di accertamento sia sottoscritto dal capo dell’ufficio o da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato, senza richiedere che tali soggetti rivestano anche la qualifica dirigenziale.
Essendo la materia tributaria governata dal principio di tassatività delle cause di nullità degli atti fiscali, e non occorrendo ai fini della validità che i funzionari delegati o deleganti possiedano qualifiche dirigenziali, la sorte degli atti impositivi formati anteriormente alla sentenza della Corte Cost. n. 37 del 2015 – sottoscritti da soggetti che rivestivano funzioni di capo dell’ufficio ovvero da funzionari della carriera direttiva appositamente delegati -non è condizionata dalla validità o meno della qualifica dirigenziale attribuita per effetto della censurata disposizione di cui all’art. 8, comma 24, del d.l. n. 16/2012 (Cass. n. 27688 del 2024, tra le altre).
Il secondo motivo è inammissibile e comunque infondato.
Come questa Corte ha precisato, il ricorso per cassazione, in virtù del principio di autosufficienza, deve contenere in sé tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la
cassazione della sentenza di merito e, altresì, a consentire la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza che sia necessario rinviare o accedere a fonti esterne al ricorso stesso e, quindi, ad atti o documenti relativi al pregresso giudizio di merito.
Ne consegue che il ricorrente ha l’onere di indicare specificamente, a pena di inammissibilità, oltre al luogo in cui ne è avvenuta la produzione, gli atti processuali e i documenti su cui il ricorso è fondato, mediante la riproduzione diretta del contenuto che sorregge la censura oppure attraverso la riproduzione indiretta, con specificazione della parte del documento cui corrisponde tale riproduzione (Cass., 15 luglio 2015, n. 14784; Cass., 27 luglio 2017, n. 18679; Cass., Sez. U., 27 dicembre 2019, n. 34469).
Nel caso di specie, emerge la mancata riproduzione degli avvisi di accertamento, circostanza che rende la censura non intellegibile.
Ad ogni buon conto, la censura si scontra con il principio, efficacemente affermato da questa Corte, secondo cui: « In tema di imposte sui redditi, l’art. 42, secondo comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, richiede che l’avviso di accertamento contenga non soltanto gli estremi del titolo e della pretesa impositiva, ma anche i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che lo giustificano, al fine di porre il contribuente in condizione di valutare l’opportunità di esperire l’impugnazione giudiziale e, in caso positivo, di contestare efficacemente l”an’ e il ‘quantum debeatur’. Tali elementi conoscitivi devono essere forniti non solo tempestivamente (‘ab origine’, nel provvedimento), ma anche con un grado di determinatezza e intelligibilità tale da consentire all’interessato un esercizio non difficoltoso del diritto di difesa » (Cass. n. 16836 del 2014; Cass. n. 15842 del 2006).
Nel caso in esame, è evidente che il contribuente sia stato posto in condizione di conoscere la pretesa impositiva in misura tale da consentirgli, da un lato, di valutare l’opportunità di esperire l’impugnazione giudiziale e, dall’altro, di contestare efficacemente
l”an’ e il ‘quantum debeatur’, come dimostrato dall’impugnazione degli atti impositivi mediante ricorsi articolati e estesi al merito delle pretese erariali.
La parte ricorrente pretende di elevare a requisito di legittimità dell’avviso di accertamento l’indicazione di specifici riferimenti normativi valorizzati dagli accertatori. Si tratta, tuttavia, di una pretesa priva di fondamento: l’ordinamento tributario non richiede una pedissequa elencazione di norme, tanto è vero che l’errata indicazione nell’atto impositivo della norma tributaria violata non è, di per sé, causa di nullità dell’atto per inosservanza dell’obbligo di motivazione (Cass. n. 16836 n. 2014 in motivazione), né l’Amministrazione finanziaria, in sede di redazione dell’avviso di accertamento, è tenuta ad indicare in quale categoria dogmatica (analitico, analitico induttivo, analitico presuntivo, sintetico, etc.) deve essere iscritto l’atto impositivo notificato al contribuente, poiché rilevano, ai fini della legittimità dell’accertamento tributario e del rispetto del diritto di difesa, la sua fondatezza e la chiara intelligibilità (Cass. n. 16015 del 2024). È sufficiente, quindi, che l’atto consenta al contribuente di comprendere la pretesa e di difendersi.
Il terzo motivo è inammissibile.
Questa Corte ha chiarito, in tema di onere probatorio, che in sede di accertamento dei redditi costituisce presupposto per procedere col metodo analitico-induttivo la complessiva inattendibilità della contabilità, da valutarsi sulla base di presunzioni ex art. 39, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 600 del 1973, alla stregua di criteri di ragionevolezza, ancorché le scritture contabili siano formalmente corrette (Cass., 14 ottobre 2020, n. 22184). A differenza dell’accertamento induttivo puro, la « incompletezza, falsità od inesattezza » dei dati contenuti nelle scritture contabili non è tale da consentire di prescindere dalle stesse, poiché l’Ufficio può solo completare le lacune riscontrate, utilizzando, ai fini della
dimostrazione dell’esistenza di componenti positivi di reddito non dichiarati, anche presunzioni semplici aventi i requisiti di cui all’art. 2729 cod. civ. (Cass., 18 dicembre 2019, n. 33604), le quali non devono essere necessariamente plurime, potendosi il convincimento del giudice fondare anche su un unico elemento, purché preciso e grave (Cass., 14 ottobre 2020, n. 22184, cit.), con la conseguenza che l’onere della prova si sposta sul contribuente (Cass., 2 novembre 2021, n. 30985), onere che nel caso in esame non è stato assolto, come ripetutamente affermato dai giudici di secondo grado.
Su questa premessa, è evidente che la CTR non abbia sovvertito il riparto degli oneri probatori e che, sotto le mentite spoglie di una denunciata violazione di legge, la parte ricorrente miri in realtà a una rivisitazione del merito della controversia, operazione invero preclusa nella presente sede.
Il motivo è inammissibile, poiché la parte ricorrente ha prospettato la violazione dell’art. 2697 c.c., ancorché il giudice di appello non abbia attribuito l’onere della prova a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie, avendo invece ritenuto assolto l’obbligo motivazionale dall’agente della riscossione.
La violazione dell’art. 2697 c.c. si configura infatti solo nell’ipotesi in cui il giudice attribuisca l’onere della prova a una parte diversa da quella gravata in base alla norma; non invece quando, a seguito di una valutazione incongrua delle acquisizioni istruttorie, egli ritenga erroneamente assolto tale onere. In questo secondo caso, vi è un errore di apprezzamento dell’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c. (Cass., 19 agosto 2020, n. 17313).
In particolare, la violazione dell’art. 2697 c.c. presuppone che il giudice di merito applichi in modo scorretto la regola di ripartizione dell’onere della prova, attribuendo l’onus probandi a una parte
diversa da quella onerata in relazione alla distinzione tra fatti costitutivi ed eccezioni (Cass., 23 ottobre 2018, n. 26769). Ciò non è accaduto nel caso di specie: il giudice non ha attribuito l’onere della prova a parte diversa da quella gravata, ma ha semplicemente ritenuto assolto tale onere in base agli elementi istruttori acquisiti.
La censura della parte ricorrente si traduce, dunque, in una doglianza volta a far emergere un’incongrua valutazione delle risultanze di causa, vale a dire un errore di apprezzamento sull’esito della prova, censurabile in sede di legittimità solo ex art. 360, n. 5, c.p.c. (Cass., 5 settembre 2006, n. 19064; Cass., 10 febbraio 2006, n. 2935).
In realtà, dietro la denunciata violazione si cela il tentativo del ricorrente di ottenere una diversa ricostruzione dei fatti di causa, censurando la pretesa non congruità dell’interpretazione offerta dalla Corte territoriale degli elementi presuntivi valorizzati: operazione estranea al giudizio di legittimità.
Il quarto motivo è fondato e va accolto.
Il motivo, sebbene formalmente ricondotto ai vizi di cui all’art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c., integra in realtà l’ipotesi di omessa pronuncia, riconducibile all’art. 360, n. 4, c.p.c., in quanto inerente alla violazione dell’art. 112 c.p.c. È principio consolidato che l’erronea intitolazione del motivo di ricorso per cassazione non comporta l’inammissibilità dell’atto, potendosi procedere alla riqualificazione del motivo in una diversa fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., purché dal contenuto del ricorso emerga chiaramente il vizio denunciato (Cass., sez. lavoro, ord. 18 maggio 2025, n. 13159).
Nel caso di specie, risulta che la questione fosse stata specificamente introdotta in primo grado e riproposta in appello, ove il contribuente aveva insistito sulla deducibilità delle spese di ristrutturazione e manutenzione straordinaria sostenute per l’immobile locato. Sul punto, l’Amministrazione finanziaria aveva
preso posizione, aderendo alla tesi del contribuente. Tuttavia, né la CTP né la CTR hanno adottato alcuna statuizione, omettendo del tutto di esaminare la doglianza.
L’omissione non può ritenersi un rigetto implicito, non rinvenendosi nella motivazione della sentenza impugnata alcun riferimento, neppure indiretto, alla questione, che rimane pertanto priva di qualsiasi considerazione.
Ne consegue che il motivo deve essere accolto, con cassazione della sentenza impugnata sul punto e rinvio al giudice di merito per nuovo esame.
Il quinto motivo è fondato e va parimenti accolto.
Nel rispetto del principio di specificità e autosufficienza, il contribuente ha veicolato in maniera rituale il contenuto della censura svolta in primo grado, ribadita in appello e ignorata dal CTR, senza che quest’ultimo ne abbia preso alcuna considerazione. Previa riqualificazione quale vizio di omessa pronuncia, la censura risulta pienamente accoglibile.
Analogamente al quarto motivo, la questione può essere riqualificata come vizio di omessa o insufficiente pronuncia: il giudice di merito non ha esaminato in modo completo gli elementi rilevanti per determinare l’importo delle sanzioni e non ha motivato in merito alla corretta applicazione della normativa, lasciando la questione completamente priva di considerazione.
In linea con il principio già richiamato (Cass., 18 maggio 2025, n. 13159 cit.), l’errata qualificazione del motivo non impedisce di valutare il vizio effettivamente dedotto. Alla luce di ciò, il quinto motivo deve essere accolto, con cassazione della sentenza impugnata sul punto e rinvio al giudice di merito affinché proceda a un nuovo esame del calcolo delle sanzioni, con espresso obbligo di motivare compiutamente.
Alla luce delle considerazioni esposte, il ricorso deve essere respinto quanto ai primi tre motivi, che risultano infondati o
inammissibili, mentre si appalesano fondati il quarto e il quinto motivo, i quali integrano vizi di omessa pronuncia in relazione a questioni ritualmente introdotte e non esaminate dal giudice di merito.
Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere cassata limitatamente ai profili oggetto di accoglimento, con rinvio alla Corte di Giustizia Tributaria di Secondo Grado del Lazio, in diversa composizione, affinché provveda a un nuovo esame delle questioni dedotte, con integrale e compiuta motivazione, e provveda altresì alla regolazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione accoglie il quarto e il quinto motivo di ricorso, respinti il primo, il secondo e il terzo motivo di ricorso; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti; rinvia alla Corte di Giustizia Tributaria di Secondo Grado del Lazio, in diversa composizione, affinché provveda a nuovo esame delle questioni oggetto di accoglimento, con integrale e compiuta motivazione; rimette al giudice del rinvio anche la regolazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 09/07/2025.
Il Presidente
NOME COGNOME