Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 23831 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 23831 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 25/08/2025
ORDINANZA
sul ricorso (iscritto al n. 11183/2016 R.G.) proposto da:
n. 11183/2016 R.G.
COGNOME
Rep.
A.C. 12 giugno 2025
OGGETTO : Tributi -Avviso di accertamento -IRPEF, IRAP e IVA Processo tributario – Prova dei fatti Processo verbale di constatazione.
NOME COGNOME nata a Caccamo (PA) il 5 aprile 1981 e residente in Termini Imerese (PA), alla INDIRIZZO (Codice Fiscale: CODICE_FISCALE), elettivamente domiciliata in Roma, alla INDIRIZZO presso lo studio dell ‘ avv. NOME COGNOME che la rappresenta e difende, giusta procura speciale in calce al ricorso introduttivo del presente giudizio di legittimità (indirizzo p.e.c. del difensore: ‘ EMAIL) ;
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE (Codice Fiscale: CODICE_FISCALE, in persona del Direttore pro tempore , rappresentata e difesa dall ‘ Avvocatura Generale dello Stato e domiciliata ‘ ope legis ‘ presso gli uffici di quest’ ultima, siti in Roma, alla INDIRIZZO (indirizzo p.e.c.: EMAIL);
-controricorrente –
avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Sicilia (Palermo) n. 4512/29/2015, pubblicata il 23 febbraio 2015; udita la relazione della causa svolta, nella camera di consiglio del 12 giugno 2025, dal Consigliere relatore dott. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
1.- In punto di fatto e limitando l ‘ esposizione alle sole circostanze rilevanti in questa sede, si osserva che oggetto del contenzioso è un avviso di accertamento (n. NUMERO_DOCUMENTO) per IRPEF con relative addizionali, IRAP e IVA, oltre sanzioni ed interessi e contributi dovuti all ‘ INPS, emesso, nei confronti di NOME con riguardo all ‘ anno d ‘ imposta 2008.
Tale atto impositivo traeva origine da un p.v.c. della Guardia di Finanza non allegato all ‘ avviso di accertamento né prodotto successivamente in giudizio. L ‘ avviso di accertamento era motivato per relationem con riferimento a tale p.v.c..
La contribuente NOME proponeva ricorso innanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Palermo.
Quest ‘ ultima, con la sentenza di primo grado rigettava il ricorso della contribuente. Con riguardo al profilo della mancata produzione del p.v.c., essa affermava che tale mancata produzione non costituiva violazione del diritto di difesa della contribuente, trattandosi di documento ben noto a quest ‘ ultima, che ne aveva avuto già piena conoscenza.
Inoltre, facendo riferimento al p.v.c. e alle sue motivazioni, la CTP superava anche la questione di merito circa la deducibilità dei costi, evidenziando, peraltro, che tale p.v.c. non era stato prodotto, cosicché non era stato possibile valutare il suo contenuto.
2.La CTR della Sicilia (Palermo), investita dall ‘ appello della contribuente, lo rigettava con la sentenza oggetto dell ‘ odierno ricorso per cassazione, evidenziando che: – non era illegittima la motivazione dell ‘ avviso di accertamento, in quanto fatta per relationem con rinvio al p.v.c.; – l ‘ assenza del p.v.c. già notificato alla contribuente non precludeva la validità dell ‘ atto.
3.Avverso la menzionata sentenza d ‘ appello, la contribuente NOME ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi.
4.- L ‘ Agenzia delle Entrate ha resistito con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.- Con il primo motivo, la ricorrente denuncia, ai sensi dell ‘ art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione dell ‘ art. 42, commi 2 e 3, d.P.R. n. 600 del 1973.
Sostiene, al riguardo, che l ‘ amministrazione finanziaria si sarebbe limitata a condividere le conclusioni del p.v.c. senza procedere ad alcuna valutazione critica dei motivi in esso indicati, contravvenendo così a quei principi consolidati, sia in dottrina che in giurisprudenza, che vietano di procedere all ‘ accertamento limitandosi a fare proprie, pedissequamente ed acriticamente, le risultanze dei verbali di costatazione della Guardia di Finanza e lasciando di fatto agli organi investigativi un potere che non è loro delegabile.
Evidenzia, ancora, che, sia con riferimento ai principi sanciti nell ‘ art. 3 l. n. 241 del 1990 che a quelli richiamati nell ‘ art. 7 l. n. 212 del 2000, sussisterebbe l ‘ obbligo dell ‘ amministrazione finanziaria di fornire, in caso di accertamento dei redditi, i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche da esplicitare nella relativa motivazione dell ‘ atto. Sarebbe, dunque, mancato un valido contraddittorio che, in contrapposizione alla tesi formulata dall ‘ organo investigativo, giustificasse i fatti e le circostanze poi utilizzati nell ‘ accertamento.
2.- Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia, ai sensi dell ‘ art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell ‘ art. 7 l. n. 212 del 2000.
Sostiene, al riguardo, che non sarebbe stato osservato l ‘ obbligo di allegare il p.v.c. in giudizio ed evidenzia che tale obbligo non riguarderebbe tanto la materiale allegazione del p.v.c. all ‘ accertamento da notificare, quanto la conoscenza da fornire alla Commissione Tributaria, la quale sarebbe quindi chiamata a decidere e verificare che i motivi di accertamento siano stati correttamente valutati dall ‘ Ufficio accertatore o se piuttosto essi siano carenti o sovradimensionati rispetto a quanto riportato nella parte motivazionale.
3.- Con il terzo motivo, la ricorrente denuncia, ai sensi dell ‘ art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell ‘ art. 109 TUIR (già art. 75).
Sostiene, al riguardo, di aver contestato la mancata ammissione dei costi per €. 17.639,24 (euro diciassettemilaseicentotrentanove/34) e aver evidenziato come nell ‘ avviso di accertamento non fosse indicato il motivo di tale non ammissione. La CTP avrebbe del tutto ignorato tale doglianza, mentre la CTR ha affermato che il p.v.c. contiene nell ‘ interezza il rilievo
dell ‘ indeducibilità dei costi indicati nell ‘ atto impositivo in quanto verificati non di competenza e non inerenti all ‘ attività della contribuente. In tal senso, la motivazione della sentenza impugnata sarebbe, secondo la prospettazione della contribuente sviluppata nel ricorso introduttivo del presente giudizio di legittimità, del tutto apodittica, in quanto non essendo stato il p.v.c. prodotto in giudizio, non sarebbe possibile comprendere come abbia fatto la CTR a verificarne e conoscerne il contenuto.
4.- I primi tre motivi, senz ‘ altro suscettibili di essere esaminati congiuntamente, sono inammissibili.
4.1.- Ed invero, quanto alla prima censura, giova rammentare che, come chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte regolatrice, « L ‘ avviso di accertamento, rappresentando l ‘ atto conclusivo di una sequenza procedimentale a cui possono partecipare anche organi amministrativi diversi, può essere motivato ‘ per relationem ‘ , anche con il rinvio pedissequo alle conclusioni contenute in un atto istruttorio (nella specie il p.v.c. della Guardia di finanza), senza che ciò arrechi alcun pregiudizio al diritto del contribuente. La scelta in tal senso dell ‘ Amministrazione finanziaria non può essere di per sé censurata dal giudice di merito, al quale, invece, spetta il potere di valutare se, dal richiamo globale all ‘ atto strumentale, sia derivata un ‘ inadeguatezza o un ‘ insufficienza della motivazione dell ‘ atto finale. In sede di legittimità, pertanto, il contribuente che intenda contestare l ‘ accertamento dell ‘ adeguatezza della motivazione ‘ per relationem ‘ dovrà specificamente indicare, nei motivi di ricorso, le cause della sua inadeguatezza. » (Cass. civ., Sez. 5, sentenza n. 2907 del 10 febbraio 2010, Rv. 611851-01; conf. Cass. civ., Sez. 5, sentenza n. 21119 del 13 ottobre 2011, Rv. 619740-01; Cass. civ., Sez. 5, sentenza n. 30560 del 20 dicembre 2017, Rv. 646303-01; Cass. civ., Sez. 5, sentenza n. 32957 del 20 dicembre 2018, Rv. 652115-01; Cass. civ., Sez. T, sentenza n. 3610 del 12 febbraio 2025, Rv. 674088-01, secondo le quali « In tema di avviso di accertamento, la motivazione per relationem, con rinvio alle conclusioni contenute nel verbale redatto dalla Guardia di Finanza dell ‘ esercizio dei poteri di polizia tributaria, non è illegittima, per mancanza di autonoma valutazione da parte dell ‘ Ufficio degli elementi da quella acquisiti, significando semplicemente che l ‘ Ufficio stesso, condividendone le conclusioni, ha inteso realizzare una economia di
scrittura che, avuto riguardo alla circostanza che si tratta di elementi già noti al contribuente, non arreca alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio. »).
Nella specie, dalla lettura e disamina del motivo, risulta piuttosto agevole desumere come la ricorrente non abbia censurato l ‘ adeguatezza della motivazione, ma si sia limitata esclusivamente a lamentare il fatto che l ‘ amministrazione finanziaria avrebbe recepito « le conclusioni del PVC senza procedere ad alcuna valutazione critica dei motivi in esso indicati » (cfr., all ‘ uopo, quanto evidenziato a pag. 4 del ricorso introduttivo del presente giudizio di legittimità).
4.2.- Con riguardo al secondo motivo, questo Collegio ribadisce quanto già chiarito (in motivazione) da Cass. civ., Sez. T, ordinanza n. 12107 del 6 maggio 2024 (non massimata).
Va premesso, infatti, che la produzione del processo verbale di constatazione non rappresenta un adempimento imprescindibile del processo tributario. In primo luogo, dalla sua mancata produzione non deriva l ‘ inammissibilità del ricorso, prevista dall ‘ art. 22, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992 per i soli atti ivi indicati, tra cui non compaiono l ‘ originale o la fotocopia dell ‘ atto impugnato (comprensivi anche del p.v.c. richiamato nell ‘ avviso di accertamento) ai quali si riferisce l ‘ art. 22, comma 4 e che possono quindi essere prodotti anche in un momento successivo ovvero su impulso del giudice tributario, qualora si avvalga dei poteri previsti dal successivo comma 5 (Cass. civ., Sez. 5, ordinanza n. 16476 del 31 luglio 2020, Rv. 658436-01; Cass. civ., Sez. 5, ordinanza n. 12383 del l’11 maggio 2021, Rv. 661201-01). Nel processo tributario il p.v.c. rileva come mezzo di prova, rimesso quindi all ‘ onere dispositivo delle parti e salvo l ‘ esercizio dei poteri officiosi del giudice ex art. 7 d.lgs. n. 546 del 1992 (Cass. civ., Sez. 5, sentenza n. 34393 del 23 dicembre 2019, Rv. 656545-01). A questa stregua, in situazioni di oggettiva incertezza il giudice, in funzione integrativa degli elementi istruttori in atti e non per sopperire ad una carenza istruttoria delle parti, può ordinare la produzione del p.v.c. richiamato nell ‘ avviso impugnato e non prodotto (Cass. civ., Sez. 5, ordinanza n. 16476 del 31 luglio 2020, Rv. 658436-01; Cass. civ., Sez. 5, ordinanza n. 12383 dell’11 maggio 2021, Rv. 661201 -01; Cass. civ., Sez. 5, sentenza n. 955 del 20 gennaio 2016, Rv. 638439-01), salvo
il caso in cui il materiale probatorio acquisito agli atti imponga una determinata soluzione della controversia (Cass. civ., Sez. 5, sentenza n. 24464 del 17 novembre 2006, Rv. 594275-01). Peraltro, non può essere « affermato come principio assoluto » che dalla mancata produzione del p.v.c. derivi una carenza di prova a carico dell ‘ amministrazione finanziaria, perché « la situazione deve essere distinta in relazione ad ogni caso » (Cass. civ., Sez. 5, ordinanza n. 16476 del 31 luglio 2020, Rv. 65843601, in motivazione), spettando al giudice la decisione « iuxta alligata et probata » (Cass. civ., Sez. 5, sentenza n. 34393 del 23 dicembre 2019, Rv. 656545-01, in motivazione).
Invero, secondo l ‘ art. 115 c.p.c., come sostituito dall ‘ art. 45, comma 14, l. n. 69 del 2009, il giudice può porre a fondamento della decisione i fatti che non sono stati specificamente contestati: in altri termini, la parte è sollevata dall ‘ onere di provare il fatto non specificamente contestato (Cass. civ., Sez. 3, ordinanza n. 16028 del 7 giugno 2023, Rv. 66781601), perché la mancata contestazione conferisce al fatto carattere non controverso e « rende superflua la prova » (Cass. civ., Sez. 3, sentenza n. 8213 del 4 aprile 2013, Rv. 625786-01).
Ciò costituisce principio generale del processo, suscettibile di essere applicato anche nel giudizio tributario, seppure al netto della specificità dettata dalla non disponibilità dei diritti controversi nel processo de quo ; va precisato che esso concerne esclusivamente il piano (probatorio) dell ‘ acquisizione del fatto non contestato, ove il giudice non sia in grado di escluderne l ‘ esistenza in base alle risultanze ritualmente assunte nel processo; la norma si riferisce ai fatti affermati a fondamento della domanda ovvero delle eccezioni, cioè ai fatti materiali che integrano la pretesa sostanziale dedotta in giudizio o le fattispecie estintive o impeditive ma non si estende, invece, alle circostanze che implicano un ‘ attività di giudizio (Cass. civ., Sez. 5, sentenza n. 2196 del 6 febbraio 2015, Rv. 634386-01: « Il principio di non contestazione, di cui all’art. 115, primo comma, cod. proc. civ., si applica anche nel processo tributario, ma, attesa l’indisponibilità dei diritti controversi, riguarda esclusivamente i profili probatori del fatto non contestato, e sempreché il giudice, in base alle risultanze ritualmente assunte nel processo, non ritenga di escluderne l’esistenza. »). Nel processo tributario, in coerenza con la veste di attore
in senso sostanziale dell ‘ amministrazione finanziaria, la cui pretesa impositiva è quella risultante dall ‘ atto impugnato, sia per il petitum che per la causa petendi , costituita quest ‘ ultima dai presupposti di fatto e di diritto posti a fondamento di quell ‘ atto (Cass. civ., Sez. 5, ordinanza n. 17231 del 27 giugno 2019, Rv. 654392-01), i fatti su cui si fonda la domanda sono contenuti nell ‘ avviso di accertamento (o di rettifica); sebbene questo non sia l ‘ atto introduttivo del processo, ne costituisce « l’oggetto (immediato), per lo meno nei casi in cui venga in questione la pretesa fiscale in esso riportata » e « la cognizione del giudice è limitata dai profili che siano stati contestati col ricorso », cosicché i fatti e i profili non contestati col ricorso divengono fatti pacifici sul piano della prova della loro storica esistenza (Cass. civ., Sez. 5, sentenza n. 2196 del 6 febbraio 2015, Rv. 634386-01, in motivazione; cfr., altresì, Cass. civ., Sez. 5, sentenza n. 12287 del 18 maggio 2018, Rv. 648373-01).
4.3.- Infine, con riguardo al terzo motivo, la sua inammissibilità discende dalla semplice considerazione che esso non si confronta, in modo alcuno, con la ratio decidendi a sostegno della sentenza impugnata la quale ha respinto il corrispondente motivo d’appello non già affermando che il p.v.c. era stato prodotto in giudizio, ma semplicemente chiarendo che esso conteneva nell’interezza il rilievo dell’indeducibilità dei costi indicati nell’atto impositivo , in quanto verificati non di competenza e non inerenti all’attività della contribuente.
Anche in tal caso, dunque, il motivo difetta, con tutta evidenza, del requisito della specificità, giacché, alla stregua dei principi già sopra enucleati con riguardo al primo motivo di ricorso, sarebbe stato onere della ricorrente censurare l’adeguatezza delle ragioni menzionate nel p.v.c. alla stregua delle quali la Guardia di Finanza, prima, e l’amministrazione finanziaria accertatrice, poi, avevano escluso che i costi di cui si tratta fossero muniti del requisito dell’inerenza all’attività svolta dalla contribuente. Tale onere, tuttavia, non risulta essere stato assolto, giacché, anche in tal caso, la contribuente, anziché sviluppare specifiche critiche avverso le ragioni attinenti alla non deducibilità dei suddetti costi, si è limitata esclusivamente a lamentarsi della motivazione per relationem di cui all’avviso di accertamento, evidenziandone genericamente l’insufficienza e l’inidoneità a lasciar comprendere tali ragioni.
5.- Con il quarto (e ultimo) motivo, la ricorrente denuncia, ai sensi dell ‘ art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell ‘ art. 2002 c.c., in ordine alla ripresa dell ‘ importo relativo ai cd. buoni pasto.
Sostiene, al riguardo, come la motivazione della sentenza impugnata risulti assolutamente carente in ordine a tale profilo, pur sollevato mediante apposita doglianza fin dal giudizio di primo grado, dinanzi alla CTP di Palermo. Evidenza, ancora, come sia in primo grado che in appello, i giudici non avrebbero dato credito al fatto che, a mente dell ‘ art. 2002 c.c. il buono pasto rappresenta il documento valevole ad identificare l ‘ avente diritto alla prestazione consentendo allo stesso di averne diritto (nel caso di specie fornitura di gastronomia) con esclusione di qualsiasi prestazione in denaro. Sottolinea, infine, come, al momento della consegna del buono pasto, l ‘ esercente rilascia lo scontrino equivalente al prodotto di gastronomia consegnato e questo, annotato nel giornale di fondo del misuratore fiscale, farà parte del corrispettivo giornaliero. Le fatture emesse successivamente nei confronti delle imprese emittenti i predetti buoni pasto hanno semplicemente lo scopo di addivenire all ‘ incasso dell ‘ importo facciale di tali buoni, ma non debbono essere registrate tra le fatture emesse per evitare una duplicazione di incassi. Pertanto, secondo la prospettazione della contribuente, se si fosse proceduto alla registrazione delle predette fatture, si sarebbe creata una duplicazione di poste imponibili (cioè, importi indicati prima tra i corrispettivi e poi tra le fatture) e, quindi, di imposte, in contrasto con la disposizione di cui all ‘ art. 163 del d.P.R. n. 917 del 1986 (cd. TUIR).
In definitiva, anche in tal caso, la censura si dirige essenzialmente contro la motivazione della sentenza impugnata la quale, alla stregua di quanto prospettato nel ricorso introduttivo del presente giudizio di legittimità, non avrebbe esaminato la doglianza concernente la ripresa a tassazione degli importi relativi ai cd. buoni pasto.
6.- Anche tale censura è inammissibile, sotto plurimi profili.
Ed invero, essa risulta anzitutto inammissibile in quanto, pur dirigendosi avverso la motivazione della sentenza impugnata, risulta proposta non già facendo valere la nullità di quest’ultima, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4), c.p.c. per violazione delle norme processuali di cui
agli artt. 112, 132, comma 2, n. 4), c.p.c. e 36, comma 2, n. 4), d.lgs. n. 546 del 1992, ma sollevando questione di violazione e falsa applicazione di una norma di diritto sostanziale (nella specie: l’art. 2002 c.c.) .
Del resto, come più volte chiarito da questa Corte regolatrice, « L’omessa pronuncia su alcuni dei motivi di appello – così come l’omessa pronuncia su domanda, eccezione o istanza ritualmente introdotta in giudizio – risolvendosi nella violazione della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, integra un difetto di attività del giudice di secondo grado, che deve essere fatto valere dal ricorrente non con la denuncia della violazione di una norma di diritto sostanziale ex art. 360, n.3, c.p.c., o del vizio di motivazione ex art. 360, n.5, c.p.c., in quanto siffatte censure presuppongono che il giudice del merito abbia preso in esame la questione oggetto di doglianza e l’abbia risolta in modo giuridicamente non corretto ovvero senza giustificare (o non giustificando adeguatamente) la decisione al riguardo resa, ma attraverso la specifica deduzione del relativo ‘ error in procedendo ‘ – ovverosia della violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, n.4, c.p.c. – la quale soltanto consente alla parte di chiedere e al giudice di legittimità – in tal caso giudice anche del fatto processuale – di effettuare l’esame, altrimenti precluso, degli atti del giudizio di merito e, così, anche dell’atto di appello; pertanto, alla mancata deduzione del vizio nei termini indicati, evidenziando il difetto di identificazione del preteso errore del giudice del merito e impedendo il riscontro ‘ ex actis ‘ dell’assunta omissione, consegue l’inammissibilità del motivo. » (cfr., ex permultis , Cass. civ. Sez. L, ordinanza n. 29952 del 13 ottobre 2022, Rv. 665822-01).
Aggiungasi come la questione relativa alla ripresa a tassazione dell’importo relativo ai buoni pasto, per come prospettata dalla ricorrente (e, cioè, con riferimento anche a quanto sostenuto nella sentenza di primo grado, in cui la CTP aveva rilevato che sulle fatture emesse nei confronti delle imprese emittenti i buoni pasto, non vi era alcuna annotazione circa gli scontrini fiscali emessi per la cessione dei beni di cui ai buoni pasto stessi), si risolva senz’altro in un accertamento di fatto, precluso in sede di legittimità.
Al riguardo, è appena il caso di ricordare il consolidato orientamento di questa Corte regolatrice in base al quale « Le espressioni violazione o
falsa applicazione di legge, di cui all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., descrivono i due momenti in cui si articola il giudizio di diritto: a) quello concernente la ricerca e l’interpretazione della norma ritenuta regolatrice del caso concreto; b) quello a fferente l’applicazione della norma stessa una volta correttamente individuata ed interpretata. Il vizio di violazione di legge investe immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nella negazione o affermazione erronea della esistenza o inesistenza di una norma, ovvero nell’attribuzione ad essa di un contenuto che non possiede, avuto riguardo alla fattispecie in essa delineata; il vizio di falsa applicazione di legge consiste, o nell’assumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addice, perché la fattispecie astratta da essa prevista – pur rettamente individuata e interpretata – non è idonea a regolarla, o nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione. Non rientra nell’ambito applicativo dell’art. 360, comma 1, n. 3, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa che è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta perciò al sindacato di legittimità. » (Cass. civ., Sez. 1, ordinanza n. 640 del 14 gennaio 2019, Rv. 652398-01; conf. Cass. civ., Sez. 3, sentenza n. 7187 del 4 marzo 2022, Rv. 664394-01; cfr., altresì, in epoca recente, Cass. civ., Sez. 5, sentenza n. 25182 del 19 settembre 2024, secondo cui in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge ed implica, pertanto, un problema interpretativo di quest’ultima, laddove l’allegazione di un’erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa ed inerisce, pertanto, alla tipica valutazione del giudice di merito, sindacabile in sede di legittimità unicamente sotto l’aspetto del vizio di motivazione).
In altri termini, in tema di ricorso per cassazione, deve ritenersi inammissibile il motivo di impugnazione con cui la parte ricorrente sostenga un’alternativa ricostruzione della vicenda fattuale, pur ove risultino allegati al ricorso gli atti processuali sui quali fonda la propria
diversa interpretazione, essendo precluso nel giudizio di legittimità un vaglio che riporti a un nuovo apprezzamento del complesso istruttorio nel suo insieme (Cass. civ., ordinanza n. 10927 del 23 aprile 2024, Rv. 670888-01).
7.- In conclusione, alla stregua delle considerazioni finora sviluppate, il ricorso dev ‘ essere senz ‘ altro respinto.
8.Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza della ricorrente e si liquidano come da dispositivo.
9.- Sussistono i presupposti processuali per il versamento – ai sensi dell ‘ art. 13, comma 1quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 -, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l ‘ impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi €. 5.900,00 (euro cinquemilanovecento/00), oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Tributaria,