Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 14450 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 14450 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 29/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 11423/2021 R.G. proposto da :
COGNOME, elettivamente domiciliato in Cosenza Domenico COGNOMEINDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende
-ricorrente-
CONTRO
MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO) che lo rappresenta e difende
-controricorrente-
avverso SENTENZA della C.T.R. della Calabria n. 2707/2020 depositata il 28/10/2020 Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 25/03/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
NOME COGNOME impugna la sentenza della C.T.R. della Calabria di rigetto dell’appello dal medesimo formulato avverso la sentenza della C.T.P. di Cosenza di rigetto dl ricorso per l’annullamento dell’avviso di intimazione per il pagamento dell’integrazione del contributo unificato pari a 60,00, oltre a sanzioni ed accessori, per complessivi euro 197,50.
La C.T.R., dato atto che il ricorrente non reclamava la sussistenza della pretesa, ma l’irregolarità formale e la nullità del provvedimento sanzionatorio e del prodromico invito al pagamento, inviato via PEC e ritenuto non valido perché privo di numero di protocollo e raccolto in un file pdf non munito di firma digitale, ha ritenuto che l’invio della PEC, richiedendo la ricevuta di consegna, corredata da firma del gestore di posta elettronica certificata, contiene tutti i dati di certificazione ed il messaggio originale, sostituendo la firma elettronica. Con riferimento alla dedotta nullità del provvedimento sanzionatorio per mancanza di firma analogica, rilevato che sul documento era apposta la dicitura ‘documento firmato digitalmente ai sensi del codice dell’amministrazione (CAD), ha ritenuto che, seppure il documento fosse stato notificato in forma cartacea, ciononostante esso non fosse invalido, ma solo irrituale, ben potendo il ricorrente provvedere alla richiesta di verifica della regolare predisposizione e conservazione del documento firmato digitalmente, dovendo comunque applicarsi il principio di cui
all’art. 156 cod. proc. civ., secondo il quale la nullità non può essere pronunciata se l’atto ha raggiunto lo scopo. Relativamente alla contestazione sulla misura delle spese di notifica, pari ad euro 8,75, ha osservato che le medesime sono indicate dalla Ragioneria generale dello Stato, in apposito campo del modulo, e sono immodificabili.
Il Ministero dell’Economia e delle Finanze resiste con controricorso.
Con memoria, ai sensi dell’art. 380 bis cod. proc. civ., la parte ricorrente ribadisce le conclusioni assunte.
RAGIONI DELLA DECISIONE
NOME COGNOME formula cinque motivi di ricorso.
Con il primo fa valere, ex art. 360, comma 1 nn. 3 e 4 cod. proc. civ., la nullità della sentenza per violazione degli artt. 111 Cost. 132, commi 2 e 4 cod. proc. civ. 118 disp. att. cod. proc. civ. e 1, comma 2, 36 comma 2 n. 2 e 4, 49 e 61 d. lgs. 546 del 1992, essendo la motivazione meramente apparente. Osserva che oggetto del thema decidendum del processo di appello era la valenza giuridica di un atto privo di firma e sfornito di attestazione di conformità, e non la PEC, come assunto dalla C.T.R., non comprendendosi, peraltro, che tipo di verifica avrebbe dovuto compiere il ricorrente sulla regolarità della firma. Rileva che la sentenza appare, per altro verso, nulla non contenendo l’esposizione dei motivi di appello.
Con il secondo motivo deduce, ex art. 360, comma 1 n. 5 cod. proc. civ., l’omessa valutazione di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione fra le parti, per non essersi il giudice di secondo grado -così come la C.T.P.- soffermato sull’omessa apposizione della firma in calce all’atto cartaceo o
della dicitura da stampare sul medesimo, in luogo della firma analogica, ai sensi dell’art. 3, comma 2 d. lgs. 39 del 1993.
Con il terzo motivo lamenta, ex art. 360, comma 1 n. 3 cod. proc. civ., la violazione dell’art. 3, comma 2 d. lgs. 39 del 1993, disposizione nella quale deve essere sussunta la fattispecie, diversamente da quanto ritenuto dalla C.T.R. che ha richiamato, a sproposito, il codice dell’amministrazione digitale. Invero, il provvedimento impugnato è un modello preconfezionato modificabile, che è stato inserito in un plico postale e notificato in forma cartacea, e non a mezzo PEC.
Con il quarto motivo denuncia, ex art. 360, comma primo n. 3 cod. proc. civ., la falsa applicazione del d.m. del 12 settembre 2012, in relazione alla spese di notifica a mezzo PEC dell’invito al pagamento del C.U.T.. Osserva che il decreto ministeriale con il quale è stabilito l’importo delle spese di notifica in euro 5,18 per le raccomandate con avviso di ricevimento ed in euro 8,75 per le notifiche effettuate ai sensi dell’art. 60 d.P.R. 600 del 1973 – è stato dettato per le notifiche ‘tradizionali’ in periodo antecedente all’uso della PEC e che la voce di addebito, di cui all’avviso di pagamento recitava ‘€. 8,75 per spese di notifica dell’invito di pagamento del contributo unificato’. Osserva che, in ogni caso, anche in applicazione del d. lgs. 112 del 1999, richiamato dall’Agenzia delle Entrate, l’importo dovuto per la notifica via PEC, è pari, ai sensi del d.m. del 13 giugno 2007 ad euro 5,35 e che esso è comunque da pretendersi a titolo di diritti di notifica e non di spese.
Con il quinto motivo fa valere, ex art. 360, comma 1 n. 3 cod. proc. civ., la violazione degli artt. 1, comma 2, 49 e 15, comma 2 sexies del d. lgs. 546 del 1992 e 83 cod. proc. civ.. Assume che difetta la delega conferita dal M.E.F. al Direttore dell’Ufficio di Segreteria della C.T.P. di Cosenza per la difesa avanti alla C.T.R., essendo la medesima delega stata conferita
solo per ‘le udienze pubbliche previste nell’anno 2019’, mentre l’udienza di appello era fissata al 24 marzo 2020, e poi differita al 23 giugno 2020. Su questa premessa la C.T.R. non avrebbe dovuto liquidare le spese di lite in favore della parte appellata, quantomeno in relazione alle difese successive all’anno 2019. In particolare l’importo liquidabile non poteva superare la somma di euro 270,00 di cui euro 170 per la fase introduttiva ed euro 100,00 per esame. La maggior somma liquidata, pari ad euro 300,00, avrebbe dovuto essere ulteriormente ridotta del 20%, ai sensi dell’art. 15, comma 2 sexies d. lgs. 546 del 1992.
Il primo motivo è infondato.
Va ricordato che secondo le Sezioni Unite, è apparente la motivazione graficamente presente quando essa caratterizzata da considerazioni affatto incongrue rispetto alle questioni prospettate, utilizzabili, al più, come materiale di base per altre successive argomentazioni, invece mancate, idonee a sorreggere la decisione (cfr. Sez. U, Sentenza n. 22232 del 03/11/2016). E, dunque, per assolvere l’obbligo di motivazione costituzionalmente imposto alle decisioni giurisdizionali -come specificato dall’art. 132, comma 2, n. 4) e dall’art. 36, comma 2, n. 4, d.lgs. n. 546 del 1992 (in materia di processo tributario)- il giudice è tenuto a precisare le ragioni e l’iter logico seguito per pervenire alla decisione assunta, chiarendo su quali prove ha fondato il proprio convincimento e sulla base di quali argomentazioni è pervenuto alla propria determinazione, rendendo così percepibile il fondamento della decisione, in tal modo consentendo anche di verificare se abbia effettivamente giudicato iuxta alligata et probata (in questo senso Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 13977 del 23/05/2019, in motivazione, negli stessi termini ex multis : Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 6758 del 01/03/2022).
Ora, non può certamente affermarsi che la motivazione della sentenza impugnata non superi il minimo costituzionale per consentire il controllo della sua comprensibilità, in relazione al quadro offerto dalle parti in giudizio.
Invero, il giudice di appello, non solo nella parte che denomina ‘Diritto’, riporta le doglianze proposte con l’atto di appello, ma risponde nella parte che denomina ‘Motivi della decisione’ alla censura relativa al valore giuridico da attribuire all’atto firmato digitalmente e notificato in via cartacea, escludendo la sua nullità, da un lato, perché si tratterebbe di una mera irregolarità, dall’altro, perché ritiene comunque applicabile l’art. 156 cod. proc. civ. sul raggiungimento dello scopo.
Il secondo motivo è infondato.
La semplice lettura della motivazione dimostra che la C.T.R. ha preso in considerazione l’eccepita mancanza, in calce all’atto di irrogazione della sanzione, della firma analogica sul provvedimento notificato in forma cartacea. Il giudice di appello osserva, infatti, che l’atto impugnato riporta la dicitura ‘documento firmato digitalmente ai sensi del Codice dell’Amministrazione digitale (CAD)’ e ritiene che seppure il documento sia stato ‘inviato in forma cartacea il documento è stato sottoscritto in forma digitale’, così dimostrando di avere preso in considerazione il fatto della ‘mancanza della firma’, risolvendolo, tuttavia, nel senso che la firma digitalmente apposta equivale alla firma analogica.
Il terzo motivo è infondato.
Alla censura, che rappresenta il nodo centrale delle doglianze introdotte dal ricorrente, dà risposta un recente orientamento di questa Sezione Cass. Sez. 5, 20/05/2024, n. 13995, Rv. 671243 -01), con cui sono stati enunciati i seguenti principi di diritto «L’avviso di accertamento firmato digitalmente
nel regime di cui all’art. 2, comma 6, d.lgs. n. 82 del 2005 (ratione temporis applicabile dal 14 settembre 2016 fino al 26 gennaio 2018), non è nullo per difetto di sottoscrizione, posto che l’esclusione dell’utilizzo di strumenti informatici prevista per l’esercizio delle attività e funzioni ispettive fino all’entrata in vigore del d.lgs. n. 217 del 2017 riguarda la sola attività di controllo fiscale e non può estendersi agli avvisi di accertamento ed in genere agli atti impositivi»; «La copia analogica dell’avviso di accertamento, sottoscritta digitalmente dal funzionario incaricato e dichiarata conforme all’originale informatico nel rispetto della previsione dell’art. 23 del d.lgs. n. 82 del 2005, tiene luogo del menzionato originale ed è validamente notificata al contribuente, oltre che a mezzo posta elettronica certificata, anche a mezzo del servizio postale». Il nucleo argomentativo di siffatta pronuncia è stato peraltro anticipato da Cass. Sez. 5 del 22/10/2020 n. 1150/2021, che vale la pena di riprendere nei tratti essenziali. La Corte, infatti, chiamata a pronunciarsi sull’applicabilità delle norme del Codice dell’Amministrazione Digitale anche alle funzioni istituzionali di accertamento dell’Agenzia delle Entrate e sulla possibilità di notificare in forma cartacea atti firmati secondo le modalità digitali, ha chiarito che ‘la normativa in tema di digitalizzazione della pubblica amministrativa, anche in conseguenza degli obblighi di adeguamento al Regolamento comunitario, noto con l’acronimo IDAS, entrato in vigore direttamente in tutti gli Stati Membri UE, senza necessità di atti di recepimento, il 17 settembre 2014, e divenuto applicabile a decorrere dal 1° luglio 2016, impone ormai come regola generale l’adozione dei documenti informatici, residuando ad eccezione il mantenimento dei documenti analogici. Ai sensi dell’art. 40 del CAD, le pubbliche amministrazioni formano gli originali dei propri documenti con mezzi informatici secondo le regole tecniche fissate dal DPCM del
13-112014’. Posto che la regola generale è divenuta quella del ‘ricorso ai documenti informatici, e le limitazioni l’eccezione’ l’interpretazione dell’art. 2, comma 6, del CAD nel testo vigente nel periodo dal 14 settembre 2016 al 26 gennaio 2018, secondo cui: ‘Le disposizioni del presente Codice non si applicano limitatamente all’esercizio delle attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale…’ trova la sua ratio nella dimensione partecipativa degli atti propedeutici all’accertamento, ben potendo del contribuente coinvolto ‘non essere munito di firma digitale, sicché l’applicazione del CAD determinerebbe un aggravio dei suoi diritti di difesa ed un ostacolo al rapporto di collaborazione che dovrebbe sempre ispirare tali incombenti’. D’altro canto, ‘la direzione legislativa di ampliamento del ricorso alla digitalizzazione degli atti si coglie nell’introduzione del comma 6-bis, aggiunto all’art. 2 del CAD dall’art. 2, lett. e), del d.lgs. n. 217 del 2017, che ne sancisce espressamente l’applicabilità ‘agli atti di liquidazione, rettifica, accertamento e di irrogazione delle sanzioni di natura tributaria’ rimettendo ad un successivo decreto l’adozione delle modalità e dei termini per l’applicazione anche alle “attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale’. Se ai sensi dell’art. 23 del CAD ‘Le copie su supporto analogico di documento informatico, anche sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale hanno la stessa efficacia probatoria dell’originale da cui sono tratte se la loro conformità all’originale in tutte le sue componenti è attestata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato’, dunque, laddove l’atto impositivo notificato in cartacea contenga l’attestazione di conformità all’originale, ciò ‘è sufficiente a dimostrare l’avvenuta sottoscrizione dell’atto ed a conferirgli un valore probatorio equiparato all’originale informatico’. Ed allora ‘Non sussistendo alcun indispensabile o necessario collegamento tra documento informatico e notifica a mezzo PEC, nulla
impedisce che una copia analogica di un documento informatico conforme all’originale venga notificata secondo le regole ordinarie della notifica a mezzo posta’. Peraltro, conclude la Corte, essendo la possibilità di una notifica a mezzo PEC per gli atti impositivi ‘stata introdotta solo a decorrere dal 1 luglio 2017, a seguito dell’aggiunta del comma 6 all’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973 ad opera dell’art. 7-quater, comma 6, del d.l. n. 193 del 2016, l’Agenzia ricorrente, non potendo utilizzare la notifica a mezzo PEC prima di tale data, ha correttamente proceduto alla notifica ordinaria di una copia analogica dell’atto informatico, munita della prescritta attestazione di conformità’ (così: Cass. Sez. 5 del 22/10/2020 n. 1150/2021 e Cass. Sez. 5 del 22/10/2020 n. 1555; n. 1157 del 26/01/2021 di identico contenuto; più recentemente, Cass. n. 6142 del 07/03/2024 e Cass. n. 10829 del 22/04/2024).
14. Ora, nel caso di specie, l’atto impugnato è stato emesso il 26 giugno 2017 e notificato il 3 luglio 2017. Esso, pertanto, doveva essere formato digitalmente, come previsto dall’art. 40 del CAD, non rientrando nelle ipotesi di esclusione (attività di verifica ed ispettive di cui all’art. 2 comma 6 del medesimo codice), ed essendo corredato della dicitura ‘documento firmato digitalmente ai sensi del Codice dell’Amministrazione digitale’ e dell’attestazione di conformità, ben poteva essere notificato in forma cartacea. Così come ha correttamente affermato la sentenza impugnata.
In ogni caso, al di là del fatto che, nel caso di specie, la notificazione a mezzo posta non solo può ritenersi invalida, ma neppure irrituale, non appare errata la decisione impugnata laddove, prendendo atto che l’avviso di accertamento è comunque giunto della sfera di conoscibilità del destinatario che, infatti, l’ha tempestivamente impugnato, riprende il principio consolidato secondo cui, ai sensi dell’art. 156, terzo comma,
cod. proc. civ., ove l’atto, malgrado l’irritualità della notifica, sia venuto a conoscenza del destinatario, la nullità non può essere dichiarata per il raggiungimento dello scopo (cfr. ex multis , Cass. S.U. n. 7665 del 18/04/2016; Cass. Sez. 1, n. 20625 del 31/08/2017, proprio con riferimento alla notifica a mezzo PEC; Cass. Sez. 5, n. 27561 del 30/10/2018; Cass. Sez. 3, n. 24568 del 05/10/2018).
Il quarto motivo è infondato.
La doglianza inerisce la legittimità dell’importo di euro 8,75 richiesto dall’Amministrazione per la notifica non dell’atto impugnato, ma del prodromico invito al pagamento, la cui notifica è intervenuta via PEC. Mal si comprende, invero, quale sia la normativa che il ricorrente assume essere applicabile e che non sarebbe stata applicata, posto che al d.m. 12 settembre 2012 non ne è succeduto, né se ne aggiunto un altro riguardante le notifiche via PEC. A meno che il ricorrente non voglia intendere che per le notifiche a mezzo posta elettronica certificata non possono essere richiesti né diritti di notifica, né spese di notifica, il che si pone in contrasto con il disposto dell’art. 1 del d.m. 12 settembre 2012, secondo il quale ‘Sono ripetibili le spese per i compensi di notifica degli atti impositivi e degli atti di contestazione e di irrogazione delle sanzioni, stabiliti in applicazione della legge 20 novembre 1982, n. 890, quelle derivanti dall’esecuzione degli articoli 137 e seguenti del codice di procedura civile, ai sensi dell’art. 60 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, nonché le spese derivanti dall’applicazione delle altre modalità di notifica previste da specifiche disposizioni normative’. Ora, non vi è dubbio che la notificazione a mezzo PEC sia notificazione normativamente prevista (come stabilito dall’art. 60, comma 6 bis d.P.R. 600 del 1973, per la notificazione degli atti dell’amministrazione ad imprese e liberi professionisti, iscritti in
albi o elenchi). Essa, pertanto, non è esente dalla ripetibilità dei costi della notifica come determinati dall’art. 2 del medesimo d.m., che prevede, per le notifiche effettuate ai sensi dell’art. 60 del d.P.R. 600 del 1973, l’importo di euro 8,75. Ovverosia proprio la misura dell’importo applicato nel caso in esame. La ratio dell’estensione della ripetibilità dei costi prevista dagli artt. 1 e 2 del d.m. cit. a tutte le notifiche normativamente previste è chiaramente rivolta al recupero delle spese sostenute dall’Amministrazione, che certamente involgono anche le notifiche via PEC, posto che il mantenimento ed il corretto funzionamento del sistema comporta dei costi.
Il quinto motivo è per un verso infondato e per l’altro inammissibile.
Ed invero, se, da un lato, l’Amministrazione ha dedotto con il controricorso, che per le udienze dell’anno 2020 era stata conferita ulteriore delega al Direttore dell’Ufficio di Segreteria della C.T.P. di Cosenza (prot. 120 del 10 gennaio 2020), circostanza questa non contestata dal ricorrente con la memoria difensiva depositata, dall’altro, dalla lettura delle deleghe prodotte dal contribuente, relative agli anni 2018 e 2019, con le quali il Direttore della Giustizia Tributaria del Ministero dell’Economia e delle Finanze, delega i tre funzionari della Commissione Provinciale di Cosenza, nell’ambito dei poteri loro assegnati, a rappresentare il Ministero medesimo nelle udienze pubbliche, si trae che esse non appaiono limitate al giudizio del grado di merito da tenersi nell’anno di conferimento, ma a tutti i giudizi dei gradi di merito relativi a quei procedimenti eventualmente conseguenti a quello iniziato nell’anno di conferimento. E ciò, perché la limitazione dei poteri (esclusione dell’esercizio del potere di autotutela in udienza, rinuncia all’appello, abbandono del contenzioso, conciliazione in giudizio) è espressamente prevista, mentre il potere di rappresentanza si
estende a ‘ricorsi ed appelli presentati avverso provvedimenti di recupero del contributo unificato emessi dalla Commissione Tributaria Provinciale di Cosenza’, con l’effetto che per i ricorsi proposti avverso detti atti ricadenti nell’anno di conferimento, al funzionario delegato è attribuito il potere di rappresentanza anche per gli anni ed i gradi di merito successivi, salva nuova manifestazione dell’Amministrazione, come correttamente osservato dal Ministero resistente.
D’altro canto, la censura riguardante il difetto di rappresentanza non è stata proposta avanti alla Commissione Tributaria Regionale, ai fini dell’allora eventuale condanna al pagamento delle spese di lite. Di qui il profilo di inammissibilità del motivo.
Anche la doglianza relativa alla quantificazione della somma liquidata a titolo di spese di lite non può trovare accoglimento. Applicando i parametri all’epoca vigenti di cui al d.m. 55 del 2014 come aggiornato con il d.m. 37 del 2018 (la sentenza della C.T.R. è del 23 giugno 2020), e tenuto conto che l’amministrazione afferma in controricorso di avere depositato -circostanza non smentita- nota spese pari ad euro 420,00, per quattro fasi di giudizio, già ridotta ex art. 15, comma 2 sexies d. lgs. 546 del 1992, anche volendo escludere, come pretende il ricorrente, la fase di trattazione -non potendo essere esclusa la fase decisionale, stante la presentazione della notula- risulta che la somma liquidata, pari ad euro 300,00 è inferiore, al parametro medio, per le fasi studio, introduttiva e decisionale, come ridotta del 20%.
Al rigetto del ricorso consegue la condanna al pagamento delle spese di lite di questo giudizio di legittimità da liquidarsi in euro 462,00 oltre a spese prenotate a debito.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite di questo giudizio di legittimità che liquida in euro 462,00 oltre a spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso stesso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 25 marzo 2025