Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 19775 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 19775 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 17/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 20410 -20 22 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore , NOME COGNOME rappresentata e difesa, per procura speciale in atti, dall’avv. NOME COGNOME (pec: EMAIL;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE , in persona del Direttore pro tempore ;
– intimata – avverso la sentenza n. 2963/12/2022 della Commissione Tributaria Regionale della CAMPANIA, depositata il 29/03/2022;
Oggetto: TRIBUTI -associazione sportiva dilettantistica
udita la relazione svolta nella camera di consiglio non partecipata del 29 maggio 2025 dal Consigliere relatore dott. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
In controversia avente ad oggetto l’impugnazione di un avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle entrate nei confronti della RAGIONE_SOCIALE ai fini IVA, IRE S ed IRAP per l’anno d’imposta 2013 in conseguenza del disconoscimento in capo alla predetta Associazione dei requisiti soggettivi e oggettivi per godere delle agevolazioni di cui alla legge n. 398 del 1991, con la sentenza in epigrafe indicata la CTR (ora Corte di giustizia tributaria di secondo grado) della Campania ha rigettato l’appello proposto dall’ASD avverso la sfavorevole sentenza di primo grado sostenendo che il p.v.c. aveva evidenziato una pluralità di elementi che dimostravano come la finalità, pur indicata formalmente nello statuto, non corrispondesse alla realtà dei fatti, tra cui:
il fatto che lo stesso ente non si proponesse all’esterno quale associazione sportiva dilettantistica, in particolare nei messaggi pubblicitari e negli altri documenti acquisiti al controllo;
la etero destinazione dei fondi dell ‘Associazione giustificata quale remunerazione per l’organizzazione e la gestione dell’attività da parte dei soci dominanti;
il conseguimento di utili maggiori di quelli emergenti dai rendiconti approvati per gli anni 2013 e 2014;
le ulteriori distrazioni di fondi dalla disponibilità dell’Associazione per spese non documentate, che confermavano la natura lucrativa e non di promozione sociale dell’ente;
l’assenza di documenti riferiti alle quote associative;
l’intrattenimento di rapporti commerciali con altri enti facenti capo al medesimo gruppo familiare.
Sostenevano i giudici di appello che:
a fronte di «tale complesso mosaico di elementi, l’Ufficio e i giudici di primo grado avevano fondatamente ritenuto che la A.S., sfruttando la
forma giuridica dell’associazione, aveva inteso mascherare un’attività commerciale godendo, però, illegittimamente di agevolazioni fiscali con il risultato di evadere le imposte» e che «La società appellante non aveva dato prova effettiva e concreta della sussistenza dei requisiti non solo formali, ma anche sostanziali di una associazione».
-l’onere probatorio incombente sul contribuente non poteva ritenersi soddisfatto dal dato del tutto estrinseco e neutrale dell’affiliazione alle federazioni sportive ed al Coni (Sez. 5, Sentenza n. 16449 del 05/08/2016, Rv. 640774);
non coglieva nel segno la contestazione mossa all’Ufficio di aver erroneamente qualificato quali soci della ASD meri tesserati non sussistendo delibere assembleari che li qualificano come soci, e ciò in quanto l’ atto impugnato si basava sull’esame delle modalità di erogazione delle prestazioni e sulla gestione dell’associazione;
non rilevava il fatto che i tesserati che non partecipavano alle assemblee e non esprimevano voti, non erano edotti sulle attività e l’assetto associativo, trattandosi di circostanze che, al contrario, avvalorava l’assunto;
non coglieva nel segno nemmeno la censura secondo cui non era corretto sostenere che il carattere sportivo dilettantistico dovesse essere esposto in tutte le comunicazioni all’esterno, non essendo contestata la violazione di un obbligo , avendo l’Ufficio valorizzato la circostanza nell’ambito di un complesso quadro indiziario che induceva ad escludere la reale natura associativa dell’ente;
la contribuente non aveva fornito prova che nel registro dei corrispettivi, utilizzato dall’Ufficio per la quantificazione dei maggiori corrispettivi presuntivamente rilevati per euro 179.378,03 erano ricompresi non solo i corrispettivi dei tesserati non soci, che generavano ricavi, ma anche i corrispettivi ricevuti dai partecipanti e da destinare alle EPS o Federazioni, che invece non costituivano ricavi per l’ASD;
non andavano riconosciuti i costi per rimborsi forfettari per euro 44.111,00, in relazione ai quali la contribuente allegava che proprio in quanto forfettari non era previsto l’obbligo di produrre e conservare documentazione che attestasse l’effettivo ammontare dei costi sostenuti, in quanto non era presente documentazione relativa agli eventi di trasferimento e non all’ammontare del costo;
con riguardo ai costi non documentati per euro 45.183,62 la contribuente non aveva fornito idonea prova che si riferissero a costi per operazioni bancarie evidenziate nel rendiconto annuale e consultabili attraverso estratti conto bancari.
Avverso tale statuizione la contribuente propone ricorso per cassazione affidati a tre motivi, illustrati da memoria, cui non replica l’intimata .
RAGIONI DELLA DECISIONE
Pare opportuno premettere che a l paragrafo 1 dell’esposizione in ‘DIRITTO’ del ricorso, intitolato ‘ Sulla natura associativa e non commerciale della ricorrente ‘, quest’ultima « ritiene necessario ricordare la figura giuridica dell’Associazione Sportiva Dilettantistica senza scopo di lucro, il tutto in considerazione del fatto che, a parere dello scrivente, l’avviso di accertamento scaturisce da un’erronea valutazione dei fatti da parte dell’Organo Accertatore in sede di redazione del PVC », dopo avere, però, precisato di fare ciò « prima di trattare il merito delle doglianze sollevat alla statuizione resa dai Giudici di secondo grado ».
1.1. La chiara premessa formulata dalla ricorrente elide ogni possibile dubbio in ordine alla circostanza che nessuna delle argomentazioni sviluppate nella prospettata ricostruzione della «figura giuridica» dell’ASD integri motivo di ricorso che, in ogni caso, è privo di specificità ponendosi in evidente ed insuperabile contrasto con il principio nomofilattico secondo cui «Il ricorso per cassazione deve essere articolato in specifiche censure riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad uno dei cinque motivi di impugnazione previsti
dall’art. 360, comma 1 c.p.c., sicché, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di uno dei predetti motivi, è indispensabile che le censure individuino con chiarezza i vizi prospettati, tra quelli inquadrabili nella tassativa griglia normative» (Cass., Sez. U, n. 32415/2021).
1.2. D’altro canto, «Il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, delimitato e vincolato dai motivi di ricorso, che assumono una funzione identificativa condizionata dalla loro formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi tassative formalizzate dal codice di rito. Ne consegue che il motivo del ricorso deve necessariamente possedere i caratteri della tassatività e della specificità ed esige una precisa enunciazione, di modo che il vizio denunciato rientri nelle categorie logiche previste dall’art. 360 c.p.c., sicché è inammissibile la critica generica della sentenza impugnata, formulata con un unico motivo sotto una molteplicità di profili tra loro confusi e inestricabilmente combinati, non collegabili ad alcuna delle fattispecie di vizio enucleate dal codice di rito» (Cass. n. 11603/2018).
Con il primo motivo di ricorso, dedotto sub par. 2, la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 90 della legge 289 del 2002, in particolare dei commi 17 e 18 di detta disposizione.
2.1. Sostiene la ricorrente che « tutte le previsioni statutarie previste dal citato art. 90 sono state correttamente rispettate e, pertanto, lo statuto in uso dalla ricorrente risulta essere formalmente e sostanzialmente corretto », e che l’Agenzia delle entrate « resistente, in sede di verifica, ha operato un’interpretazione restrittiva dell’art. 90, co. 17, del T.U.I.R., avendo previsto la perdita della qualificazione di associazione sportiva dilettantistica e questo nonostante la denominazione pubblica, presente alla camera di commercio, sia correttamente comunicata anche in presenza di una sola violazione »; che « Sembra più corretto, quindi, ritenere che eventuali violazioni relative all’utilizzo di una denominazione non conforme con le prescrizioni del
comma 17 possano determinare la perdita della qualifica sportiva solo se in grado di determinare “confusione” tra i destinatari delle prestazioni »; che « In sostanza, sarà necessario verificare di volta in volta se le violazioni sono tali da determinare i suddetti effetti, che si ritiene nel caso specifico impossibile da generare, soprattutto nel fruitore interessato »; che « Nel caso specifico, tale confusione non ha alcun modo di potersi verificare, questo poiché come spiegato in precedenza, l’Associazione p rocede al tesseramento verso l’Ente di promozione sportiva di riferimento, di tutti i partecipanti alle attività sportive ».
2.2. Sostiene, inoltre, che « tale erronea interpretazione, unitamente ad altri errori interpretativi, ha determinato anche dei marchiani errori di calcolo nel rideterminare il maggiore imponibile recuperato a tassazione ai fini IRES; IRAP ed IVA ».
2.3. Al riguardo, dopo aver premesso di non aver contestato il rilievo relativo al recupero dei costi – non documentati – per « note di compenso » per complessivi 63.418,00 euro, in relazione al quale la statuizione d’appello ha acquisito autorità di giudicato (interno) , e che le ASD « non sono tenute per legge alla predisposizione e conservazione delle scritture sociali e contabili obbligatorie ‘fiscali’ », con specifico riferimento ai costi per corrispettivi sostiene che aveva errato l’Agenzia delle entrate a far riferimento al ‘ registro corrispettivi/IVA ‘, ovvero al ‘ registro degli incassi ‘ , in quanto questo fungeva solo da « strumento di organizzazione interna » ed in esso erano inseriti tutti gli incassi percepiti, comprensivi dei « corrispettivi da destinare alle EPS o Federazioni, per conto dei partecipanti (per tesseramenti verso tali enti Nazionali ovvero partecipazioni a gare), che viceversa hanno generato Debiti per l’associazione (nei confronti dei partecipanti) e non Ricavi », e che, pertanto, non erano stati riportati tra i ricavi presenti nel rendiconto annuale, al quale soltanto l’amministrazione finanziari a avrebbe dovuto far riferimento. Pertanto, « anche in assenza di una precisa distinzione (peraltro non dovuta) tra queste due somme separate, l’Agenzia in sede
di accertamento fosse potenzialmente totalmente in grado di riuscire ad operare una scissione, quantomeno parziale, delle somme indicate, con un semplice calcolo matematico », essendo sufficiente « moltiplicare il numero delle persone fisiche, che l’associazione ha provveduto a tesserare presso i vari Enti di Promozione Sportiva o Federazioni per il costo di un singolo tesseramento e successivamente procedere allo scorporo dal valore dei corrispettivi ricostruiti dal registro ». E, « anche qualora l’Agenzia ave sse voluto (erroneamente) considerare tali somme quali ricavi, avrebbe quantomeno dovuto considerare le somme corrisposte alle EPS (desumibili dal registro Tesserati) o alla FIN (Federazione Italiana Nuoto) quali costi sostenuti dall’Associazione, opzione non considerata dall’agenzia ».
2.4. Sostiene, quindi, che la CTR è incorsa in errore nell’affermare che « la prova della natura economica della ricorrente emerge ‘dall’assenza di documenti riferiti alle quote associative’ ».
2.5. Deduce, altresì, che « Altra erronea conclusione a cui è giunto il Giudice di secondo grado è la parte in cui richiama la massima giurisprudenziale secondo la quale ai fini delle agevolazioni IVA è necessario che l’Ente dia la prova di svolgere attività nel rispetto di tutte le prescrizioni imposte ‘dall’art. 4 del decreto IVA e dell’art. 111 TUIR’ e questo in relazione al fatto che la legge oggi riconosce che un Ente non commerciale può anche svolgere attività di natura commerciale (sponsorizzazioni, vendita di materiale sportivo e gadgets, somministrazione di alimenti e bevande) se munite di una Partita Iva e in misura non prevalente rispetto all’attività istituzionale (corsi e attività sportive) ».
La censura con cui, ad inizio dell’esposizione del motivo in esame, la ricorrente deduce che le era stata erroneamente negata la qualificazione di associazione sportiva dilettantistica incorre in un duplice profilo di inammissibilità. Il primo, perché la censura è prospettata con riferimento all’interpretazione delle disposizioni in materia, e più
precisamente dell’art. 90, comma 17, della legge 289 del 2000, operata dall’amministrazione finanziaria e non dal giudice d’appello, tant’è vero che nell’esposizione non si fa mai riferimento alla statuizione d’appello. Il secondo, perché la ricorrente ha censurato solo il fatto, ravvisato dai verificatori e fatto proprio dai giudici di appello, secondo cui l’ente « non si proponesse all’esterno quale associazione sportiva dilettantistica, in particolare nei messaggi pubblicitari e negli altri documenti acquisiti al controllo », omettendo però di censurare tutti gli altri elementi su cui i giudici di appello hanno fondato la statuizione di disconoscimento in capo alla ricorrente della qualifica di associazione sportiva dilettantistica per avere la stessa finalità lucrativa. Ci si riferisce a quel « complesso mosaico di elementi » (così la CTR a pag. 5 della sentenza impugnata), indicate a pag. 4 della sentenza impugnata ed analiticamente sopra esposte, nella parte relativa alla narrazione dei fatti di causa, di per sé sufficienti a sorreggere la decisione assunta al riguardo.
3.1. Ci si riferisce alla « etero destinazione dei fondi dell’Associazione giustificata quale remunerazione per l’organizzazione e la gestione dell’attività da parte dei soci dominanti », al « conseguimento di utili maggiori di quelli emergenti da rendiconti approvati per gli anni 2013 e 2014 », alle « ulteriori distrazioni di fondi dalla disponibilità dell’Associazione per spese non documentate », all’ « assenza di documenti riferiti alle quote associative » e, infine, all’ « intrattenimento di rapporti commerciali con altri enti facenti capo al medesimo gruppo familiare » (sentenza, pag. 4).
3.2. Anche la censura mossa alla determinazione dei ricavi è inammissibile.
3.3. A fronte della tesi sostenuta dalla ricorrente nel motivo in esame, e cioè che i corrispettivi ripresi a tassazione erano comprensivi dei « corrispettivi da destinare alle EPS o Federazioni, per conto dei partecipanti (per tesseramenti verso tali enti Nazionali ovvero partecipazioni a gare), che viceversa hanno generato Debiti per
l’associazione (nei confronti dei partecipanti) e non Ricavi », i giudici di appello hanno affermato che la ricorrente non aveva fornito alcuna prova di tale assunto e neppure aveva fornito un diverso calcolo dei corrispettivi da sottoporre a tassazione.
3.4. Nel caso di specie, pertanto, non è ravvisabile la violazione di alcuna disposizione di legge, tale non potendosi considerare il riferimento fatto nel ricorso all’art. 90 della legge n. 289 del 2000 né agli artt. 4 del d.P.R. n. 633 del 1972 e 111 TUIR (d.P.R. n. 917 del 1986, nella versione anteriore alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 344 del 2003), che nulla dispongono in merito alle modalità di determinazione dei ricavi di una ASD.
3.5. Con la censura in esame, in realtà, la ricorrente lamenta l’ omesso esame da parte dei giudici di appello di una non meglio specificata e neppure localizzata tra gli atti del giudizio di merito (in evidente spregio al difetto di autosufficienza del ricorso), documentazione posta a base dello stesso atto impositivo (ricorso, pag. 14), ma nel caso di specie la deduzione del vizio di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., è preclusa ai sensi del l’art. 348 -ter cod. proc. civ., ora 360, quarto comma, cod. proc. civ., vertendosi in ipotesi di doppia pronuncia di merito conforme, peraltro senza che la ricorrente abbia assolto l’onere di indicare i profili di divergenza tra le ragioni di fatto a base della decisione di primo grado e quelle a base del rigetto dell’appello, com’era invece necessario per dar ingresso alla censura sopra indicata (cfr. Cass. n. 26774 del 2016, n. 5528 del 2014 e, più recentemente, Cass. n. 5947 del 2023).
3.6. Inoltre, risolvendosi in un’inammissibile inversione dell’onere probatorio, non può condividersi la tesi della ricorrente secondo cui spettava all’Agenzia delle entrate distinguere tra i corrispettivi versati dai tesserati non soci ( somme incamerate per l’espletamento di attività commerciale, che generavano ricavi) dai corrispettivi incassati dall’associazione ma da riversare alle EPS o alle Federazioni per
tesseramenti o per partecipazioni a gare (somme incassate a titolo di tesseramento, che non generavano ricavi) ed operare la relativa riduzione. A ciò aggiungasi, da un lato, che spettava e, comunque, sarebbe stato più agevole alla ricorrente, anche per il principio della vicinanza della prova, fornire la prova dei corrispettivi incassati non costituenti ricavi, e dall’altro che una tale prova la ricorrente neppure ha fornito in sede giudiziale, come accertato dai giudici di appello.
Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 90 della legge 289 del 2000 con riferimento ai costi documentati per i rimborsi forfettari.
4.1. Dopo aver rammentato « che il rimborso forfettario è rappresentato dalle somme consegnate al dipendente o al collaboratore per sostenere le spese di vitto ed allogg io», sostiene la ricorrente che ai sensi dell’art. 109, comma 5, TUIR, « la somma costituente il rimborso forfettario è sempre deducibile al 75%, il tutto senza alcun obbligo di produrre e conservare alcuna documentazione che attesti l’effettivo ammontare di costi sostenuti » e che « Quanto poc’anzi detto viene espressamente riconosciuto dall’ar t. 67, comma 1, lett. m) del T.U.I.R. che annovera tra i redditi diversi » detti rimborsi.
Il motivo è manifestamente infondato in quanto, in materia di costi, grava sempre e comunque sulla parte, che ne rivendica il riconoscimento, l’onere di provarne la sussistenza, ovvero che gli stessi risultino da elementi certi e precisi, sicché correttamente i giudici di appello ne hanno disconosciuto la deducibilità per non avere la ricorrente fornito « documentazione relativa agli eventi di trasferimento ». Circostanza, quest’ultima, che deve ritenersi pacifica avendo la ricorrente sostenuto che tale documentazione non fosse necessaria.
5.1. L’infondatezza di tale tesi, ovvero di non necessità di « documentazione che attesti l’effettivo ammontare di costi sostenuti » per spese di vitto e alloggio del dipendente e collaboratore, è resa evidente anche dalla elementare considerazione che, in mancanza di prova
dell’effettivo ammontare di tali spese, neppure sarebbe possibile operare il calcolo della percentuale di deducibilità prevista dalla legge.
Con il terzo motivo di ricorso la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 90 della legge n. 289 del 2002 .
6.1. Sostiene la ricorrente che l’Agenzia delle entrate «nell’attività di ricostruzione dei costi sostenuti dalla ricorrente, ha proceduto a rielaborale il prospetto degli stessi, estromettendo sia gli importi per le deleghe F24 di competenza del periodo indicato, sia le commissioni banc arie sostenute per l’esecuzione di bonifici, bonifici internet, di commissioni SEPA Direct, commissioni su presentazione RID, commissioni per addebito RID Veloce, imposta di bollo su estratto conto, Canone Home Banking, interessi e competenze trimestrali, commissioni tenuta carte prepagate etc. Riferendosi dunque al rendiconto l’importo complessivo di queste due voci, entrambe presenti e ben evidenziate nel rendiconto annuale, è pari ad € 45.823,94 importo, che al netto dell e commissioni POS riconosciute, risulta quasi esattamente pari al valore mancante, voci di costo presenti nel rendiconto annuale, mentre gli F24 ed estratti conto bancari erano consultabili in qualsiasi momento da parte della resistente. Si contesta sul punto la scarsa diligenza tenuta nei ricalcoli eseguiti da parte della resistente in fase di accertamento, anche alla luce della rilevanza dei costi non riconosciuti».
Ricordato quanto detto sopra con riferimento agli oneri probatori in materia di deducibilità dei costi, che rende del tutto infondata la lamentata «scarsa diligenza» attribuita all’amministrazione finanziaria «nei ricalcoli eseguiti in fase di accertamento», il motivo in esame è inammissibile sia per difetto di specificità, non dando contezza alcuna dei documenti da cui emergerebbe quanto dedotto nel motivo, sia perché omette di censurare l’accertamento in fatto compiuto dai giudici di appello circa la mancanza di prova, che avrebbe dovuto fornire la ricorrente, idonea a sconfessare il « mero calcolo algebrico » operato al riguardo dall’amministrazione finanziaria.
7.1. La ricorrente nel motivo in esame censura la sentenza impugnata anche là dove fa riferimento a « distrazioni di fondi dalla disponibilità dell’Associazione per spese non documentate, che confermano la natura lucrativa e non di promozione sociale dell’ente », sostenendo che sia i rimborsi per spese di viaggio o trasporto, sia i costi per fitti per l’uso dell e strutture e delle attrezzature erano inerenti.
7.2. Al riguardo, osserva il Collegio che, diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente , nell’avviso di accertamento allegato al ricorso le spese di fitto vengono espressamente e molto chiaramente riconosciute come documentate e così anche altre spese (per remunerazione istruttori ed altri soggetti nonché per personale dipendente), ancorché vengano riprese a tassazione altre spese, tra cui quelle per 63.418,00 euro che la stessa ricorrente ha dichiarato di non contestare e che, essendo riferite a «spese per note di compenso», giustificano ampiamente la contestata affermazione della CTR.
In estrema sintesi, il ricorso va rigettato senza necessità di provvedere sulle spese in mancanza di costituzione in giudizio dell’intimata.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma il 29 maggio 2025