Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 24529 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 24529 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 04/09/2025
ORDINANZA
Sul ricorso n. 13530-2016, proposto da:
ESPOSITO NOME , c.f. CODICE_FISCALE elettivamente domiciliato in Roma, alla INDIRIZZO presso la RAGIONE_SOCIALE, rappresentato e difeso da ll’ avv. NOME COGNOME
Ricorrente
CONTRO
RAGIONE_SOCIALE , cf NUMERO_DOCUMENTO, in persona del Direttore p.t., elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende ope legis –
Controricorrente
Avverso la sentenza n. 10901/47/2015 della Commissione tributaria regionale della Campania, depositata il 3.12.2015;
udita la relazione della causa svolta dal Consigliere dott. NOME COGNOME nell’ adunanza camerale del 26 giugno 2025;
FATTI DI CAUSA
Dalla sentenza e da l ricorso si evince che l’Agenzia delle entrate, a ll’esito di una verifica condotta da militari della GdF, condotta nei confronti della
Accertamento -Operazioni soggettivamente inesistenti -Amministratore di fatto Responsabilità
RAGIONE_SOCIALE identificata quale società cartiera coinvolta in un imponente giro di operazioni soggettivamente inesistenti, emise un avviso d’accertamento, relativo all’anno d’imposta 2008, con cui pretese il pagamento di maggiori imposte ai fini Ires, Irap ed Iva, ed irrogò sanzioni.
L’atto impositivo fu anche notificato nei confronti di COGNOME Giacomo, identificato quale amministratore di fatto della società e responsabile solidale.
La società non impugnò l’atto impositivo. Il ricorrente invece, che negava ogni addebito e coinvolgimento nell’attività frodatoria della società, impugnò l’atto dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Napoli, la quale, con sentenza n. 20231/10/2014, accolse il ricorso annullando l’avviso d’accertamento.
L’appello proposto dall’ufficio fu invece accolto dalla Commissione tributaria regionale della Campania. Questa, con sentenza n. 10901/47/2015, evidenziò che le statuizioni del giudice di prime cure si erano basate su una lettura parziale degli elementi addotti dall’ Amministrazione finanziaria a dimostrazione del ruolo di amministratore di fatto e dominus della società cartiera, formalmente rappresentata da una testa di legno, priva anche di fissa dimora. Sulla base di una serie di riscontri degli accertamenti scaturiti dalla verifica, ha dunque riconosciuto la legittimità e correttezza della responsabilità contestata all’COGNOME, riformando integralmente la decisione di prime cure.
Il ricorrente ha censurato con nove (dieci) motivi la sentenza, ulteriormente illustrati con memoria depositata ai sensi dell’art. 381 bis cpc , chiedendone la cassazione, cui ha resistito con controricorso l ‘Amministrazione finanziaria.
A ll’esito dell’adunanza camerale del 26 giugno 2022 la causa è stata discussa e decisa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Preliminarmente, come primo motivo risultano formulate osservazioni, il cui contenuto tuttavia esula del tutto da specifiche censure avverso la sentenza, collocandosi al più nell’alveo di generiche valutazioni preliminari, con cui il ricorrente si limita ad anticipare il contenuto dei motivi propriamente detti, a partire dal secondo. Esso va pertanto dichiarato inammissibile.
Esaminando dunque le specifiche censure in cui si articola il ricorso, il ricorrente ha denunciato:
con il primo motivo (formalmente il secondo) la violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4 c.p.c., per omessa pronuncia in ordine a l difetto di motivazione dell’accertamento , nonché alla carenza di disposizioni di legge che prevedano una responsabilità solidale per l’obbligazione tributaria e quella sanzionatoria, questioni proposte sin dal primo grado, alle quali alcuna risposta avrebbe ricevuto in entrambi i giudizi di merito;
con il secondo motivo (terzo) la violazione dell’art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973, in relazione all’art. 360, primo comma , n. 3 c.p.c., nonché il difetto di motivazione dell’accertamento in ordine alle pretese avanza te nei confronti del ricorrente, qualificato amministratore di fatto e coobbligato solidale;
con il terzo (quarto) motivo la ‘violazione delle norme che disciplinano i presupposti di imposta ai fini Ires, Irap ed Iva, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., atteso che le violazioni contestate afferiscono a condotte della società, mentre la sua persona era estranea all’attività commerciale;
con il quarto (quinto) motivo la violazione dell’art. 7, l. n. 269 del 2003 , convertito in l. 326 del 2003, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. La solidarietà pretesa dall’erario anche per le sanzioni non potrebbe avere alcun fondamento normativo;
con il quinto (sesto) la violazione e falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. Tenuto conto che l’accertamento erariale è stato fondato sul metodo induttivo , ai sensi dell’art. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973, mancherebbe la legittimità dell’attribuzione d ella responsabilità solidale al presunto amministratore, che al più doveva essere fondata sulla disciplina civilistica e non su quella fiscale, peraltro mancando elementi indiziari a suo carico;
con il sesto (settimo) motivo la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. La CTR avrebbe accolto l’appello dell’Agenzia delle entrate pur in assenza di prove sulla ingerenza del ricorrente nell’attività sociale;
con il settimo (ottavo) motivo la violazione dell’art. 42 d.P.R. n. 600 del 1973 e dell’art. 97 Costituzione. L’accertamento sarebbe nullo perché privo di una motivazione riferibile all’organo competente e responsabile dell’ufficio accertatore;
con l’ottavo (nono) motivo la violazione del principio del ne bis in idem , ai sensi dell’art. 4, Protocollo n. 7 CEDU nonché dell ‘art. 117, primo comma, Cost. , in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4 c.p.c. Il ricorrente sarebbe stato già sottoposto a procedimento penale per i medesimi fatti;
con il nono (decimo) motivo ha invocato l’applicazione dello ius superveniens in materia di sanzioni, trattandosi di contestazioni sanzionatorie il cui trattamento, con il d.lgs. n. 158 del 2015, risulta più favorevole.
Quale premessa alla valutazione dei numerosi motivi, è utile intanto riassumere le ragioni per le quali il giudice regionale ha ritenuto di riformare la sentenza di primo grado, riconoscendo la responsabilità del ricorrente.
Nella motivazione della decisione il giudice d’appello, dopo aver riassunto nella sezione dedicata allo svolgimento del processo le rispettive posizioni delle parti, ha valutato positivamente le dichiarazioni rilasciate dall’amministratore formale della società, COGNOME COGNOME. Ha spiegato che si trattava di dichiarazioni attendibili, poiché egli non era altro che un soggetto senza fissa dimora, rintracciato presso il dormitorio comunale, condizione socio-economica ritenuta del tutto incompatibile con la posizione di amministratore di una società fatturante per milioni di euro. Ha rilevato che il direttore della banca di Somma Vesuviana aveva notato l’COGNOME accompagnare in filiale il Vanacore per operazioni di conto corrente. Ha apprezzato anche le dichiarazioni di altri amministratori, di altre società, le cui posizioni sociali erano altrettanto inconciliabili con lo status di amministratore di società, e che parimenti avevano indicato l’COGNOME come il vero dominus di queste ultime.
Il giudice regionale ha proceduto anche al riscontro delle dichiarazioni di altri terzi (ad es. COGNOME), che di fatto avevano confermato la fittizietà della RAGIONE_SOCIALE, nonché le modalità con cui erano stati ‘reclutati’ gli amministratori formali della RAGIONE_SOCIALE o di altre compagini sociali, prevalentemente avvicinati presso i dormitori comunali. Nel ponderare gli
elementi indiziari allegati dall’ufficio, ha evidenziato anche che la RAGIONE_SOCIALE era risultata sconosciuta a due indirizzi di ‘fantomatiche sedi legali’.
L’accertamento in fatto che ne emerge, sul quale peraltro il giudice di legittimità non è deputato ad alcun vaglio critico, se non quando se ne evidenzi l’illogicità , o l’errore materiale , o la violazione delle regole di governo della prova, risulta puntuale e logicamente corretto.
Quanto poi alla responsabilità del cd. amministratore di fatto, su cui sono articolate molte delle doglianze sviluppate nel ricorso, premesso che nel caso di specie l’Amministrazione finanziaria ha inteso riconoscere in capo all’Esposito una responsabilità solidale, tanto con riferimento agli obblighi impositivi, quanto a quelli sanzionatori, è altrettanto utile ribadire quanto proprio in materia di sanzioni si è affermato nella giurisprudenza.
C on l’introduzione dell’art. 7 del d.l. n. 269 del 2003, convertito poi in l. 326 del 2003, secondo cui «le sanzioni amministrative relative al rapporto fiscale proprio di società o enti con personalità giuridica sono esclusivamente a carico della persona giuridica», si è posta la questione se la suddetta disciplina, nell’innovare le regole dettate dal d.lgs. n. 472 del 1997, ed in particolare dall’art. 11 -che prima della modifica prevedeva l’obbligo solidale del pagamento della sanzione tra l’ente, la società o l’ associazione, nel cui interesse l’autore della violazione aveva agito, e l’autore m edesimo- avesse definitivamente escluso l’ esigibilità della sanzione dalla persona fisica, identificando esclusivamente nella compagine sociale l’unico soggetto passivo, quando dotato di personalità giuridica.
Sennonché la giurisprudenza di legittimità ha affermato che il principio secondo cui le sanzioni amministrative relative al rapporto tributario, proprio di società o enti con personalità giuridica, ex art. 7 del d.l. n. 269 del 2003, sono esclusivamente a carico della persona giuridica, anche quando essa sia gestita da un amministratore di fatto, non opera nell’ipotesi di società “cartiera”, atteso che, in tal caso, la società è una mera fictio , utilizzata quale schermo per sottrarsi alle conseguenze degli illeciti tributari commessi a personale vantaggio dell’amministratore di fatto, con la conseguenza che viene meno la ratio che giustifica l’applicazione del suddetto art. 7, diretto a sanzionare la sola società con personalità giuridica, e deve essere ripristinata la regola generale secondo cui la sanzione amministrativa pecuniaria
colpisce la persona fisica autrice dell’illecito (Cass., 20 ottobre 2021, n. 29038; 22 novembre 2021, n. 36003; cfr. anche 25 luglio 2022, n. 23231).
Nello specifico si è avvertito che «questa Corte (Cass. civ., 9 maggio 2019, n. 12334), ha precisato che l’applicazione della norma eccezionale introdotta dall’art. 7, decreto-legge n. 269/2003, presuppone che la persona fisica, autrice della violazione, abbia agito nell’interesse e a beneficio della società rappresentata o amministrata, dotata di personalità giuridica, poiché solo la ricorrenza di tale condizione giustifica il fatto che la sanzione pecuniaria, in deroga al principio personalistico, non colpisca l’autore materiale della violazione ma sia posta in via esclusiva a carico del diverso soggetto giuridico (società dotata di personalità giuridica) quale effettivo beneficiario delle violazioni tributarie commesse dal proprio rappresentante o amministratore; viceversa, qualora risulti che il rappresentante o l’amministratore della società con personalità giuridica abbiano agito nel proprio esclusivo interesse, utilizzando l’ente con personalità giuridica quale schermo o paravento per sottrarsi alle conseguenze degli illeciti tributari commessi a proprio personale vantaggio, viene meno la ratio che giustifica l’applicazione dell’art. 7, d.lgs. n. 269 del 2003, diretto a sanzionare la sola società con personalità giuridica, e deve essere ripristinata la regola generale secondo cui la sanzione amministrativa pecuniaria colpisce la persona fisica autrice dell’illecito» (Cass., 29038 del 2021, cit.).
Le argomentazioni e le conclusioni cui perviene la giurisprudenza di legittimità, che questo collegio condivide ed a cui intende dare continuità, sono il punto di arrivo di una esegesi della disciplina, che era pur partita da contrastanti letture, alcune p iù favorevoli all’abbandono di ogni prospettiva non aderente al l’apparente semplicità del testo dell’art. 7 cit. (Cass., 25 ottobre 2017, n. 25284; 13 novembre 2018, n. 29116; indirettamente, 23 aprile 2014, n. 9122), altre che invece ritenevano coerente con il sistema delle regole sulla responsabilità, ed imprescindibile nell’interpretazione dello stesso art. 7 cit., distinguere le ipotesi in cui l’amministratore, anche di fatto, avesse operato nell’interesse della società, da quelle in cui la società fosse solo una finzione, costituita (realmente) da un soggetto fisico, ma quale paravento delle proprie condotte, illecitamente incidenti sugli obblighi fiscali (Cass., 28 agosto 2013, n. 19716; 8 marzo 2017, n. 5924; 18 aprile 2019,
La ratio appena riferita richiede per ciò stesso dei riscontri, ed il primo di essi è proprio il riscontro del la ‘ strumentalità ‘ della società, cioè il suo essere asservita al perseguimento delle finalità illecite del suo controllore, identificato appunto nel suo amministratore di fatto.
Tali riscontri possono essere agevoli, come nel caso della società ‘ RAGIONE_SOCIALE ‘, della quale ne sia stata accertata l’in operatività, per assenza degli elementi essenziali al lo svolgimento dell’attività economica (locali in cui esercitare l’attività commerciale, personale, strumentazione, ecc.). In ipotesi simili, cioè, è agevole ritenere che, in via presuntiva e secondo l’ id quod plerumque accidit , l’amministratore di fatto abbia direttamente incamerato i proventi dell’evasione fiscale addebitabile all’ente (Cass., 36003 del 2021 cit.). Vi sono tuttavia ipotesi ben più complesse, nelle quali la società non è la cartiera, ma la compagine sociale che al più risulta coinvolta in un giro di operazioni soggettivamente inesistenti, il che, da solo, non costituisce affatto elemento assorbente per trarre la conclusione che essa sia una mera creazione artificiosa, strumentale all’illecita condotta del vero artefice, ossia la persona fisica che di fatto l’amministra. In tali ipotesi, infatti la società ‘a valle’ dell’ope razione soggettivamente simulata, ricevendo le fatture false, può anche aver conseguito un vantaggio fiscale, illecito, ma ciò non esclude la sua vitalità. In questo caso il suo amministratore agisce anzi nell’interesse e a beneficio della società amministrata e la fattispecie non potrà che rientrare proprio nell’alveo dell’art. 7 cit. (cfr. Cass., 23 gennaio 2023, n. 1946).
Le conclusioni raggiunte sulle sanzioni non possono che replicarsi quanto alle maggiori pretese fiscali, poiché è fin troppo ovvio che se la posizione del ricorrente, quale amministratore di fatto di società schermo, è quella del vero soggetto operante nel tessuto economico mediante lo svolgimento di numerose operazioni soggettivamente inesistenti, occultando redditi ai fini delle imposte dirette, e omettendo i versamenti Iva, il recupero di imposte, indirizzate nei confronti della inattiva compagine sociale, non può che essere indirizzato anche nei confronti del vero dominus della società fittizia, e tanto sulla base delle regole desumibili dall’art. 37, comma 3, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, ossia del suo ruolo di interposto rispetto alla società interponente.
Quello che conta, dunque, è se dalle verifiche risulti che un soggetto fisico abbia tenuto nei confronti della società una condotta concretizzatasi nello svolgendo di funzioni di controllo assoluto, di gestione e direzione della società, così che essa non abbia avuto altro ruolo se non quello di mera ‘sovrastruttura’ strumentale agli interessi personali perseguiti dal suo dominus (cfr., Cass., 25 luglio 2022, n. 23231; da ultimo, anche Cass., 27 agosto 2025, n. 23987).
Può quindi affermarsi che, ai fini della responsabilità della persona fisica, ciò che rileva non è se ci si trovi o meno al cospetto di un amministratore formale o di un amministratore di fatto della società, ma l’emersione della condotta uti dominus , tenuta dalla persona fisica, ossia quale colui che ne ha gestito e diretto le risorse -autonomamente dalla società e indipendentemente dagli interessi di questa-, ideando e ponendo in essere le condotte (illecite), dalle quali e per le quali possa insorgere un credito erariale, da far valere nei confronti dell’interpo sto.
Venendo allora al caso di specie, dalla sentenza, così come dagli elementi estrapolabili dalla stessa difesa erariale, si evince che il ricorrente era stato ritenuto l’amministratore di fatto di una società cartiera.
Il giudice regionale, pertanto -per quanto già esposto relativamente alla motivazione della pronuncia qui impugnata-, applicando i principi di diritto enunciati, ha coerentemente vagliato gli indizi addotti dall’ufficio a dimostrazione del ruolo predominante dell’COGNOME nella Emmedue, risultata una società fittizia, della quale non si era in grado neppure di individuare la sede legale , per poi concludere con l’accoglimento dell’appello.
Esaminando allora i motivi di ricorso -in disparte che la formulazione di molti di essi è indirizzata nei confronti dell’atto impositivo, laddove il ricorso per la cassazione di una decisione deve essere indirizzato esclusivamente alla denuncia di carenze della sentenza impugnata in sede di legittimità, secondo i parametri di critica previsti dall’art. 360 c.p.c. -, il primo (n. 2 del ricorso), con il quale ci si duole della omessa pronuncia sulla mancanza di accertamento del titolo in base al quale l’esposito avrebbe dovuto rispondere delle operazioni fraudolente della società, nonché sulla carenza di una prova congrua e logica dell’attribuzione della qualifica di ‘gestore effettivo’ della società, è contraddetto manifestamente dal contenuto stesso della decisione. La motivazione del giudice regionale è infatti tutta tesa a
RGN 13530/2016
dimostrare il coinvolgimento integrale del ricorrente nelle vicende della società, mero schermo precostituito a servizio dell’attività fraudolenta di cui l’COGNOME era l’artefice esclusivo .
Il secondo motivo (n. 3) , sulla carenza di motivazione dell’avviso d’accertamento, ex art. 42 d.P.R. n. 600 cit., ed il terzo (n. 4), sulla ‘violazione delle norme che disciplinano i presupposti di imposta ai fini Ires, Irap ed Iva ‘, sono inammissibili perché indirizzati verso l’avviso d’accertamento, come se il giudice di legittimità rappresentasse un terzo grado di merito. In ogni caso è l’esordio del medesimo ricorso ad avvertire che l’Esposito nulla aveva detto in ordine all’oggetto della verifica e poi dell’atto impositivo, essendosi limitato ad eccepire la sua estraneità alla gestione della società, impostazione difensiva che, per quanto chiarito, è stata disattesa in punto di fatto e di diritto dal giudice regionale.
Infondato è poi il quarto motivo (n. 5), per quanto già chiarito in ordine alla responsabilità dell’amministratore di fatto in tema di sanzioni.
Sono poi inammissibili il quinto motivo (n. 6), con cui il ricorrente sostiene l’e rrata applicazione degli art. 2727 e 2729 c.c. in rapporto agli accertamenti induttivi, ed il sesto motivo (n. 7), con cui ci si duole della violazione dell’art. 2697 c.c. I motivi, infatti, pur denunciando errori di diritto, nello sviluppo argomentativo impingono nel merito, tentando di ottenere una rivalutazione degli elementi indiziari, inammissibile in sede di legittimità.
Inammissibile è anche il settimo motivo (n. 8), con cui si denunciano vizi dell’atto impositivo in ordine alla sua riferibilità all’ Ufficio e alla sua carenza formale per assenza degli elementi essenziali necessari per la sua validità, poiché non è neppure indicato in quale grado del processo e in quale atto difensivo la questione fosse stata oggetto di uno specifico motivo di ricorso.
Inammissibile risulta l’ottavo motivo (n. 9), perché privo di specificità, per non aver indicato il processo penale in cui sarebbe stato coinvolto e su quali presupposti, senza neppure indicare l’esito del procedimento penale .
Inammissibile è anche il nono motivo (n. 10), con cui invoca l’applicazione delle sanzioni più favorevoli , atteso che non si accenna neppure a quali siano le violazioni contestate sul piano sanzionatorio. Ciò, tanto più considerando quanto già avvertito dalla giurisprudenza di
legittimità, secondo la quale, in tema di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie, le modifiche apportate dal d.lgs. n. 158 del 2015 non operano in maniera generalizzata in favor rei , rendendo la sanzione irrogata illegale, sicché deve escludersi che la mera deduzione, in sede di legittimità, di uno ius superveniens più favorevole, senza specifiche allegazioni rispetto al caso concreto idonee ad influire sui parametri di commisurazione della sanzione, imponga la cassazione con rinvio della sentenza impugnata (Cass., 28 giugno 2018, n. 17143; 30 novembre 2018, n. 31062; 16 settembre 2020, n. 19286; 8 gennaio 2024, n. 577).
Con memoria tempestivamente depositata la difesa del ricorrente ha invocato anche l’applicazione della disciplina sanzionatoria più favorevole, introdotta con la riforma attuata con il d.lgs. 14 giugno 2024, n. 87.
Pur tenendo a mente che l’art. 5 del suddetto d.lgs. n. 87/2024 ha stabilito che la riforma trovi applicazione alle violazioni commesse a partire dal 1° settembre 2024, il ricorrente ha tuttavia denunciato la non conformità della disposizione agli artt. 76 e 77 Cost. (eccesso di delega), sollecitando il ricorso alla Corte Costituzionale, denunciando peraltro che la deroga ad un principio generale del diritto non sarebbe stato neppure autorizzato dalla legge di delega.
Questo collegio ritiene manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della deroga disposta dal Legislatore al principio della lex Mitior, per le ragioni già chiarite da questa stessa Corte sulla legittimità della irretroattività della disciplina sanzionatoria più favorevole, disposta con l’ art. 5 del d.lgs. n. 87 del 2024, le cui ragioni sono qui richiamate (cfr. Cass., 19 gennaio 2025, n. 1274).
In definitiva il ricorso va rigettato. All ‘esito del giudizio segue la soccombenza del ricorrente nelle spese di causa, che vanno liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte, definitivamente pronunciando, rigetta il ricorso; condanna il ricorrente alla rifusione in favore della controricorrente delle spese di causa, che liquida in € 18.000,00 a titolo di compensi, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella
misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis del medesimo articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il giorno 26 giugno 2025