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Amministratore di fatto: responsabilità fiscale e utili

La Corte di Cassazione ha stabilito che un amministratore di fatto può essere ritenuto il reale possessore dei redditi di una società, e quindi soggetto a tassazione IRPEF, quando viene provato, anche tramite presunzioni, che gestiva l’impresa ‘uti dominus’. Nel caso specifico, una società edile, formalmente amministrata da un prestanome nullatenente, era in realtà gestita da un geometra che ne controllava ogni aspetto operativo e finanziario. La Corte ha rigettato il ricorso del contribuente, confermando che la sostanza economica prevale sulla forma giuridica, attribuendo gli utili non dichiarati direttamente all’amministratore di fatto.

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Pubblicato il 12 novembre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Amministratore di Fatto: la Cassazione Chiarisce la Responsabilità Fiscale

La figura dell’amministratore di fatto è centrale in una recente ordinanza della Corte di Cassazione, che ha affrontato il tema della responsabilità fiscale per gli utili di una società a responsabilità limitata. La decisione stabilisce un principio fondamentale: chi gestisce un’impresa come se ne fosse il vero proprietario (uti dominus), traendone i benefici economici, deve rispondere personalmente delle imposte sui redditi prodotti, anche se formalmente non ricopre alcuna carica sociale. Questo caso offre spunti cruciali sull’interposizione fittizia e sulla prevalenza della sostanza sulla forma nel diritto tributario.

Il Contesto: Accertamento Fiscale su Utili Societari non Dichiarati

L’Agenzia delle Entrate aveva emesso avvisi di accertamento nei confronti di alcuni soggetti, recuperando a tassazione IRPEF gli utili di partecipazione non dichiarati provenienti da una società edile (S.r.l.). Secondo l’Ufficio, sebbene la società avesse un amministratore e un socio formale (risultato essere un semplice operaio nullatenente), la gestione reale era nelle mani di due geometri, considerati i veri ‘imprenditori e soci occulti’.

Il contribuente, uno dei due geometri, aveva impugnato l’avviso, sostenendo di non essere mai stato né amministratore né socio della società. Mentre la Commissione Tributaria Provinciale aveva inizialmente annullato gli avvisi, la Commissione Tributaria Regionale aveva ribaltato la decisione, accogliendo l’appello dell’Agenzia delle Entrate e riconoscendo la fondatezza della pretesa fiscale basata sulla figura dell’amministratore di fatto.

Il Ricorso in Cassazione e il Ruolo dell’Amministratore di Fatto

Il contribuente ha presentato ricorso in Cassazione, articolando diversi motivi. Principalmente, ha contestato che la sua qualità di amministratore di fatto fosse stata desunta da mere dichiarazioni di terzi, senza prove concrete del suo coinvolgimento gestionale o della percezione di profitti. Ha inoltre eccepito l’impossibilità giuridica di configurare un ‘socio di fatto’ in una società di capitali e ha criticato l’uso di una ‘doppia presunzione’ da parte dei giudici di merito.

La Corte Suprema ha esaminato la questione partendo dall’art. 37, comma 3, del D.P.R. 600/1973, che permette di imputare i redditi al contribuente che ne è l’effettivo possessore, anche se formalmente appaiono di titolarità di altri soggetti. Questa norma, applicabile sia all’interposizione fittizia che a quella reale, richiede la prova, anche per presunzioni gravi, precise e concordanti, che il contribuente sia il reale beneficiario del reddito.

Le Motivazioni della Decisione

La Cassazione ha ritenuto infondati i motivi del ricorso, confermando la decisione della Commissione Tributaria Regionale. La Corte ha chiarito che, in casi di reddito d’impresa, la figura dell’amministratore di fatto diventa cruciale per identificare il soggetto interponente.

La Gestione ‘Uti Dominus’ come Prova dell’Interposizione

Il punto centrale della motivazione risiede nel concetto di gestione uti dominus. Se un soggetto, pur non avendo cariche formali, esercita un controllo totale sull’impresa (indirizzo, coordinamento, risorse finanziarie), si presume che ne sia anche il reale possessore dei redditi. La Corte ha affermato che quando gli amministratori di fatto utilizzano lo schermo societario per il loro esclusivo interesse, sorge la presunzione che abbiano tratto un beneficio esclusivo anche dai proventi dell’attività.

Nel caso specifico, la CTR aveva correttamente individuato negli amministratori di fatto i ‘veri imprenditori’ sulla base di un’ampia serie di elementi indiziari:

– Dichiarazioni di terzi (fornitori, clienti, altri amministratori) che indicavano il ricorrente come la persona con cui trattavano per prezzi, lavori e pagamenti.
– La natura ‘artificiosa e ingannevole’ della società, priva di beni strumentali, con sede legale fittizia e amministratori di diritto nullatenenti e irreperibili.
– La gestione sistematica e continuativa non solo degli aspetti tecnici dei cantieri, ma anche di quelli organizzativi e amministrativi.

La Validità della Prova per Presunzioni

La Corte ha respinto la critica sull’uso di una ‘doppia presunzione’ (da fatti noti si presume il ruolo gestorio, e da questo si presume la percezione del reddito). I giudici hanno chiarito che nel nostro ordinamento non esiste un divieto di praesumptio de praesumpto. Un fatto accertato in via presuntiva può legittimamente costituire la premessa per un’ulteriore presunzione, purché il ragionamento logico sia coerente e fondato su regole di esperienza.

Le Conclusioni e le Implicazioni Pratiche

L’ordinanza consolida un importante principio in materia di accertamento fiscale: la realtà economica prevale sull’apparenza giuridica. La figura dell’amministratore di fatto non è una mera costruzione teorica, ma uno strumento concreto per l’Amministrazione Finanziaria per colpire l’evasione realizzata attraverso l’uso di società schermo e prestanome. Chiunque gestisca di fatto un’impresa, determinandone le strategie e controllandone le finanze, può essere chiamato a rispondere delle imposte sui redditi che l’impresa ha prodotto, in quanto considerato il loro possessore effettivo. La decisione sottolinea l’importanza cruciale della prova per presunzioni, che, se basata su elementi gravi, precisi e concordanti, è pienamente sufficiente a fondare un accertamento fiscale.

Un amministratore di fatto può essere tassato per gli utili di una S.r.l. di cui non è socio né amministratore formale?
Sì. Secondo la Corte di Cassazione, se viene dimostrato attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti che egli è l’effettivo possessore del reddito per interposta persona, gli utili della società possono essere a lui imputati ai fini IRPEF, in applicazione dell’art. 37 del D.P.R. n. 600/1973.

Come si dimostra che un soggetto è il reale possessore dei redditi di una società?
La prova può essere fornita dimostrando che il soggetto gestiva l’impresa uti dominus, ovvero come se ne fosse il vero proprietario, controllandone le risorse finanziarie e l’attività. Elementi probatori possono includere dichiarazioni di terzi, l’assenza di una reale struttura operativa della società e il fatto che gli amministratori formali siano meri prestanome.

È legittimo utilizzare una ‘doppia presunzione’ in un accertamento fiscale?
Sì. La Corte ha chiarito che non esiste nel nostro ordinamento un divieto di ‘doppia presunzione’ (praesumptio de praesumpto). Pertanto, un fatto ignoto (es. la percezione del reddito) può essere provato partendo da un fatto che è stato a sua volta accertato in via presuntiva (es. il ruolo di amministratore di fatto).

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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