Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 23172 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 23172 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 12/08/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 12362/2017 R.G. proposto da : COGNOME, elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio RAGIONE_SOCIALE-) rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO . (NUMERO_DOCUMENTO) che la rappresenta e difende
-controricorrente-
avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. DELLA CAMPANIA n. 10139/2016 depositata il 16/11/2016. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 26/06/2025
dal Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
NOME COGNOME propone ricorso, affidato a cinque motivi, per la cassazione della sentenza indicata in epigrafe con cui la Commissione tributaria regionale della Campania aveva accolto l’appello proposto nei confronti dell’Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, avverso la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Napoli che aveva respinto il ricorso proposto dal suddetto contribuente avverso un atto di contestazione sanzioni emesso in relazione al 2007/2008. L’atto in parola investiva l’COGNOME quale amministratore occulto, quindi coobbligato di RAGIONE_SOCIALE, e riguardava il mancato pagamento delle imposte (Ires, Irap e Iva), oltre interessi e sanzioni; nella prospettazione erariale emergeva in capo alla società il ruolo di cartiera nell’ambito di un sistema di frode carosello.
Resiste, con controricorso, l’Agenzia delle entrate.
Il contribuente ha depositato memoria illustrativa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Va preliminarmente disattesa l’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 5 del D.Lgs. 14 giugno 2024, n. 87, sollevata dalla parte ricorrente in memoria.
La disposizione censurata -nella parte in cui prevede l’applicabilità delle nuove sanzioni amministrative tributarie esclusivamente alle violazioni commesse a decorrere dal 1° settembre 2024 -rappresenta l’esercizio di una discrezionalità legislativa non arbitraria né irragionevole. Il legislatore ha legittimamente inteso limitare nel tempo l’efficacia della nuova disciplina più favorevole, adottando una norma transitoria espressa, in coerenza con
l’ordinario principio di irretroattività delle leggi, salvo che non si verta in ipotesi di abolizione dell’illecito, qui non ricorrente. Le ragioni sono state diffusamente esposte da questa Corte ancora di recente nella sentenza n. 1274 del 25 gennaio 2025, che vanno interamente condivise.
Benché la Corte costituzionale abbia in più occasioni affermato la possibilità di applicare il principio del favor rei anche alle sanzioni amministrative di natura sostanzialmente punitiva (v. sentt. n. 193 del 2016; n. 63 del 2019; n. 68 del 2021), essa ha anche chiarito che tale principio non assume valore assoluto, potendo essere regolato diversamente mediante norme transitorie purché non discriminatorie o illogiche, evenienza che non si ravvisa nel caso di specie.
La previsione di una decorrenza differita per l’applicazione della nuova disciplina sanzionatoria, come operata dall’art. 5 del D.Lgs. n. 87/2024, risponde ad esigenze di certezza del diritto e tutela dell’affidamento, ed è sorretta da una finalità coerente con i criteri di delega. Non è pertanto ravvisabile alcuna violazione degli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., né del principio di uguaglianza, né del principio di legalità in materia sanzionatoria.
Infine, non sussistono i presupposti per l’applicazione dell’art. 49, § 1, terzo periodo, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, posto che la disciplina in oggetto non dà attuazione al diritto dell’Unione e le sanzioni amministrative tributarie previste dal D.Lgs. n. 472/1997 non presentano carattere ‘penale’ ai sensi dei criteri elaborati dalla Corte di giustizia.
L’eccezione è pertanto infondata e va disattesa.
Con il primo motivo si contesta la violazione e falsa applicazione dell’art. 7 D.L. 30 settembre 2003, n. 269, conv. in L. 24 novembre 2003, n. 326, avuto riguardo all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., in quanto ‘ l’affermazione della responsabilità dell’COGNOME per le
violazioni che sono state contestate alla società è priva di valido supporto probatorio ‘.
Il primo motivo è infondato.
Questa Corte ha precisato che l’applicazione della norma eccezionale introdotta dall’art. 7 del d.l. n. 269 del 2003 presuppone che la persona fisica, autrice della violazione, abbia agito nell’interesse e a beneficio della società rappresentata o amministrata, dotata di personalità giuridica, poiché solo la ricorrenza di tale condizione giustifica il fatto che la sanzione pecuniaria, in deroga al principio personalistico, non colpisca l’autore materiale della violazione ma sia posta in via esclusiva a carico del diverso soggetto giuridico (società dotata di personalità giuridica) quale effettivo beneficiario delle violazioni tributarie commesse dal proprio rappresentante o amministratore; viceversa, « qualora risulti che il rappresentante o l’amministratore della società con personalità giuridica abbiano agito nel proprio esclusivo interesse, utilizzando l’ente con personalità giuridica quale schermo o paravento per sottrarsi alle conseguenze degli illeciti tributari commessi a proprio personale vantaggio », viene meno la ratio giustificatrice dell’applicazione dell’art. 7 del d.l. n. 269 del 2003, diretto a sanzionare la sola società con personalità giuridica, dovendo essere ripristinata la regola generale secondo cui la sanzione amministrativa pecuniaria colpisce la persona fisica autrice dell’illecito; invero, « In tal caso, la persona fisica che ha agito per conto della società è, al contempo, trasgressore e contribuente, e la persona giuridica è una mera ‘fictio’, creata nell’esclusivo interesse della persona fisica » (Cass. 7 novembre 2018, n. 28332; Cass. 18 aprile 2019, n. 10975; Cass. 12 dicembre 2019, n. 32594; Cass. 13 novembre 2020, n. 25757; Cass. 20 ottobre 2021, n. 29038). Si è osservato, peraltro, che tale ragionamento non riguarda solo il profilo sanzionatorio in senso stretto, il quale, anzi, costituisce un aspetto ulteriore, un posterius ,
rispetto alla pretesa sostanziale e al debito tributario. È evidente, infatti, che se l’amministratore di fatto ha utilizzato lo schermo sociale nel suo esclusivo interesse sorge la presunzione che pure dei proventi dell’attività egli abbia tratto esclusivo beneficio (Cass. n. 1358 del 2023).
Deve darsi continuità a questo orientamento, formatosi con riguardo in particolare all’amministratore di fatto, che coglie un dato innegabile, ossia che, in tali ipotesi, esiste un soggetto che governa uti dominus la società di capitali, il quale fa proprie le attività, i redditi e i proventi dell’ente, cui lascia la formale responsabilità e l’onere delle imposte, non assolte. Questa Corte, peraltro, ha puntualizzato che la ratio di questa soluzione non può poggiare sulla considerazione della società come mera fictio , priva dunque di realtà giuridica (Cass. n. 23231 del 2022), perché si impone una lettura restrittiva dei casi di nullità della società, a nessuno dei quali è riconducibile la simulazione (Cass. n. 22560 del 2015; Cass. n. 20888 del 2019); si è precisato, a questo proposito, che la società, quale « nuovo autonomo soggetto giuridico, una volta iscritto nel registro delle imprese, agisce coinvolgendo terzi a prescindere dalla volontà effettiva, vive di vita propria ed opera compiendo la propria attività per realizzare lo scopo sociale, a prescindere dall’intento preordinato dei suoi fondatori » (Cass. n. 29700 del 2019). Ferma, dunque, l’effettività della società di capitali -al di là del proposito dei soci e ideatori di realizzare con essa un mero schermo rispetto ad eventuali attività illecite -va esaminato se, e a quali condizioni e limiti, in una situazione come quella in considerazione, l’Amministrazione finanziaria possa imputare ad un diverso soggetto i redditi maturati dall’ente e le relative imposte.
Il meccanismo che, nel nostro ordinamento, mira a riallineare l’attività svolta da un altro soggetto sull’effettivo percettore dei redditi è quello previsto dall’art. 37, terzo comma, del d.P.R. n. 600
del 1973 che dispone: « In sede di rettifica o di accertamento d’ufficio sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona». Per la sua ampia latitudine, l’applicazione di questa norma non è limitata dalla tipologia di reddito oggetto di accertamento e, dunque, si estende anche al reddito d’impresa e all’ipotesi in cui l’interposto sia una società di capitali, salva la necessaria specifica verifica della relazione di fatto tra contribuente e reddito per operare la traslazione del reddito d’impresa prodotto all’effettivo titolare. Si è, quindi, affermato che «in tema di accertamento sulle imposte dirette e sull’Iva, nei confronti del soggetto che abbia gestito uti dominus una società di capitali si determina, ai sensi dell’art. 37, terzo comma, d.P.R. n. 600 del 1973, la traslazione del reddito d’impresa, e delle relative imposte, in quanto effettivo possessore del reddito della società interposta; inoltre, in tale ipotesi, tra i due soggetti si instaura un rapporto di mandato senza rappresentanza, dove il mandatario è il gestore uti dominus e la mandante è la società, sicché, ove le prestazioni di servizi cui il primo abbia partecipato per conto della seconda siano soggette a IVA, pure il rapporto giuridico tra il mandatario e la società interposta è soggetto all’IVA; a tali fini incombe sull’Amministrazione finanziaria l’onere di provare, anche solo in via indiziaria, il totale asservimento della società interposta all’interponente, spettando quindi al contribuente l’onere di fornire la prova contraria dell’assenza di interposizione ovvero della mancata percezione dei redditi del soggetto interposto » (Cass. n. 23231 del 2022). Questo inquadramento ha immediate conseguenze anche sul piano sanzionatorio. L’irrogazione delle sanzioni, difatti, trova il suo diretto riferimento nella condotta dell’interponente, il quale è sanzionato in proprio, in relazione all’avvenuta traslazione del reddito e dei relativi tributi dell’ente
collettivo, con conseguente imputazione anche delle condotte evasive. La fatti specie è esterna al perimetro dell’art. 7 d.l. n. 269 del 2003 perché il rapporto fiscale che viene in considerazione non è quello, previsto dalla citata norma, « proprio di società o enti con personalità giuridica » ma, in conseguenza della traslazione del reddito all’effettivo possessore ex art. 37, terzo comma, d.P.R. n. 600 del 1970, quello specifico e proprio dell’interponente. Il contribuente non riveste, in questo caso, la posizione di amministratore ma è l’effettivo possessore dei redditi formalmente intestati alla società come se fossero stati da lui prodotti, sicché assume rilievo, anche per tale versante, il suo rapporto fiscale, con le correlate sanzioni per gli inadempimenti e le violazioni che lo caratterizzano, e non quello della società (Cass. sez. 5 n. 33434 del 2022).
Posto quanto sopra, questa Corte ha precisato che nell’ipotesi -come nella specie- di società “cartiera”, della quale ne sia stata accertata l’inesistenza, per assenza degli elementi essenziali allo svolgimento dell’attività economica (locali in cui esercitare l’attività commerciale, personale, strumentazione, ecc.) è agevole ritenere che, in via presuntiva e secondo l’id quod plerumque accidit , l’amministratore di fatto abbia direttamente incamerato i proventi dell’evasione fiscale addebitabile all’ente e che, conseguentemente, spetti all’amministratore stesso fornire la prova contraria (Cass. n. 36003 del 2021; Cass. Sez. 5, Sentenza n. 1946 del 2023).
Venendo allora, al caso di specie, dalla sentenza impugnata si evince che il ricorrente è stato ritenuto responsabile per le obbligazioni tributarie e sanzionatorie della società quale amministratore di fatto di RAGIONE_SOCIALE risultata, a seguito delle indagini della Gdf, società “RAGIONE_SOCIALE” con conseguente presunzione di costituzione della stessa quale schermo delle attività illegali dell’effettivo dominus e sostanziale imputabilità all’amministratore di fatto della responsabilità ex art. 37, terzo comma, d.P.R. n. 600
del 1970, quale effettivo possessore del reddito della società interposta, con estraneità della fattispecie (sotto il profilo sanzionatorio) al perimetro dell’art. 7 d.l. n. 269 del 2003.
Con il secondo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c. per avere la CTR fondato la asserita responsabilità (solidale) per le obbligazioni tributarie e sanzionatorie di RAGIONE_SOCIALE in capo a NOME COGNOME quale amministratore di fatto della società, sulla base di una doppia presunzione
Con il terzo motivo si censura, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione dell’art. 2697 c.c. per avere la CTR addossato erroneamente all’Esposito l’onere di fornire ‘ la prova contraria, diabolica, di non aver gestito per nulla la società ‘.
Il secondo motivo e il terzo motivo, suscettibili di trattazione unitaria, non colgono nel segno e vanno disattesi.
Quanto al censurato malgoverno del materiale probatorio da parte del giudice di merito, è pacifico che competa alla Corte di cassazione, nell’esercizio della funzione nomofilattica, il controllo della corretta applicazione dei principi contenuti nell’art. 2729 c.c. alla fattispecie concreta, poiché se è devoluta al giudice di merito la valutazione della ricorrenza dei requisiti enucleabili dagli artt. 2727 e 2729 c.c., per valorizzare gli elementi di fatto quale fonte di presunzione, tale giudizio è soggetto al controllo di legittimità se risulti che, violando i criteri giuridici in tema di formazione della prova critica, il giudice non abbia fatto buon uso del materiale indiziario disponibile, negando o attribuendo valore a singoli elementi, senza una valutazione di sintesi (cfr. Cass., sez. 5, ord. 19352 del 2018, Cass., sez. 6-5, n. 10973/2017, Cass., sez. 5, n. 1715/2007). Infatti, qualora il giudice di merito sussuma erroneamente sotto i tre caratteri individuatori della presunzione (gravità, precisione e concordanza) fatti concreti che non sono invece rispondenti a quei requisiti, il relativo ragionamento è
censurabile in base all’art. 360, n. 3, c.p.c. (e non già alla stregua del n. 5 dello stesso art. 360), competendo alla Corte di cassazione, nell’esercizio della funzione di nomofilachia, controllare se la norma dell’art. 2729 c.c., oltre ad essere applicata esattamente a livello di proclamazione astratta, lo sia stata anche sotto il profilo dell’applicazione a fattispecie concrete che effettivamente risultino ascrivibili alla fattispecie astratta (Sez. 3, Sentenza n. 19485 del 04/08/2017; Sez. 3, Sentenza n. 17535 del 26/06/2008). Ebbene, in ordine all’utilizzo degli indizi, mentre la gravità, precisione e concordanza degli stessi permette di acquisire una prova presuntiva che, anche sola, è sufficiente nel processo tributario a sostenere i fatti fiscalmente rilevanti, accertarti dalla amministrazione (Cass., sent. n. 1575/2007), quando manca tale convergenza qualificante è necessario disporre di ulteriori elementi per la costituzione della prova. La giurisprudenza di legittimità ha tracciato il corretto procedimento logico del giudice di merito nella valutazione degli indizi, affermando che la gravità, precisione e concordanza richiesti dalla legge vanno ricavati dal loro complessivo esame, in un giudizio globale e non atomistico di essi (ciascuno dei quali può essere insufficiente), ancorché preceduto dalla considerazione di ognuno per individuare quelli significativi, perché è necessaria la loro collocazione in un contesto articolato, nel quale un indizio rafforza e ad un tempo trae vigore dall’altro in vicendevole completamento (tra le più recenti cfr. Cass., sent. n. 12002/2017; Cass., ord. n. 5374/2017). Ciò che dunque rileva, in base a deduzioni logiche di ragionevole probabilità, non necessariamente certe, è che dalla valutazione complessiva emerga la sufficienza degli indizi, o anche di un solo significativo indizio, a supportare la presunzione semplice di fondatezza della pretesa, salvo l’ampio diritto del contribuente a fornire la prova contraria.
Peraltro, questa Corte ha precisato che il « divieto di doppie presunzioni » o « divieto di presunzioni di secondo grado o a catena »
non è riconducibile né agli artt. 2729 e 2697 cod. civ. né a qualsiasi altra norma dell’ordinamento ben potendo il fatto noto accertato in base ad una o più presunzioni (anche non legali), purché “gravi, precise e concordanti”, ai sensi dell’art. 2729 cod. civ., legittimamente costituire la premessa di una ulteriore inferenza presuntiva idonea -in quanto, a sua volta adeguata -a fondare l’accertamento del fatto ignoto ( ex multis , Cass. sez. 5, n. 20748 del 2019; n. 15003 del 2017; Cass. n. 1289 e n. 9348 del 2015); in particolare, in tema di presunzioni, la prova inferenziale che sia caratterizzata da una serie lineare di inferenze, ciascuna delle quali sia apprezzata dal giudice secondo criteri di gravità, precisione e concordanza, fa sì che il fatto “noto” attribuisca un adeguato grado di attendibilità al fatto “ignorato”, il quale cessa pertanto di essere tale divenendo noto, ciò che risolve l’equivoco logico che si cela nel divieto di doppie presunzioni (Cass., sez. 5, n. 27982/2020; nello stesso senso, Cass. sez. 5, n. 23860 del 2020).
La violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c. si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne è gravata secondo le regole dettate da quella norma, e non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, il giudice abbia errato nel ritenere che la parte onerata abbia assolto tale onere, poiché in questo caso vi è soltanto un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. (tra le altre, Cass. Sez. L, Sentenza n. 17313 del 19/08/2020; Cass. 23518 del 2018; Cass. n. 571 del 2017; n. 19064 del 2006, n. 15107 del 2013).
Nella specie, il motivo di ricorso, pur prospettando una violazione degli artt. 2727, 2729 e 2697 c.c., in realtà tende inammissibilmente ad una nuova interpretazione di questioni di merito, avendo la CTR con una valutazione in fatto non
sindacabile dinanzi al giudice di legittimità, nel rispetto dei criteri di formazione della prova presuntiva e senza violare il c.d. divieto di doppie presunzioni – desunto il ruolo in capo a NOME COGNOME di amministratore di fatto di RAGIONE_SOCIALE da una serie di elementi presuntivi – stimati gravi, precisi e concordanti. Segnatamente il giudice regionale ha evidenziato che NOME COGNOME risulta … sempre presente negli atti societari accanto all’amministratore c.d. ‘testa di legno’ (operazioni bancarie, operazioni presso la Camera di Commercio, ecc.); è stato riconosciuto come il vero amministratore sia dal dig. NOME COGNOME che dal rag. COGNOME è stato riconosciuto dal direttore della filiale del Banco di Napoli di Somma Vesuviana, che ha dichiarato che egli era sempre presente alle operazioni bancarie; questi elementi, presi nel loro insieme, costituiscono certamente presunzioni, gravi, precise e concordanti ‘. In particolare, quanto alla valenza delle dichiarazioni rese da un terzo e acquisite dagli organi verificatori nel p.v.c. della G.d.F. cui rinviava l’atto impositivo in questione, questa Corte ha precisato che, nel processo tributario, il divieto di prova testimoniale posto dall’art. 7, decreto legislativo n. 546/1992, si riferisce alla prova testimoniale da assumere con le garanzie del contraddittorio e non implica, pertanto, l’impossibilità di utilizzare, ai fini della decisione, dichiarazioni che gli organi dell’amministrazione finanziaria sono autorizzati a richiedere anche ai privati nella fase amministrativa di accertamento che, proprio perchè assunte in sede extra processuale, rilevano quali elementi indiziari che possono concorrere a formare, unitamente ad altri elementi, il convincimento del giudice” (Cass. civ., 16 maggio 2019, n. 13174; Cass. civ., 7 aprile 2017, n. n. 9080; v. anche Cass. civ. 30 ottobre 2024, n. 28022); si è, al riguardo, precisato che tali dichiarazioni hanno il valore probatorio proprio degli elementi indiziari e, qualora rivestano i caratteri di gravità, precisione e concordanza di cui all’art. 2729 cod. dv., danno luogo a presunzioni (Cass. civ., 20
aprile 2007, n. 9402); infatti, dal divieto di ammissione della prova testimoniale non discende la inammissibilità della prova per presunzioni, ai sensi dell’art. 2729, comma secondo, cod. civ., secondo il quale le presunzioni non si possono ammettere nei casi in cui la legge esclude la prova testimoniale – poichè questa norma, attesa la natura della materia ed il sistema dei mezzi di indagine a disposizione degli uffici e dei giudici tributari, non è applicabile nel contenzioso tributario (Cass. civ., 23 ottobre 2066, n. 22804; Cass. civ., 21 gennaio 2015, n. 960); infatti si è rilevato che, nel pieno rispetto della “parità di armi” tra fisco e contribuente, il diritto vivente ammette l’introduzione indiziaria nel processo tributario di dichiarazioni rese da terzi in sede extra processuale (Corte Cost. 18 del 2000; Cass. n. 20028 del 30/9/2011), sebbene esse non siano assunte o verbalizzate in contraddittorio da nessuna norma richiesto (Cass. civ., 5 dicembre 2012, n.21812); peraltro, come precisato da questa Corte (Cass. civ. 20 ottobre 2019, n. 24531; Cass. 27 maggio 2020, n. 9903). A fronte della valenza indiziaria delle suddette dichiarazioni del COGNOME e del COGNOME -acquisite nel corso delle indagini dagli organi della polizia giudiziaria -e supportate da altri elementi presuntivi (risultanze istruttorie e indagini finanziarie) -la corte di secondo grado ha concluso per l’ascrivibilità all’Esposito di un ruolo di dominus dell’ente. A fronte di detta acclarata circostanza sarebbe stato l’COGNOME, in effetti, a dover contraddire con elementi di segno antitetico quanto emergente incisivamente dal corredo istruttorio. Giova soggiungere che a travolgere d’inammissibilità le due censure ora in esame è il tentativo velleitario di rivalutare le prove. La CTR ha compiuto un accertamento di fatto, mettendo in risalto, nel proprio libero sindacato, gli elementi di prova che sono parsi ad essa più attendibili. Come chiarito da questa Corte spetta unicamente al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di
contro
llarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, assegnando prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, nonché la facoltà di escludere anche attraverso un giudizio implicito la rilevanza di una prova, dovendosi ritenere, a tal proposito, che egli non sia neppure tenuto ad esplicitare, per ogni mezzo istruttorio, le ragioni per cui lo ritenga irrilevante (Cass., 13 giugno 2014, n. 13485; Cass., 15 luglio 2009, n. 16499). I due motivi di ricorso tralignano, pertanto, il recinto del vizio da ciascuno di esse denunciato, mirando -attraverso una riedizione qui preclusa del sindacato sulle prove -ad una più appagante rivisitazione del merito della controversia.
Con il quarto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione dell’art. 42 del DPR n. 600/73 e 97 Cost., per avere la CTR confermato la legittimità dell’avviso di accertamento in questione sebbene affetto da difetto di motivazione.
Il quarto motivo è infondato.
Questa Corte ha affermato che ai sensi dell’art. 42 d.P.R. n. 600 del 1973, la motivazione dell’avviso di accertamento esige – oltre alla puntualizzazione degli estremi soggettivi e oggettivi della posizione creditoria -soltanto l’indicazione di fatti astrattamente giustificativi, idonei a delimitare l’àmbito delle ragioni adducibili dall’ufficio nell’eventuale fase contenziosa, restando affidate al giudizio di impugnazione dell’atto le questioni riguardanti l’effettivo verificarsi dei fatti medesimi e la loro idoneità a sostenere la pretesa impositiva (Cass. 21 novembre 2001, n. 14700; Cass. 11 novembre 2011, n. 23615; Cass. 26290 del 2016; Cass. n. 28061 del 2017).
In tema di contenzioso tributario, l’avviso di accertamento soddisfa l’obbligo di motivazione, ai sensi degli artt. 42 del d.P.R. n. 600 del
1973 e 56 del d.P.R. n. 633 del 1972, ogni qualvolta l’Amministrazione abbia posto il contribuente in grado di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali e, quindi, di contestarne efficacemente l'” an ” ed il ” quantum debeatur “, sicché lo stesso è correttamente motivato quando fa riferimento ad un processo verbale di constatazione regolarmente notificato o consegnato all’intimato, senza che l’Amministrazione sia tenuta ad includervi notizia delle prove poste a fondamento del verificarsi di taluni fatti o a riportarne, sia pur sinteticamente, il contenuto (cfr., ex multis , Cass. n. 27800 del 2019).
Con il quinto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 4 c.p.c., la violazione del principio del ne bis in idem sancito dal protocollo n. 7, art. 4 della CEDU, essendo stato NOME COGNOME quale amministratore di fatto già sottoposto a procedimento penale presso la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli per gli stessi fatti oggetto del giudizio tributario. Il quinto motivo è inammissibile.
Innanzitutto, il motivo pecca di un vizio di carenza di specificità e autosufficienza, in quanto neppure precisa l’esito del procedimento penale che addita.
Come questa Corte ha precisato, il ricorso per cassazione, per il principio di autosufficienza, deve contenere in sé tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito e, altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi o atti attinenti al pregresso giudizio di merito, sicché il ricorrente ha l’onere di indicarne specificamente, a pena di inammissibilità, oltre al luogo in cui ne è avvenuta la produzione, gli atti processuali ed i documenti su cui il ricorso è fondato mediante la riproduzione diretta del contenuto che sorregge la censura oppure attraverso la riproduzione indiretta di esso con specificazione della parte del
documento cui corrisponde l’indiretta riproduzione (Cass., 15 luglio 2015, n. 14784; Cass., 27 luglio 2017, n. 18679; Cass., Sez. U., 27 dicembre 2019, n. 34469).
Agli oneri di specificità e autosufficienza il ricorrente non ha ottemperato. L’osservanza dei rammentati principi avrebbe imposto, nel caso in esame, l’onere per il ricorrente di specificare il contenuto dell’epilogo del procedimento penale, la cui mancata rappresentazione impedisce la necessaria verifica dell’astratta idoneità del motivo di ricorso ad incrinare il fondamento logico giuridico delle argomentazioni che sorreggono la decisione impugnata.
Il motivo è inammissibile anche su un differente versante. Invero, nel giudizio di legittimità non è possibile prospettate per la prima volta questioni nuove o temi nuovi d’indagini non compiute perché non richieste in sede di merito; poiché la questione sollevata non risulta trattata nella sentenza impugnata, il ricorrente, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità della censura in quanto nuova, aveva l’onere – in realtà non assolto di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, indicando, altresì, in quale atto del giudizio precedente lo avesse fatto, onde consentire a questa Corte di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione prima di esaminare, nel merito, la questione stessa (in tal senso, Cass. n. 10211 del 2015; nello stesso senso, Cass. sez. 6 – 5, Ordinanza n. 32804 del 13/12/2019; Cass. sez. 5, n. 40224 del 2021). Nella specie, non avendo il contribuente assolto l’onere di allegare in ricorso l’avvenuta deduzione della questione concernente l’assunta violazione del principio del ne bis in idem dinanzi al giudice di merito, non è dato a questa Corte ritenere compresa la stessa nel thema decidendum avanti al giudice di secondo grado.
In conclusione, il ricorso va rigettato.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.
P.Q. M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in euro 13.000,00 per compensi oltre spese prenotate a debito.
Dà atto, ai sensi dell’art.13 comma 1 quater D.P.R. n.115/2002, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma, il 26/06/2025.