Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 23148 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 23148 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 12/08/2025
Oggetto: Tributi
Violazioni tributarieSanzioni- amministratore di fatto di società di capitaliresponsabilità-
ORDINANZA
Sul ricorso iscritto al numero 15885 del ruolo generale dell’anno 2016, proposto
Da
NOME COGNOME rappresentato e difeso, giusta procura speciale a margine del ricorso, da ll’ Avv.to NOME COGNOME elettivamente domiciliato in Roma, INDIRIZZO presso RAGIONE_SOCIALE;
-ricorrente-
Contro
Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso l’Avvocatura Generale dello Stato che le rappresenta e difende;
-controricorrente – per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania n. 11817/47/2015, depositata in data 22.12.2015;
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 26 giugno 2025 dal Consigliere NOME COGNOME di Nocera;
RILEVATO CHE
NOME COGNOME propone ricorso, affidato a dodici motivi (di cui uno in via preliminare), per la cassazione della sentenza indicata in epigrafe con cui la Commissione tributaria regionale della Campania aveva rigettato l’appello proposto nei confronti d ell’Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, avverso la sentenza n. 25598/23/2014 della Commissione Tributaria Provinciale di Napoli che aveva rigettato il ricorso proposto dal suddetto contribuente avverso avviso di accertamento emesso nei confronti di RAGIONE_SOCIALE e notificato a quest’ultimo, quale coobbligato nella qualità di assunto amministratore di fatto della società, per il mancato pagamento delle imposte (Ires, Irap e Iva) – oltre interessi e sanzioni – accertate, a seguito di p.v.c. della G.d.F. di Torre Annunziata, con metodo induttivo, in mancanza di presentazione del M.U. 2011, per il 2010, essendo emerso in capo alla società il ruolo di cd . cartiera nell’ambito di un sistema di frode carosello nel campo dei prodotti elettronici.
In punto di diritto, per quanto di interesse, la CTR ha osservato che: 1) era infondata l’eccezione di insufficiente motivazione dell’atto impositivo per relationem alle risultanze del p.v.c. della GdF, atteso che il contribuente aveva avuto piena contezza dei rilievi avendo ricevuto regolare notifica del p.v.c. e non avendo l’Ufficio fatto un ‘acritico’ riferimento ad esso ma azionato un procedimento istruttorio al cui esito aveva emesso l’avviso adeguatamente
motivato ai sensi dell’art. 39, comma 2, e 41 del DPR n. 600/73 , stante la emersa inattendibilità della contabilità societaria, per omessa tenuta della documentazione e delle scritture contabili oltre alla mancata presentazione della dichiarazione dei redditi; 2) infondata era la censura concernente la mancanza di prove per sostenere in capo a NOME COGNOME la qualità di amministratore di fatto, atteso che ‘ dalle risultanze istruttorie della Guardia di finanza, dalle indagini finanziarie e dalle dichiarazioni di terzi era emerso che la società RAGIONE_SOCIALE aveva svolto la funzione di cartiera nell’ambito delle frodi carosello e il sig. NOME COGNOME era risultato amministratore di fatto della stessa società ‘; al riguardo, le dichiarazioni di terzo raccolte da verificatori o finanzieri e inserite, anche per riassunto, nel processo verbale di constatazione, a sua volta recepito nell’avviso di accertamento, avevano il valore indiziario di mere informazioni acquisite nell’ambito di indagini amministrative, ed erano, pertanto, utilizzabili dal giudice quale elemento di convincimento anche se non assunte o verbalizzate in contraddittorio con il contribuente (è richiamata Cass. n. 3526 del 2002); il contribuente non aveva offerto elementi validi a confutare le dichiarazioni di NOME COGNOME e non aveva contestato nel merito i rilie vi mossi dall’Ufficio in ordine alla frode commessa dalla società.
Resiste, con controricorso, l’Agenzia delle entrate.
Il contribuente ha depositato memoria illustrativa.
CONSIDERATO CHE
Il primo motivo è formulato: ‘ in via preliminare: la esatta individuazione del thema decidendum. Anticipazione e trattazione (in questa fase) congiunta dei motivi di ricorso inerenti il difetto di motivazione dell’atto impugnato e la carenza di qualsiasi fonte legale che preveda obblighi fiscali in capo al ricorrente per le imposte e le sanzioni accertate nei confronti della società RAGIONE_SOCIALE di cui era stato considerato, immotivatamente e senza prove, amministratore di fatto’.
1.1. Premesso che il ricorso per cassazione deve, a pena di inammissibilità, essere articolato su specifici motivi dotati dei caratteri della specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata (ex multis, Cass. n. 13830 del 2004; Cass. n. 25044 del 2013; Cass. n. 21638 del 2016), con il ‘primo motivo’ il contribuente, lungi dal formulare una specifica censura individua, in via preliminare, il thema decidedum , anticipando la trattazione dei motivi (a seguire) con cui vengono denunciati, sotto vari profili, il difetto di motivazione dell’atto impositivo e la carenza di una fonte legale che possa determinare l’imputazione in capo allo stesso della corresponsabilità, in quanto assunto amministratore di fatto della società, per le obbl igazioni tributarie e sanzionatorie di quest’ultima.
Con il secondo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., l’omessa pronuncia in ordine alle censure – riproposte in appello concernenti: 1) l’assunto difetto di motivazione dell’avviso accertamento per mancata indicazione delle ragioni di fatto (con quali attività si sia manifestato l’esercizio dell’amministrazione d fatto da parte di COGNOME) e di diritto (in base a quale norma l’COGNOME dovrebbe rispondere per conto della società) atte a giustificare la pretesa coobbligazi one di NOME COGNOME nonché 2) l’assenza di una disposizione normativa che preveda la traslazione degli obblighi tributari e sanzionatori di una società di capitali in capo all’amministratore (di fatto e/o di diritto) della stessa.
2.1. Il motivo è infondato.
2.2. Costituisce violazione della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, e configura il vizio di cui all’art. 112 cod. proc. civ., l’omesso esame di specifiche richieste o eccezioni fatte valere dalla parte e rilevanti ai fini della definizione del giudizio, che va fatto valere ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4 cod. proc. civ. (Cass. n. 22759 del 2014; n. 6835 del 2017; Cass. 28580 del 2021); in particolare, il vizio di omessa pronuncia ricorre quando vi sia omissione di qualsiasi decisione su un capo della domanda, intendendosi per capo di domanda ogni richiesta delle parti che abbia un contenuto concreto formulato in conclusione specifica, sulla quale deve essere emessa pronuncia di accoglimento
o di rigetto (Cass. n. 27566 del 2018; n. 28308 del 2017; n. 7653 del 2012); n ella sentenza impugnata la CTR ha espressamente rigettato l’eccezione di insufficiente motivazione per relationem dell’avviso impugnato affermando che ‘ il contribuente aveva avuto piena contezza dei rilievi avendo ricevuto regolarmente notificato il p.v.c.’, ovvero il processo verbale di constatazione della GdF recante l’indicazione 1) degli elementi posti a sostegno dell’accertamento induttivo nei confronti di RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE.rRAGIONE_SOCIALE dei maggiori ricavi ai fini Ires, Irap e Iva, essendo risultata società c.d. cartiera nell’ambito di un sistema di c.d. frode carosello nel campo dei prodotti elettronici, nonché 2) del titolo giuridico dell’assunta coobbligazione in capo a NOME COGNOME costituito dalla qualificazione dello stesso come amministratore di fatto della società medesima (v. stralci dell’avviso e del p.v.c pagg. 8 -13 del ricorso), come emersa in base alle ‘risultanze istruttorie della Guardia di Finanza’, alle ‘indagini fi nanziarie’ e alle dichiarazioni di terzi (rag. NOME COGNOME e COGNOME) (v. pag. 2 della sentenza impugnata).
Con il terzo motivo nell’ipotesi di ritenuto rigetto implicito delle censure di cui al secondo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione dell’art. 42 del DPR n. 600/73 e 56, comma 5, del DPR n. 633/72 per ave re la CTR confermato la legittimità dell’avviso di accertamento in questione sebbene affetto da difetto di motivazione, non esplicando alcun titolo giuridico in ordine alla riferibilità delle pretese – relative alle obbligazioni socialinei confronti di NOME Esposito qualificato amministratore di fatto e, pertanto, coobbligato solidale.
3.1. Il motivo è infondato.
3.2.Questa Corte ha affermato che, ai sensi dell’art. 42 d.P.R. n. 600 del 1973, la motivazione dell’avviso di accertamento esige – oltre alla puntualizzazione degli estremi soggettivi e oggettivi della posizione creditoria -soltanto l’indicazione di fatti astrattamente giustificativi, idonei a delimitare l’àmbito delle ragioni adducibili dall’ufficio nell’eventuale fase contenziosa, restando affidate al giudizio di impugnazione dell’atto le questioni riguardanti l’effettivo verificarsi
dei fatti medesimi e la loro idoneità a sostenere la pretesa impositiva (Cass. 21 novembre 2001, n. 14700; Cass. 11 novembre 2011, n. 23615; Cass. 26290 del 2016; Cass. n. 28061 del 2017).
3.3.In tema di contenzioso tributario, l’avviso di accertamento soddisfa l’obbligo di motivazione, ai sensi degli artt. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 56 del d.P.R. n. 633 del 1972, ogni qualvolta l’Amministrazione abbia posto il contribuente in grado di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali e, quindi, di contestarne efficacemente l'”an” ed il “quantum debeatur”, sicché lo stesso è correttamente motivato quando fa riferimento ad un processo verbale di constatazione regolarmente notificato o consegnato all’intimato, senza che l’Amministrazione sia tenuta ad includervi notizia delle prove poste a fondamento del verificarsi di taluni fatti o a riportarne, sia pur sinteticamente, il contenuto (cfr., ex multis, Cass. n. 27800 del 2019).
3.4.Nella sentenza impugnata la CTR ha fatto buon governo dei suddetti principi di diritto nel ritenere infondata l’eccezione di difetto di motivazione ( per relationem ) dell’avviso impugnato in quanto, nel caso di specie, il contribuente ‘aveva avuto piena contezza dei rilievi avendo ricevuto regolarmente notificato il p.v.c. ‘; la sufficienza motivazionale dell’avviso in questione trova riscontro nell’atto impositivo e nel richiamato p.v.c. della G.d.F., in ossequio al principio di autosufficienza, allegati n.n. 2 e 3 al ricorso (‘ Al sig. COGNOME COGNOME in qualità di amministratore di fatto’…. ‘la società verificata è risultata svolgere la funzione di società cartiera nell’ambito di un sistema di frode nel campo dei prodotti elettronici posto in essere da una organizzazione criminosa dedita alla commissione di reati tributari finalizzati all’evasione delle imposte dirette e indirette c.d. frodi carosello; la società non è più in essere presso le sedi indicate in A.T.; la disamina degli atti posti in essere dalla FOX IMPORT è
stata condotta con l’assistenza del sig. NOME NOME nella sua qualità di amministratore di fatto come emerso da dichiarazioni rese in data 6.10.2010 dal rag. NOME NOMEla parte ai fini del controllo contabile non era stata in grado di esibire alcuna scrittura obbligatoria contabile.. ha omesso la presentazione delle previste dichiarazioni annuali ai fini II.DD- IRAP e IVA e a provvedere ai relativi versamenti.. i verificatori al fine di ricostruire il reale volume di affari della società in mancanza di contabilità fiscale si sono avvalsi di indagini finanziarie .. nei confronti della società e dei suoi legali rappresentanti pro tempore’ pag. 3 dell’avviso di accertamento; ..è emerso che la società RAGIONE_SOCIALE è risultata svolgere la fu nzione di società cartiera nell’ambito di un articolato sistema di frode carosello nel settore dei prodotti elettronici.. è presente in qualità di parte NOME NOMECOGNOME nella sua qualità di amministratore di fatto.. dalle dichiarazioni rese durante l’in terrogatorio del rag. COGNOME Ferdinando il quale evidenziava in merito.. la RAGIONE_SOCIALE deve essere ricondotta al fratello di NOME NOME, ovvero NOME NOME .. confermo che la sede di Napoli in INDIRIZZO è una mera domiciliazione a pagamento. La società è stata gestita in tutto da COGNOME NOME pagg. 1-4 del p.v.c. della GdF del Nucleo operativo- Gruppo di Torre Annunziata ‘ ).
Con il quarto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione delle norme che disciplinano i presupposti di imposta, ai fini Ires, Irap e Iva, per avere la CTR, nel confermare la legittimità dell’avviso di accertamento in questione, erroneamente riconosciuto realizzato, in capo a NOME COGNOME il presupposto di imposta soltanto in quanto quest’ultimo era stato -e sempre nel caso fosse dimostrata tale qualità – amministratore di fatto di RAGIONE_SOCIALE, laddove nessuna norma prevedeva una responsabilità, tantomeno a titolo di solidarietà, a carico dell’amministratore di società di capitali, essendo quest’ultima unico soggetto passivo d’imposta.
Con quinto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione dell’art. 7 del d.l. n. 269/2003 conv. dalla legge n. 326/2003, per avere la CTR, nel confermare la legittimità dell’avviso impugnato, ritenuto
NOME COGNOME responsabile anche per gli obblighi sanzionatori della società di capitali per il solo fatto di essere stato -e sempre nell’ipotesi fosse dimostrata tale qualità – amministratore di fatto di RAGIONE_SOCIALE sebbene tale responsabilità s ia posta esclusivamente a carico del soggetto passivo d’imposta ai sensi dell’art. 7 cit .
6.I motivi quarto e quinto sono da trattare congiuntamente per connessione.
6.1. Il quarto motivo si espone, in primo luogo, ad un profilo di inammissibilità, per mancata indicazione delle norme di legge di cui si è dedotta la violazione. Ed invero, in tema di ricorso per cassazione, l’onere di specificità dei motivi, sancito dall’art. 366, comma primo, n. 4, cod. proc. civ., impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all’art. 360, comma primo, n. 3, cod. proc. civ., a pena d’inammissibilità della censura, di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare – con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni – la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa (Cass., Sez. U., 28 ottobre 2020, n. 23745).
6.2.Nel merito, i motivi sono, comunque, sono infondati.
6.3.Questa Corte ha precisato che l’applicazione della norma eccezionale introdotta dall’art. 7 del d.l. n. 269 del 2003 presuppone che la persona fisica, autrice della violazione, abbia agito nell’interesse e a beneficio della società rappresentata o amministrata, dotata di personalità giuridica, poiché solo la ricorrenza di tale condizione giustifica il fatto che la sanzione pecuniaria, in deroga al principio personalistico, non colpisca l’autore materiale della violazione ma sia posta in via esclusiva a carico del diverso soggetto giuridico (società dotata di personalità giuridica) quale effettivo beneficiario delle violazioni tributarie commesse dal proprio rappresentante o amministratore; viceversa,
« qualora risulti che il rappresentante o l’amministratore della società con personalità giuridica abbiano agito nel proprio esclusivo interesse, utilizzando l’ente con personalità giuridica quale schermo o paravento per sottrarsi alle conseguenze degli illeciti tributari commessi a proprio personale vantaggio », viene meno la ratio giustificatrice dell’applicazione dell’art. 7 del d.l. n. 269 del 2003, diretto a sanzionare la sola società con personalità giuridica, dovendo essere ripristinata la regola generale secondo cui la sanzione amministrativa pecuniaria colpisce la persona fisica autrice dell’illecito; «In tal caso, la persona fisica che ha agito per conto della società è, al contempo, trasgressore e contribuente, e la persona giuridica è una mera ‘fictio’, creata nell’esclusivo interesse della persona fisica» (Cass. n. 28332 del 7/11/2018; Cass. n. 10975 del 18/04/2019; Cass. n. 32594 del 12/12/2019; Cass. n. 25757 del 13/11/2020; Cass. n. 29038 del 20/10/2021). Si è osservato, peraltro, che tale ragionamento non riguarda solo il profilo sanzionatorio in senso stretto, il quale, anzi, costituisce un aspetto ulteriore, un posterius , rispetto alla pretesa sostanziale e al debito tributario. È evidente, infatti, che se l’amministratore di fatto ha utilizzato lo schermo sociale nel suo esclusivo interesse sorge la presunzione che pure dei proventi dell’attività egli abbia tratto esclus ivo beneficio (Cass.,sez. 5, n. 1358 del 2023).
6.4.Deve darsi continuità a questo orientamento, formatosi con riguardo in particolare all’amministratore di fatto, che coglie un dato innegabile, ossia che, in tali ipotesi, esiste un soggetto che governa uti dominus la società di capitali, il quale fa proprie le attività, i redditi e i proventi dell’ente, cui lascia la formale responsabilità e l’onere delle imposte, non assolte. Questa Corte, peraltro, ha puntualizzato che la ratio di questa soluzione non può poggiare sulla considerazione della società come mera fictio , priva dunque di realtà giuridica (Cass. n. 23231 del 2022), perché si impone una lettura restrittiva dei casi di nullità della società, a nessuno dei quali è riconducibile la simulazione (Cass. n. 22560 del 2015; Cass. n. 20888 del 2019); si è precisato, a questo proposito, che la società, quale «nuovo autonomo soggetto giuridico, una volta iscritto nel registro delle imprese, agisce coinvolgendo terzi a prescindere dalla volontà
effettiva, vive di vita propria ed opera compiendo la propria attività per realizzare lo scopo sociale, a prescindere dall’intento preordinato dei suoi fondatori» (Cass. n. 29700 del 2019). Ferma, dunque, l’effettività della società di capitali al di là del proposito dei soci e ideatori di realizzare con essa un mero schermo rispetto ad eventuali attività illecite -va esaminato se, e a quali condizioni e limiti, in una situazione come quella in considerazione, l’Amministrazione finanziaria possa imputare ad un diverso soggetto i redditi maturati dall’ente e le relative imposte.
6.5.Il meccanismo che, nel nostro ordinamento, mira a riallineare l’attività svolta da un altro soggetto sull’effettivo percettore dei redditi è quello previsto dall’art. 37, terzo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973 che dispone: «In sede di rettifica o di accertamento d’ufficio sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona». Per la sua ampia latitudine, l’applicazione di questa norma non è limitata dalla tipologia di reddito oggetto di accertamento e, dunque, si estende anche al reddito d’impresa e all’ipotesi in cui l’interposto sia una società di capitali, salva la necessaria specifica verifica della relazione di fatto tra contribuente e reddito per operare la traslazione del reddito d’impresa prodotto all’effettivo titolare. Si è, quindi, affermato che «in tema di accertamento sulle imposte dirette e sull’Iva, nei confronti del sog getto che abbia gestito uti dominus una società di capitali si determina, ai sensi dell’art. 37, terzo comma, d.P.R. n. 600 del 1973, la traslazione del reddito d’impresa, e delle relative imposte, in quanto effettivo possessore del reddito della società interposta; inoltre, in tale ipotesi, tra i due soggetti si instaura un rapporto di mandato senza rappresentanza, dove il mandatario è il gestore uti dominus e la mandante è la società, sicché, ove le prestazioni di servizi cui il primo abbia partecipato per conto della seconda siano soggette a IVA, pure il rapporto giuridico tra il mandatario e la società interposta è soggetto all’IVA; a tali fini incombe sull’Amministrazione finanziaria l’onere di provare, anche solo in via indiziaria, il totale asservimen to della società interposta all’interponente, spettando quindi al
contribuente l’onere di fornire la prova contraria dell’assenza di interposizione ovvero della mancata percezione dei redditi del soggetto interposto» (Cass. n. 23231 del 2022). Questo inquadramento ha immediate conseguenze anche sul piano sanzionatorio. L ‘irrogazione delle sanzioni, difatti, trova il suo diretto riferimento nella condotta dell’interponente, il quale è sanzionato in proprio, in relazione all’avvenuta traslazione del reddito e dei relativi tributi dell’ente collettivo, con conseguente imputazione anche delle condotte evasive. La fattispecie è esterna al perimetro dell’art. 7 d.l. n. 269 del 2003 perché il rapporto fiscale che viene in considerazione non è quello, previsto dalla citata norma, «proprio di società o enti con personalità giuridica» ma, in conseguenza della traslazione del reddito all’effettivo possessore ex art. 37, terzo comma, d.P.R. n. 600 del 1970, quello specifico e proprio dell’interponente. Il contribuente non riveste, in questo caso, la posizione di amministratore ma è l’e ffettivo possessore dei redditi formalmente intestati alla società come se fossero stati da lui prodotti, sicché assume rilievo, anche per tale versante, il suo rapporto fiscale, con le correlate sanzioni per gli inadempimenti e le violazioni che lo caratterizzano, e non quello della società (Cass. sez. 5 n. 33434 del 2022).
6.6.Posto quanto sopra, questa Corte ha precisato che nell’ipotesi – come nella specie – di società “cartiera”, della quale ne sia stata accertata l’inesistenza, per assenza degli elementi essenziali allo svolgimento dell’attività economica (locali in cui esercitare l’attività commerciale, personale, strumentazione, ecc.), è agevole ritenere che, in via presuntiva e secondo l’id quod plerumque accidit , l’amministratore di fatto abbia direttamente incamerato i proventi dell’evasione fiscale addebitabile a ll’ente e che, conseguentemente, spetti all’amministratore stesso fornire la prova contraria (Cass. n. 36003 del 2021; Cass. Sez. 5, Sentenza n. 1946 del 2023).
6.7.Venendo allora, al caso di specie, dalla sentenza impugnata – confermativa della sentenza di primo grado – si evince che il ricorrente era stato ritenuto responsabile per le obbligazioni tributarie e sanzionatorie della società quale
amministratore di fatto di RAGIONE_SOCIALE, risultata, a seguito delle indagini della Gdf, società “RAGIONE_SOCIALE” (per mancanza di sede sociale risultando quella in Napoli… una mera domiciliazione di pagamento; mancanza di strutture contabili obbligatorie; omessa presentazione delle dichiarazioni fiscali, mancanza di F24 attestanti i versamenti) con conseguente presunzione di costituzione della stessa quale schermo delle attività illegali dell’effettivo dominus e sostanziale imputabilità all’amministratore d i fatto della responsabilità ex art. 37, terzo comma, d.P.R. n. 600 del 1970, quale effettivo possessore del reddito della società interposta, con estraneità della fattispecie (sotto il profilo sanzionatorio) al perimetro dell’art. 7 d.l. n. 269 del 2003 .
7 .Con il sesto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., la violazione dell’art. 36, comma 2, n. 4 del d.lgs. n. 546/92, per avere CTR rigettato, con una motivazione apparente, la censura – riproposta in sede di gravame – di acritico rinvio dell’avviso di accertamento al contenuto del p.v.c. della G.d.F., per cui l’atto impositivo, a prescindere dalle lacune motivazionali, non era sostanzialmente espressione dell’Ufficio, titolare del potere di accertamento, che l’aveva emanato, avendo gli organi di polizia ‘usurpato’ poteri a loro non appartenenti. In particolare, ad avviso del ricorrente, la motivazione adottata sul punto dal giudice di appello sarebbe omessa e/o apparente non essendo state esplicitate le ragioni per le quali l’U fficio aveva condiviso le conclusioni del p.v.c.
7.1. Il motivo è infondato.
7.2. Premesso che, come precisato da questa Corte, « ricorre il vizio di omessa o apparente motivazione della sentenza allorquando il giudice di merito ometta ivi di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero li indichi senza un’approfondita loro disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento » (Cass. n. 9105 del 07/04/2017; Cass. 25456 del 2018; n. 26766 del 2020; Cass., sez. 5, n. 2392 del 2024), nella specie, la CTR ha rigettato la censura di difetto di motivazione per relationem dell’avviso per avere recepito i
contenuti del p.v.c. della G.d.F. in modo acritico, senza apposita valutazione della idoneità degli stessi a sorreggere l’accertamento , affermando che ‘ l’Ufficio non aveva fatto acritico riferimento ad esso ma aveva azionato un procedimento istruttorio al cui esito aveva emesso l’atto adeguatamente motivato ex art. 39, comma 2, e 41 del d.P.R. n. 600/73… nel caso di specie, l’accertamento era stato emesso in virtù di una contabilità inattendibile in quanto era stata contestata alla società l’omessa tenuta della documentazione e delle scritture contabili oltre che la mancata presentazione della dichiarazione dei redditi. ‘. La motivazione è pertanto conforme al ‘minimo costituzionale’ di cui all’art. 111, sesto comma, Cost. (cfr. Cass., Sez. U, 07/04/2014, n. 8053, nonché, ex multis: Cass., 07/04/2021, n. 9288; Cass., 30/06/2020, n. 13248 Sez. 5, Ordinanza n. 15889 del 2024).
8 . Con il settimo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione degli artt. 42 d.P.R. n. 600/73 e 97 Cost. per avere la CTR confermato la legittimità dell’avviso impugnato ancorché difettasse la suitas dell’accertamento riferita all’Ufficio finanziario, avendo quest’ultimo motivato lo stesso con un mero rinvio agli atti degli organi di polizia senza alcuna autonoma valutazione di questi ultimi; tanto più che, nella specie, era mancato il contraddittorio endoprocedimentale con il contribuente pur trattandosi (tra l’altro) di recuperi Iva.
8.1. Il motivo è infondato.
8.2.Questa Corte, con orientamento consolidato, ha ribadito che la motivazione ” per relationem ” con rinvio alle conclusioni contenute nel verbale redatto dalla Guardia di Finanza nell’esercizio dei poteri di polizia tributaria, non è illegittima per mancanza di autonoma valutazione da parte dell’Ufficio degli elementi da quella acquisiti, significando semplicemente che l’Ufficio stesso, condividendone le conclusioni, ha inteso realizzare una economia di scrittura che, avuto riguardo alla circostanza che si tratta di elementi già noti al contribuente, non arreca alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio (cfr., ex multis , Cass. n. 32957 del 2018; Cass. sez. 5, ord. Sez. 5, Ordinanza n. 28135 del 2023). Tale
motivazione è quindi sufficiente ad individuare la causa giustificativa del recupero a tassazione in relazione al contenuto dell’atto richiamato ed a porre il contribuente in grado di adeguatamente spiegare le proprie difese, sia negando i fatti costitutivi della pretesa fiscale, sia contrastando le risultanze dell’atto impositivo mediante acquisizione di ulteriore documentazione e di altri elementi probatori idonei a dimostrare la insussistenza della pretesa fiscale, dovendosi, al riguardo, distinguere net tamente la questione relativa all’esistenza della motivazione dell’atto impositivo, quale “requisito formale di validità” dell’avviso di accertamento (art. 7 legge n. 212/2000), dalla questione attinente, invece, alla indicazione ed effettiva sussistenza di elementi dimostrativi dei fatti costitutivi della pretesa tributaria (Cass. 17/1/1997, n. 459; n. 5/6/1998 n. 5544), che non è richiesta quale elemento costitutivo della validità dell’atto impositivo e che rimane disciplinata dalle regole processuali proprie della istruzione probatoria che trovano applicazione nello svolgimento del giudizio introdotto dal contribuente con il ricorso di opposizione all’atto impositivo (Cass. n. 8399 del 5/4/2013; Cass. n. 32957 del 20/12/2018 e, più recentemente, Cass. n. 19984 del 2023; Sez. 5, Ordinanza n. 28135 del 2023).
8.3.Nella sentenza impugnata la CTR ha ben governato i principi sopra richiamati nel rigettare la censura di carente motivazione ( per relationem ) dell’avviso impugnato in quanto l’Ufficio non aveva effettuato un ‘acritico’ riferimento al p.v.c. ma, facendo proprie le risultanze delle indagini della GdF, aveva emesso l’atto impositivo ‘adeguatamente motivato ex artt. 39, comma 2, e 41 del d.PR n. 6 00/73’ , ricostruendo induttivamente il maggior reddito di impresa della società stante la (assoluta) inattendibi lità della contabilità ‘per omessa tenuta della documentazione e delle scritture contabili, oltre alla mancata presentazione della dichiarazione dei redditi’. Eccentrica rispetto alla censura di difetto di motivazione ( per relationem ) dell’atto impositivo è poi la dedotta violazione dell’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale con la quale si introduce inammissibilmente una questione nuova; al riguardo, costituisce, principio consolidato quello per cui in tema di ricorso per cassazione, qualora siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, il
ricorrente deve, a pena di inammissibilità della censura, non solo allegarne l’avvenuta loro deduzione dinanzi al giudice di merito ma, in virtù del principio di autosufficienza, anche indicare in quale specifico atto del giudizio precedente ciò sia avvenuto, giacché i motivi di ricorso devono investire questioni già comprese nel thema decidendum dei precedenti gradi di giudizio, essendo preclusa alle parti, in sede di legittimità, la prospettazione di questioni o temi di contestazione nuovi, non trattati nella fase di merito né rilevabili di ufficio (Cass., Sez. 2, 9.8.2018, n. 20694, Rv. 650009-01; Cass. 27260 del 2023).
9 .Con l’ottavo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c. nonché dell’art. 2697 c.c. per avere la CTR fondato la asserita responsabilità (solidale) per le obbligazioni tributarie e sanzionatorie di RAGIONE_SOCIALE in capo a NOME COGNOME quale amministratore di fatto della società, sulla base di una doppia presunzione (accertando presuntivamente il maggior reddito della società e poi imputando, alla luce di un ulteriore ragionamento presunt ivo, il recupero di imposte e sanzioni all’COGNOME, quale amministratore di fatto di quest’ultima), laddove, invece, la legittimità della imputabilità a ll’ COGNOME di tale responsabilità avrebbe dovuto essere verificata sulla base delle norme del codice civile che vietano l’utilizzo di presunzioni semplici, consentite invece dall’art. 39, comma 2, del d.P.R. n. 600/73; in particolare, ad avviso del ricorrente, il giudice di appello avrebbe ritenuto COGNOME amministratore di fatto della società sulla base di elementi indiziari privi dei caratteri di gravità, precisione e concordanza, fondandosi sostanzialmente (essendo il riferimento alle ‘risultanze istruttorie’ e alle ‘indagini finanziarie’ privo di alcuna indicazione circa gli esiti e i contenuti delle risultanze e/o indagini medesime) soltanto sulle dichiarazioni di COGNOME prive di valenza indiziaria in mancanza di riscontri obiettivi- e senza, peraltro, pronunciarsi sull’eccezione riproposta in appello di inattendibilità in concreto delle medesime (potendo il COGNOME essere possibile ‘indiziato’ di ingerenza nella gestione societaria); inoltre, la CTR avrebbe erroneamente affermato che l’appellante non aveva offerto elementi validi a confutare quanto sostenuto dal terzo COGNOME, sebbene fosse onere dell’Ufficio provare la fondatezza della
pretesa fiscale nei confronti del contribuente, salvi i casi di inversione dell’onere della prova, nella specie, non configurabili.
9.1. Il motivo si profila inammissibile.
9.2.Quanto al censurato malgoverno del materiale probatorio da parte del giudice di merito, è pacifico che competa alla Corte di cassazione, nell’esercizio della funzione nomofilattica, il controllo della corretta applicazione dei principi contenuti nell’art. 2729 c.c. alla fattispecie concreta, poiché se è devoluta al giudice di merito la valutazione della ricorrenza dei requisiti enucleabili dagli artt. 2727 e 2729 c.c., per valorizzare gli elementi di fatto quale fonte di presunzione, tale giudizio è soggetto al controllo di legittimità se risulti che, violando i criteri giuridici in tema di formazione della prova critica, il giudice non abbia fatto buon uso del materiale indiziario disponibile, negando o attribuendo valore a singoli elementi, senza una valutazione di sintesi (cfr. Cass., sez. 5, ord. 19352 del 2018, Cass., sez. 6-5, n. 10973/2017, Cass., sez. 5, n. 1715/2007). Infatti, qualora il giudice di merito sussuma erroneamente sotto i tre caratteri individuatori della presunzione (gravità, precisione e concordanza) fatti concreti che non sono invece rispondenti a quei requisiti, il relativo ragionamento è censurabile in base all’art. 360, n. 3, c.p.c. (e non già alla stregua del n. 5 dello stesso art. 360), competendo alla Corte di cassazione, nell’esercizio della funzione di nomofilachia, controllare se la norma dell’art. 2729 c.c., oltre ad essere applicata esattamente a livello di proclamazione astratta, lo sia stata anche sotto il profilo dell’applicazione a fattispecie concrete che effettivamen te risultino ascrivibili alla fattispecie astratta (Sez. 3, Sentenza n. 19485 del 04/08/2017; Sez. 3, Sentenza n. 17535 del 26/06/2008). Ebbene, in ordine all’utilizzo degli indizi, mentre la gravità, precisione e concordanza degli stessi permette di acquisire una prova presuntiva che, anche sola, è sufficiente nel processo tributario a sostenere i fatti fiscalmente rilevanti, accertarti dalla amministrazione (Cass., sent. n. 1575/2007), quando manca tale convergenza qualificante è necessario disporre di ulteriori elementi per la costituzione della prova. La giurisprudenza di legittimità ha tracciato il corretto procedimento
logico del giudice di merito nella valutazione degli indizi, affermando che la gravità, precisione e concordanza richiesti dalla legge vanno ricavati dal loro complessivo esame, in un giudizio globale e non atomistico di essi (ciascuno dei quali può essere insufficiente), ancorché preceduto dalla considerazione di ognuno per individuare quelli significativi, perché è necessaria la loro collocazione in un contesto articolato, nel quale un indizio rafforza e ad un tempo trae vigore dall’altro in vicendevole c ompletamento (tra le più recenti cfr. Cass., sent. n. 12002/2017; Cass., ord. n. 5374/2017). Ciò che dunque rileva, in base a deduzioni logiche di ragionevole probabilità, non necessariamente certe, è che dalla valutazione complessiva emerga la sufficienza degli indizi, o anche di un solo significativo indizio, a supportare la presunzione semplice di fondatezza della pretesa, salvo l’ampio diritto del contribuente a fornire la prova contraria.
9.3. Peraltro, questa Corte ha precisato che il «divieto di doppie presunzioni» o «divieto di presunzioni di secondo grado o a catena» non è riconducibile né agli artt. 2729 e 2697 cod. civ. né a qualsiasi altra norma dell’ordinamento ben potendo il fatto noto accertato in base ad una o più presunzioni (anche non legali), purché “gravi, precise e concordanti”, ai sensi dell’art. 2729 cod. civ., legittimamente costituire la premessa di una ulteriore inferenza presuntiva idonea -in quanto, a sua volta adeguata -a fondare l’accertamento del fatto ignoto ( ex multis , Cass. sez. 5, n. 20748 del 2019; n. 15003 del 2017; Cass. n. 1289 e n. 9348 del 2015); in particolare, in tema di presunzioni, la prova inferenziale che sia caratterizzata da una serie lineare di inferenze, ciascuna delle quali sia apprezzata dal giudice secondo criteri di gravità, precisione e concordanza, fa sì che il fatto “noto” attribuisca un adeguato grado di attendibilità al fatto “ignorato”, il quale cessa pertanto di essere tale divenendo noto, ciò che risolve l’equivoco logico che si cela nel divieto di doppie presunzioni (Cass., sez. 5, n. 27982/2020; nello stesso senso, Cass. sez. 5, n. 23860 del 2020).
9 .4.La violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c. si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne è gravata secondo le regole dettate da quella norma, e non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, il giudice abbia errato nel ritenere che la parte onerata abbia assolto tale onere, poiché in questo caso vi è soltanto un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. (tra le altre, Cass. Sez. L, Sentenza n. 17313 del 19/08/2020; Cass. 23518 del 2018; Cass. n. 571 del 2017; n. 19064 del 2006, n. 15107 del 2013).
9.5. Nella specie, il motivo di ricorso, pur prospettando una violazione degli artt. 2727, 2729 e 2697 c.c., in realtà tende inammissibilmente ad una nuova interpretazione di questioni di merito, avendo la CTR – con una valutazione in fatto non sindacabile dinanzi al giudice di legittimità, nel rispetto dei criteri di formazione della prova presuntiva e senza violare il c.d. divieto di doppie presunzioni – desunto il ruolo in capo a NOME COGNOME di amministratore di fatto di RAGIONE_SOCIALE da una serie di elementi presuntivi – stimati gravi, precisi e concordanti (‘ dalle risultanze istruttorie della Guardia di Finanza, dalle indagini finanziarie e dalle dichiarazioni di terzi -rag. Di COGNOME NOME era emerso che la società RAGIONE_SOCIALE aveva svolto la funzione di cartiera nell’ambito delle frodi carose llo e il sig. COGNOME NOME era risultato l’amministratore di fatto della società ‘). In particolare, quanto alla valenza delle dichiarazioni rese da un terzo e acquisite dagli organi verificatori nel p.v.c. della G.d.F., cui rinviava l’atto impositivo in questione, questa Corte ha precisato che, nel processo tributario, il divieto di prova testimoniale posto dall’art. 7, decreto legislativo n. 546/1992, si riferisce alla prova testimoniale da assumere con le garanzie del contraddittorio e non implica, pertanto, l’impossibilità di utilizzare, ai fini della decisione, dichiarazioni che gli organi dell’amministrazione finanziaria sono autorizzati a richiedere anche ai privati nella fase amministrativa di accertamento che, proprio perchè assunte in sede extra processuale, rilevano quali elementi indiziari che possono concorrere a formare, unitamente ad altri
elementi, il convincimento del giudice” (Cass. civ., 16 maggio 2019, n. 13174; Cass. civ., 7 aprile 2017, n. n. 9080; v. anche Sez. 5, Ordinanza n. 28022 del 30/10/2024 ); si è, al riguardo, precisato che tali dichiarazioni hanno il valore probatorio proprio degli elementi indiziari e, qualora rivestano i caratteri di gravità, precisione e concordanza di cui all’art. 2729 cod. dv., danno luogo a presunzioni (Cass. civ., 20 aprile 2007, n. 9402); infatti, dal divieto di ammissione della prova testimoniale non discende la inammissibilità della prova per presunzioni, ai sensi dell’art. 2729, comma secondo, cod. civ., secondo il quale le presunzioni non si possono ammettere nei casi in cui la legge esclude la prova testimoniale – poichè questa norma, attesa la natura della materia ed il sistema dei mezzi di indagine a disposizione degli uffici e dei giudici tributari, non è applicabile nel contenzioso tributario (Cass. civ., 23 ottobre 2066, n. 22804; Cass. civ., 21 gennaio 2015, n. 960); infatti si è rilevato che, “nel pieno rispetto della “parità di armi” tra fisco e contribuente, il diritto vivente ammette l’introduzione indiziaria nel processo tributario di dichiarazioni rese da terzi in sede extra processuale (Corte Cost. 18 del 2000; Cass. n. 20028 del 30/9/2011), sebbene esse non siano assunte o verbalizzate in contraddittorio da nessuna norma richiesto” (Cass. civ., 5 dicembre 2012, n.21812), come precisato da questa Corte (Cass., sez. 5°, n. 24531 del 20/10/2019; Sez. 5, Sentenza n. 9903 del 27/05/2020; Sez. 5, Ordinanza, n. 17591 del 2021). A fronte della valenza indiziaria delle suddette dichiarazioni del rag. COGNOME -acquisite nel corso delle indagini dagli organi della polizia giudiziaria -e supportate da altri elementi presuntivi (risultanze istruttorie e indagini finanziarie) – la CTR ha poi precisato che ‘ l’appellante non aveva offerto elementi validi a confutare quanto sostenuto dal terzo sig.COGNOME e non aveva contestato nel merito i rilievi mossi dall’Ufficio accertatore in ordine alla truffa per evadere il fisco ‘.
10.Con il nono motivo si denuncia – in via subordinata qualora si ritenesse che la CTR abbia indicato un quadro probatorio idoneo a comprovare in capo a NOME COGNOME la qualifica di amministratore di fatto della società – in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., la violazione d egli artt. 36 del d.lgs.
n. 546/92 e 112 c.p.c. ‘per omessa motivazione e omessa pronuncia su due punti oggetti della precedente censura’, avendo il giudice di appello fatto riferimento per ritenere dimostrato il ruolo di amministratore di fatto della società in capo al contribue nte ad un ‘mosaico probatorio’ composto apparentemente da tre elementi (risultanze istruttorie; indagini difensive e dichiarazioni di COGNOME) senza descrivere i contenuti di tali ipotetici elementi probatori dando luogo ad una carenza di motivazione; peraltro, ad avviso del ricorrente, la CTR non si sarebbe pronunciata sull’eccezione di inammissibilità delle dichiarazioni e di inattendibilità del ‘teste’ limitandosi ad affermare il principio del mero valore indiziario delle dichiarazioni rese alla polizia tributaria.
10.1. Il motivo – che consta di due sub censure – è complessivamente infondato.
10.2. Quanto alla dedotta omessa motivazione, questa Corte ha precisato che si è in presenza di una tipica fattispecie di “motivazione apparente”, allorquando la motivazione della sentenza impugnata, pur essendo graficamente (e, quindi, materialmente) esistente e, talora, anche contenutisticamente sovrabbondante, risulta, tuttavia, essere stata costruita in modo tale da rendere impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento decisorio, e quindi tale da non attingere la soglia del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost. (tra le tante: Cass., Sez. 1^, 30 giugno 2020, n. 13248; Cass., Sez. 6^-5, 25 marzo 2021, n. 8400; Cass., Sez. 6^-5, 7 aprile 2021, n. 9288; Cass., Sez. 5^, 13 aprile 2021, n. 9627; Cass., sez. 6-5, 28829 del 2021). Si è precisato che ‘ è sufficiente quella motivazione che fornisce una spiegazione logica ed adeguata della decisione adottata, evidenziando le prove ritenute idonee a suffragarla, ovvero la carenza di esse, senza che sia necessaria l’analitica confutazione delle tesi non accolte o la disamina degli elementi di giudizio non ritenuti significativi ‘ ( Sez. 5, Ordinanza n. 7662 del 02/04/2020). Nella sentenza impugnata, la CTR ha ritenuto dimostrato il ruolo di amministratore di fatto di RAGIONE_SOCIALE in capo a NOME COGNOME in quanto ‘ dalle risultanze istruttorie della Guardia di finanza, dalle indagini
finanziarie e dalle dichiarazioni di terzi era emerso che la società RAGIONE_SOCIALE aveva svolto la funzione di cartiera nell’ambito delle frodi carosello e il sig. NOME COGNOME era risultato amministratore di fatto della stessa società ‘; invero, da una lettura complessiva della sentenza di appello si evince la specificazione del contenuto delle risultanze istruttorie della G.d.F., dalle quali -come già chiarito nella confermata sentenza del giudice di primo grado – e ra risultato che ‘ la RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE era società cartiera come dimostrato dalla mancanza di sede sociale risultando quella indicata in Napoli alla INDIRIZZO mera domiciliazione a pagamento; dalla mancanza delle scritture contabili obbligatorie, dall’omessa presentazione della dichiarazione ai fini delle imposte dirette, Iva e Irap, dalla mancanza di F24 attestanti versamenti;…. ne conseguiva che la reale figura del sig. NOME COGNOME non poteva che essere ricostruita attraverso le risultanze anche presuntive emerse alla Guardia di Finanza e quindi dalla dichiarazione resa dal rag. NOME COGNOME persona a conoscenza dei fatti per averne curato cessioni di quote e il cambio di denominazione senza mutamento del numero di partita Iva che lo indicava come persona alla quale faceva riferimento e gestore di fatto di essa’. Né il giudice del merito deve dare conto di ogni allegazione, risultando necessario e sufficiente, in base all’art. 132, n. 4, cod. proc. civ., che esponga, in maniera concisa, gli elementi in fatto ed in diritto posti a fondamento della sua decisione, e dovendo ritenersi per implicito disattesi tutti gli argomenti non espressamente esaminati (Cass., Sez. II, 25 giugno 2020, n. 12652; Cass., Sez. I, 26 maggio 2016, n. 10937; Cass., Sez. 6-1, 17 maggio 2013, n. 12123).
10.3. Quanto alla denuncia di omessa pronuncia, va ribadito che non ricorre vizio di omessa pronuncia su punto decisivo qualora la soluzione negativa di una richiesta di parte sia implicita nella costruzione logico-giuridica della sentenza, incompatibile con la detta domanda (v. Cass., Cass 998 del 2024; 18/5/1973, n. 1433; Cass., 28/6/1969, n.2355). Quando cioè la decisione adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte comporti necessariamente il rigetto di quest’ultima, anche se manchi una specifica argomentazione in proposito (v. Cass., 21/10/1972, n. 3190; Cass., 17/3/1971, n. 748; Cass.,
23/6/1967, n.1537); nella sentenza impugnata, la CTR nel ritenere dotate di valore indiziario – unitamente ad altri elementi (risultanze istruttorie e indagini finanziarie) -le dichiarazioni del terzo COGNOME circa il ruolo di amministratore di fatto in capo a NOME COGNOME ha implicitamente disatteso l’eccezione di inammissibilità per inattendibilità dello stesso (‘ a tale Rag. COGNOME soggetto non meglio identificato che dice di potere presumere la riconducibilità della società al fratello di COGNOME NOME, ovvero COGNOME NOME. Chi sia tale ragioniere COGNOME, quali rapporti avesse lo stesso con la compagine effettiva, quali interessi diretti ed indiretti non è dato sapere …In altri termini il fatto che il COGNOME abbia curato le cessioni di quote e il cambio di denominazione senza il mutamento del numero di partita Iva non abilita lo stesso a potere indicare in NOME anziché Caio la qualifica di amministratore ‘, v. stralcio dell’atto di appello riprodotto in ricorso pag. 26-27).
11 . Con il decimo motivo si denuncia: 1) in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., la violazione dell’art. 36 del d.lgs. n. 546/92 per avere la CTR rigettato, con una motivazione omessa e/o apparente, il motivo di appello concernente il difetto di mot ivazione dell’atto impositivo in ordine alla indicazione delle azioni poste in essere effettivamente dal soggetto accertato per essere considerato amministratore di fatto; sul punto, il giudice di appello si sarebbe limitato a fare riferimento apoditticamente a circostanze (indagini finanziarie e risultanze istruttorie) e alle dichiarazioni di COGNOME, prive di alcun valore probatorio, senza indicare le azioni atte a comprovare la sistematicità e la completezza dell’assunta ingerenza nella attività di gestione; 2) in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione dell’art. 2697 c.c. per avere la CTR confermato la legittimità dell’avviso di accertamento in questione sebbene carente di motivazione nella parte in cui era attribuita a NOME la qualifica di amministratore di fatto in assenza della indicazione degli atti, aventi carattere di sistematicità e completezza, denotanti una effettiva ingerenza nella attività di gestione societaria.
11.1. Il motivo è infondato quanto alla sub censura di omessa/apparente motivazione e inammissibile quanto alla denuncia di violazione di legge.
11.2. Quanto alla (sub) censura di motivazione omessa e/o apparente, la CTR, con una motivazione, per quanto stringata, congrua ed esente da vizi logicigiuridici, ha rigettato la doglianza per cui non poteva ravvisarsi nel ricorrente la figura dell’amminist ratore di fatto della società RAGIONE_SOCIALE in mancanza di dimostrazione dell’ingerenza di esso nei fatti societari in modo continuativo e di indicazione di fatti dispositivi da esso compiuti poiché ‘ dalle risultanze istruttorie della Guardia di Finanza, dalle indagini finanziarie, e dalle dichiarazioni di terzi (rag. NOME COGNOME) era emerso che…il sig. COGNOME COGNOME era risultato l’amministratore di fatto della stessa società’ ovvero – come precisato nella confermata sentenza di primo grado -‘persona alla quale la società faceva riferimento e gestore di fatto di essa’ e, dunque, gestore uti dominus della società risultata cartiera. Risulta, pertanto, evidente che la decisione impugnata assolve in misura adeguata al requisito di contenuto richiesto dalla disposizione di legge di cui il motivo lamenta la violazione.
11 .3. Quanto all’assunta violazione di legge, il ricorrente, lungi dal denunciare l’erronea applicazione della regola di giudizio fondata sull’onere della prova di cui all’art. 2697 cod. civ. sollecita un’indebita rivalutazione delle prove avendo l’obiettivo di procedere a un nuovo accertamento in fatto, attività preclusa al giudice di legittimità e riservata al giudice del merito.
12 . Con l’undicesimo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 4 c.p.c., la violazione del principio del ne bis in idem ai sensi dell’art. 4 del Protocollo n. 7 della CEDU come interpretato dalla CEDU (sentenza 4 marzo 2014, Grande COGNOME contro Italia) in riferimento all’art. 117, comma 1, Cost. essendo stato NOME COGNOMEnella qualità amministratore di fatto della società RAGIONE_SOCIALE – come emergeva dal p.v.c.- già sottoposto a procedimento penale (RG 32066/08) presso la Procura della Repubblica di Napoli per gli stessi fatti oggetto del giudizio tributario.
12.1.Il motivo è inammissibile in quanto – in disparte il difetto di specificità per non avere il ricorrente neppure indicato l’esito del procedimento penale – non possono essere nel giudizio di legittimità prospettate per la prima volta questioni nuove o temi nuovi d’indagini non compiute perché non richieste in sede di merito; poiché la questione sollevata non risulta trattata nella sentenza impugnata, il ricorrente, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità della censura in quanto nuova, avev a l’onere – in realtà non assolto – di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, indicando, altresì, in quale atto del giudizio precedente lo avesse fatto, onde consentire a questa Corte di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione prima di esaminare, nel merito, la questione stessa (in tal senso, Cass. n. 10211 del 2015; nello stesso senso, Cass. sez. 6 – 5, Ordinanza n. 32804 del 13/12/2019; Cass. sez. 5, n. 40224 del 2021). Nella specie, non avendo il contribuente assolto l’onere di allegare in ricorso l’avvenuta deduzione della questione concernente l’assunta violazione del principio del ne bis in idem dinanzi al giudice di merito, non è dato a questa Corte ritenere compresa la stessa nel thema decidendum avanti al giudice di secondo grado.
13 . Con il dodicesimo motivo il ricorrente invoca, in subordine, l’applicazione dello ius superveniens in materia di sanzione (d.lgs. 24/09/2015, n. 158) in forza del principio del favor rei , applicabile ai sensi dell’art. 3 del d.lgs. n. 472/97, dovendo trovare applicazione le nuove sanzioni, in quanto più favorevoli, anche per le violazioni già contestate, fino a quando non si sia formato il giudicato (è richiamata la Circolare dell’Agenzia delle entrate n. 4/E del 4 marzo 2016).
13.1. Il motivo non può essere accolto.
13.2. Infatti, premesso che ‘ In tema di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie, le modifiche apportate dal d.lgs. n. 158 del 2015 non operano in maniera generalizzata in “favor rei”, rendendo la sanzione irrogata illegale, sicché deve escludersi che la mera deduzione, in sede di legittimità, di uno “ius superveniens” più favorevole, senza specifiche allegazioni rispetto al caso concreto idonee ad influire sui parametri di commisurazione della sanzione,
imponga la cassazione con rinvio della sentenza impugnata ‘ (Sez. 5, Ordinanza n. 33906 del 2024; Cass., sez. 5, n. 577 del 2024; Cass. 30/11/2018, n. 31062; Cass. 16/09/20, n. 19286) e che « La modifica normativa in esame, dunque, non opera in maniera generalizzata in favor rei, con la conseguenza che la mera affermazione di uno ius superveniens più favorevole non consente di operare sic et simpliciter la trasformazione della sanzione irrogata in sanzione illegale, specie in assenza di specifica deduzione dell’applicabilità in concreto di una sanzione tributaria inferiore rispetto a quella applicata » (Cass., 12 aprile 2017, n. 9505; Cass., 28 giugno 2018, n. 17143), nella specie, come si evince dalla sentenza impugnata, la notifica dell’avviso in questione è stata effettuata a NOME COGNOME nella qualità di amministratore di fatto di RAGIONE_SOCIALE e, dunque, quale corresponsabile per le obbligazioni tributarie e sanzionatorie della società, senza che nei gradi di merito sia stato da quest’ultimo mai contestat o il quantum delle pretese e delle relative sanzioni bensì soltanto la configurazione dello stesso come amministratore di fatto e la sua responsabilità come coobbligato solidale.
13 .3.Nella memoria il contribuente ha invocato l’applicazione della sanzione, meno afflittiva, prevista ed introdotta dal d.lgs. 14 giugno 2024, n. 87 chiedendo di rinnovare il giudizio di comparazione tra cumulo giuridico e cumulo materiale per verificare quale debba essere applicato e, in ogni caso, di riformulare il cumulo giuridico, considerando che, in linea di principio, la sanzione pecuniaria minima, che prima della riforma ammontava al 100% dell’imposta evasa, oggi è pari al 70% dell’imposta evasa. Ha evidenziato, al riguardo, che l’art. 5 del d.lgs. n. 87 del 2024 ha disposto che il regime sanzionatorio più favorevole, introdotto con i commi 2, 3 e 4 del cit. art. 2, trovi applicazione alle violazioni commesse a partire dal 1° settembre 2024, con ciò derogando al principio della retroattività della sanzione più favorevole, sancito dall’art. 3, comma 3, del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, e ha al contempo denunciato l’illegittimità costituzionale della norma sotto il profilo 1) dell’eccesso di delega rispetto ai principi e alle direttive stabilite dalla l. n. 111 del 2023; 2) della violazione (dell’art. 117, primo
comma, della Costituzione) in relazione all’art. 49 CEDU quanto al principio di proporzionalità delle sanzioni rispetto alle violazioni.
13.4. La richiesta di applicazione delle sanzioni nella misura più favorevole al contribuente, così come prevista dall’art. 2 del d.lgs. n. 87 del 2024 , non può trovare accoglimento, né le difese della società hanno allegato ragioni sufficienti ad evidenziare la non manifesta infondatezza della denuncia di illegittimità costituzionale della disciplina derogatoria. Premesso che l’applicazione della sanzione più favorevole è preclusa da una espressa previsione normativa, ed in particolar modo d all’art. 5 del d.lgs. n. 87 del 2024, secondo cui la rivisitazione delle sanzioni amministrative in materia fiscale, complessivamente favorevole al contribuente, va applicata a partire dalle violazioni commesse dal 1° settembre 2024, così derogando al generale principio di retroattività della legge più favorevole, la scelta del legislatore non appare in contrasto con i principi costituzionali né con quelli unionali. Questo collegio ovviamente non ignora la rilevante problematica sottesa al tema dell’applica zione della legge più favorevole per le ipotesi di rideterminazione delle sanzioni tributarie, questione di certo amplificata nel caso di specie, considerando che l’oggetto del contendere si inserisce nel quadro della ampia revisione dell’intero sistema sa nzionatorio tributario, coinvolgendo in pratica l’intero impianto regolato dai d.lgs. nn. 471 e 472 del 18 dicembre 1997. E tuttavia, proprio questo ampio ripensamento della disciplina, come di tutto il sistema tributario, secondo la delega apprestata dal Legislatore con la l. n. 111 del 2023 dall’art. 20 quanto alle sanzioni, con i conseguenti principi e criteri direttivi, specie, per quanto qui di interesse, quelli elencati nelle lett. a (per gli aspetti comuni alle sanzioni amministrative e penali) e c, punti da 1 a 5 (per le sanzioni amministrative)consente di ‘leggere’ la deroga alla lex mitior disposta dal legislatore delegato in un quadro coerente con i principi costituzionali, così come con quelli unionali. Deve intanto riaffermarsi che l’equival enza tra sanzione amministrativa e sanzione penale costituisce una regola tendenziale ineludibile e inevitabile, che tuttavia non giunge ad una perfetta sovrapposizione dei piani. Se è vero che il principio del favor rei trova copertura costituzionale (nell’art. 25 Cost. secondo certa interpretazione,
nell’art. 3 Cost. secondo più persuasiva ricostruzione), e sovranazionale nell’art. 49 CDFUE e nell’art. 7 CEDU, e che, come più volte affermato dalla giurisprudenza unionale e da quella nazionale, la sanzione amministrativa può assumere sostanza e natura penale, è altrettanto utile ricordare che la stessa natura penale delle sanzioni ha necessità d’essere perimetrata. A tal fine, senza lunghe digressioni, punto di costante snodo in materia è sempre rappresentato dai criteri fissati dalla Corte EDU nella se ntenza ‘Engel’, ossia la qualificazione penale dell’illecito e, in sua assenza, al fine della estensione delle garanzie previste dagli artt. 6 e 7 CEDU e 49 CDFUE a illeciti anche non qualificati formalmente come penali, lo scopo afflittivo e non riparatorio della misura, la gravità della misura, anche nella sua applicazione concreta, la rilevanza attribuita dalla disposizione alla gravità del fatto e alla colpevolezza dell’autore (Corte EDU, 8 giugno 1976, caso n. 5100/71, Engel and Others/Netherlands). 13.5. Ciò comporta che le regole di garanzia affermate dai principi unionali in tema di reato si estendano alle sanzioni amministrative, ma questo non significa che reato e pena siano perfettamente coincidenti con violazione amministrativatributaria e sanzione. La riprova, in tema, è data proprio dall’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 472 del 1997, laddove la norma prevede che «Salvo diversa previsione di legge, nessuno può essere assoggettato a sanzioni per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce violazione punibile». Si tratta di una regola che, pur prevedendo una deroga al principio della sopraggiunta non punibilità di una condotta, non è stata mai posta in discussione, tanto meno nel panorama dottrinale e giurisprudenziale se ne è denunciato il contrasto con i principi della Carta dei diritti dell’Uomo o con quelli della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea. Ebbene, è pur vero che il terzo comma del medesimo articolo, che disciplina proprio l’applicazione della lex mitior , non prevede, al contrario, alcuna espressa deroga, limitandosi invece a disporre che «Se la legge in vigore al momento in cui è stata commessa la violazione e le leggi posteriori stabiliscono sanzioni di entità diversa, si applica la legge più favorevole, salvo che il provvedimento di irrogazione sia divenuto definitivo», avendo dunque quale solo limite la definitività della sanzione applicata. Ma,
sebbene sia diffusa l’opinione che il silenzio normativo, a differenza della espressa previsione nel comma 2, escluda in radice eccezioni al principio del favor rei , non può ignorarsi che l’ipotesi trattata nel comma 2 è ben più radicale di quella disciplinata dal comma 3 (perché la prima ipotesi riguarda una fattispecie per la quale la legge successiva esclude del tutto il disvalore della condotta prima sanzionata, la seconda afferisce ad ipotesi per le quali la condotta resta invece sempre punibile, ma con una sanzione meno grave, così che il suo disvalore scema ma non scompare). Può allora dedursi che l’esclusione assoluta della derogabilità della lex mitior incontra innanzitutto dei limiti proprio sul piano logico. Infatti, se è possibile che una sanzione continui ad essere applicata a fattispecie successivamente escluse dal regime sanzionatorio, non è dato comprendere perché ciò non possa parimenti accadere, ovviamente sempre in via di eccezione, per fattispecie ritenute con una legge successiva solo meno gravi. Ciò è quanto induce a considerare una interpretazione coerente con le fattispecie contemplate nel secondo e nel terzo comma dell’art. 3 cit., in un approccio ermeneutico che tenga conto di una lettura complessiva dei due commi, nei quali i principi della riserva di legge (comma 2) e quello della lex mitior (comma 3) non possono essere tenuti nettamente separati. La conseguente considerazione è che le ragioni che sottendono la disciplina sanzionatoria apprestata in tema di obbligazioni tributarie, quando leggi successive escludano in radice il disvalore di una condotta, ma anche quando lo affievoliscano semplicemente, possono giustificare deroghe all’applicazione del principio del favor rei . Queste considerazioni, a parere del collegio, hanno peraltro una chiara copertura proprio in precedenti della Corte costituzionale. A tal fine utili riscontri si rinvengono nei principi enucleati da Corte costituzionale, sentenza 16 aprile 2021, n. 68, con la quale, in riferimento allo specifico caso della sanzione amministrativa della revoca della patente di guida, quale sanzione accessoria alla condanna per il reato di omicidio colposo per violazione delle regole sulla circolazione stradale, disposta con sentenza irrevocabile ai sensi dell’art. 222, comma 2, del d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285, è stata dichiarata l’illegittimità dell’art. 30, quarto comma, della l. 11 marzo 1953, n. 8 (norme
sulla costituzione e sul funzionamento della Corte Costituzionale). Al giudice remittente, giudice dell’esecuzione della sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente, cui il condannato istante si rivolgeva perché nelle more, pur con sentenza penale definitiva, era intervenuta la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 222 cit. nella parte in cui non prevedeva, in alternativa alla revoca, la diversa misura della sospensione della patente, come prevista dal secondo e dal terzo periodo del medesimo comma 2 della norma, il giudice delle leggi ha dato risposta affermativa. Nella motivazione la Corte costituzionale, pur a fronte di suoi precedenti, nei quali la sanzione amministrativa accessoria a sentenza penale passata in giudicato era apparsa ormai intangibile (a tal fine citando Corte costituzionale 24 febbraio 2017, n. 43), è pervenuta ad opposte conclusioni. Al di là dello specifico oggetto della controversia, per quanto qui di interesse è di rilievo che nella pronuncia la Corte Costituzionale, richiamando anche altra sentenza della Corte, la n. 63 del 21 marzo 2019 che aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del 2015, nella parte in cui escludeva l’applicazione retroattiva delle modifiche apportate dal comma 3 dello stesso art. 6 alle sanzioni amministrative previste per gli illeciti di cui agli artt. 187-bis e 187-ter del d.lgs. n. 58 del 1998 – ha sostenuto che «la stessa Corte costituzionale ha equiparato le sanzioni amministrative di tipo afflittivo a quelle formalmente penali ai fini dell’applicazione del principio di retroattività della lex mitior : principio di minor forza rispetto a quello di legalità costituzionale. Nell’occasione, la Corte ha affermato che, laddove la sanzione amministrativa abbia natura punitiva, di regola non vi sarà ragione per continuare ad applicarla, qualora il fatto sia successivamente considerato non più illecito; né per continuare ad applicarla in una misura considerata ormai eccessiva (e per ciò stesso sproporzionata) rispetto al mutato apprezzamento della gravità dell’illecito da parte dell’ordinamento: ciò, salvo che sussistano ragioni cogenti di tutela di controinteressi di rango costituzionale, tali da resistere al medesimo vaglio positivo di ragionevolezza, alla cui stregua debbono essere in linea generale valutate le deroghe al principio di retroattività in mitius ». È proprio nell’altra
pronuncia richiamata, la n. 63 del 2019, che la Corte costituzionale, dopo essersi diffusa sulla copertura costituzionale della lex mitior in materia penale, da ricercarsi non già nell’art. 25 Cost. ma nell’art. 3 Cost., ed averne perimetrato l’applicazione, esaminando il principio con riferimento alle sanzioni amministrative ‘punitive’, ossia sostanzialmente equiparabili alle sanzioni penali, avverte che «Se poi, ed eventualmente in che misura, il principio della retroattività della lex mitior sia applicabile anche alle sanzioni amministrative, è questione recentemente esaminata funditus dalla sentenza n. 193 del 2016. In quell’occasione, questa Corte ha rilevato come la giurisprudenza di Strasburgo non abbia ‘mai avuto ad oggetto il sistema delle sanzioni amministrative complessivamente considerato, bensì singole e specifiche discipline sanzionatorie, ed in particolare quelle che, pur qualificandosi come amministrative ai sensi dell’ordinamento interno, siano idonee ad acquisire caratteristiche “punitive” a lla luce dell’ordinamento convenzionale’. In difetto, pertanto, di alcun ‘vincolo di matrice convenzionale in ordine alla previsione generalizzata, da parte degli ordinamenti interni dei singoli Stati aderenti, del principio della retroattività della legge più favorevole, da trasporre nel sistema delle sanzioni amministrative’, la sentenza n. 193 del 2016 ha giudicato non fondata una questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), del quale il giudice a quo sospettava il contrasto con gli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU, nella parte in cui non prevede una regola generale di applicazione della legge successiva più favorevole agli autori degli illeciti amministrativi: regola generale la cui introduzione, secondo la valutazione di questa Corte, avrebbe finito ‘per disattendere la necessità della preventiva valutazione della singola sanzione (qualificata “amministrativa” dal diritto interno) come “convenzionalmente penale”, alla luce dei cosiddetti criteri Engel’. Rispetto, però, a singole sanzioni amministrative che abbiano natura e finalità “punitiva”, il complesso dei principi enucleati dalla Corte di Strasburgo a proposito della “materia penale” – ivi compreso, dunque, il principio di retroattività della lex mitior , nei limiti appena precisati (supra, punto 6.1.) – non
potrà che estendersi anche a tali sanzioni. . L’estensione del principio di retroattività della lex mitior in materia di sanzioni amministrative aventi natura e funzione “punitiva” è, del resto, conforme alla logica sottesa alla giurisprudenza costituzionale sviluppatasi, sulla base dell’art. 3 Cost., in ordine alle sanzioni propriamente penali. Laddove, infatti, la sanzione amministrativa abbia natura “punitiva”, di regola non vi sarà ragione per continuare ad applicare nei confronti di costui tale sanzione, qualora il fatto sia successivamente considerato non più illecito; né per continuare ad applicarla in una misura considerata ormai eccessiva (e per ciò stesso sproporzionata) rispetto al mutato apprezzamento della gravità dell’illecito da parte dell’ordinamento. E ciò salvo che sussistano ragioni cogenti di tutela di controinteressi di rango costituzionale, tali da resistere al medesimo «vaglio positivo di ragionevolezza», al cui metro debbono essere in linea generale valutate le deroghe al principio di retroattività in mitius nella materia penale» (così, C. Costituzionale, sentenza n. 63 del 2019, punto 6.2). L’importanza della necessità di applicazione del principio della legge più favorevole, e tuttavia il riconoscimento di ipotesi per le quali può derogarsi alla lex mitior trova riscontri non solo nella nostra giurisprudenza costituzionale, ma anche nella giurisprudenza unionale. Recente, in tema, è la pronuncia assunta dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea in causa C -107/2023, del 24 luglio 2023, a seguito di rinvio pregiudiziale. Il giudice rumeno aveva proposto la questione relativa alle conseguenze dell’applicazione di sentenze della Corte costituzionale di quel Paese che, nel dichiarare l’incostituzionalità di alcune disposizioni, nella parte in cui prevedevano l’interruzione del termine di prescrizione della responsabilità penale mediante la realizzazione di ‘qualsiasi atto processuale’, aveva di fatto determinato l’applicazione di una forma di prescrizione senza possibilità di atti interruttivi, ciò traducendosi nella vigenza di un sistema normativo, di diritto sostanziale, più favorevole all’imputato ai fini della prescrizione. A fronte della invocazione da parte di taluni cittadini, già condannati per gravi reati fiscali, della applicazione della disciplina più favorevole, in forza della quale i reati loro ascritti sarebbero caduti in prescrizione, il giudice rumeno – al fine di verificare la possibilità di disattendere
decisioni della Corte costituzionale senza incorrere in sanzioni disciplinari – si era rivolto alla CGUE, interrogandosi sulla compatibilità delle regole di prescrizione più vantaggiose, di fatto introdotte dalla Corte costituzionale rumena, con il sistema normativo apprestato dall’Unione europea al fine di assicurare che ogni Stato membro garantisca un sistema sanzionatorio effettivo e dissuasivo in caso di frode grave ai danni degli interessi finanziari dell’Unione europea (art. 2 TUE, l’art. 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE e l’art. 4, , TUE, in combinato disposto con l’art. 325, paragrafo 1, TFUE, con l’art. 2, paragrafo 1, della Convenzione TIF, con gli articoli 2 e 12 della direttiva TIF, nonché con la direttiva 2006/112). E cioè se «co n riferimento all’articolo 49, paragrafo 1, ultima frase, della , debbano essere interpretati nel senso che ostano a una situazione giuridica, come quella oggetto del procedimento principale, in cui i ricorrenti condannati chiedono mediante un mezzo straordinario di ricorso, l’annullamento di una sentenza penale definitiva di condanna, invocando l’applicazione del principio della legge penale più favorevole». Ebbene, la Corte di Giustizia ha affermato che «123. In simili circostanze, tenuto conto del necessario bilanciamento tra quest’ultimo standard nazionale di tutela e le disposizioni dell’articolo 325, paragrafo 1, TFUE e dell’articolo 2, paragrafo 1, della Convenzione TIF, l’applicazione, da parte di un giudice nazionale, di detto standard, per m ettere in discussione l’interruzione del termine di prescrizione della responsabilità penale mediante atti processuali intervenuti prima del 25 giugno 2018, data di pubblicazione della sentenza n. 297/2018 della Curtea Constituțională (Corte costituzionale), deve essere considerata tale da compromettere il primato, l’unità e l’effettività del diritto dell’Unione, ai sensi della giurisprudenza ricordata al punto 110 della presente sentenza (v., in tal senso, sentenza del 21 dicembre 2021, RAGIONE_SOCIALE e a., C-357/19, C379/19, C-547/19, C-811/19 e C-840/19, EU:C:2021:1034, punto 212).
13.6. Di conseguenza, si deve ritenere che i giudici nazionali non possano, nell’ambito di procedimenti giurisdizionali diretti a sanzionare penalmente reati di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, applicare lo standard nazionale di t utela relativo al principio dell’applicazione retroattiva della legge
penale più favorevole ( lex mitior ), come menzionato al punto 119 della presente sentenza, al fine di mettere in discussione l’interruzione del termine di prescrizione della responsabilità penale mediante atti processuali intervenuti prima del 25 giugno 2018, data di pubblicazione della sentenza n. 297/2018 della Curtea Constituțională (Corte costituzionale). 125. Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, occorre rispondere alla prima e alla seconda questione dichiarando che l’articolo 325, paragrafo 1, TFUE e l’articolo 2, paragrafo 1, della Convenzione TIF devono essere interpretati nel senso che gli organi giurisdizionali di uno Stato membro non sono tenuti a disapplicare le sentenze della Corte costituzionale di tale Stato membro che invalidano la disposizione legislativa nazionale recante disciplina delle cause di interruzione del termine di prescrizione in materia penale per violazione del principio di legalità dei reati e delle pene quale tutelato dal diritto nazionale, sotto il profilo dei suoi requisiti di prevedibilità e di determinatezza della legge penale, anche se tali sentenze hanno la conseguenza di condurre all’archiviazione, per prescrizione della responsabilità penale, di un numero considerevole di procedimenti penali, ivi compresi procedimenti relativi a reati di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione. Per contro, dette disposizioni del diritto dell’Unione devono essere interpretate nel senso che gli organi giurisdizionali di tale Stato membro sono tenuti a disapplicare uno standard nazionale di tutela relativo al principio dell’applicazione retroattiva della legge penale più favorevole ( lex mitior ) che consente di mettere in discussione, anche nell’ambito di ricorsi contro sentenze definitive, l’interruzione del termine di prescrizione della responsabilità penale in simili procedimenti mediante atti processuali intervenuti prima di una tale constatazione di invalidità».
Dunque, a differenza della tutela del principio di legalità, che resta assoluto e mai recessivo, quanto al rispetto della lex mitior , di cui pur ne viene ribadita l’assoluta importanza in motivazione, la Corte di Giustizia riconosce tuttavia che il medesimo principio può risultare recessivo nella comparazione con altri interessi – di pari rango e che nel caso di specie si concretizza in quello di apprestare un efficace sistema sanzionatorio idoneo al contrasto a reati di frode
grave ai danni degli interessi finanziari dell’Unione europea -, con sue conseguenti deroghe. Il principio, elaborato e sviluppato in tema di sanzioni penali, va applicato al sistema sanzionatorio amministrativo, pur quando equivalente a norma penale. Le pronunce della giurisprudenza costituzionale e unionale, con gli ulteriori richiami giurisprudenziali in esse contenute, evidenziano allora la manifesta infondatezza della questione proposta dalla ricorrente. Non vi sarebbe neppure ragione, visti i precedenti già richiamati, di coinvolgere la pronuncia della Corte Costituzionale, 13 gennaio 2015, n. 10, la quale, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 81, commi 16, 17 e 18 del d.l. 25 giugno 2008, n. 112 (convertito con modificazioni dall’ar t. 1, l. 6 agosto 2008, n. 133), relativa alla introdotta addizionale sull’imposta sul reddito delle società, ex art. 75 d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR), ha tuttavia ritenuto di limitare gli effetti della declaratoria di incostituzionalità, di fatto escludendone gli effetti retroattivi in nome delle gravi conseguenze altrimenti riversabili sulla capacità di rispetto dell’equilibrio di bilancio, ex art. 81 Cost. Il richiamo a quest’ultima pronuncia è al più utile a individuare nella preservazione delle ragioni di equilibrio finanziario una delle ipotesi in cui un diverso e contrapposto interesse di rango costituzionale assurge a ragione che può indurre il Legislatore a ‘sacrificare’, eccezionalmente, la lex mitior . Ma, ciò detto, quest’ultima pronuncia si rivela non certo decisiva rispetto alle conclusioni cui questo collegio perviene, sia perché in quel caso si trattava di una ‘deroga’ all’applicazione della lex mitior proveniente da una pronuncia costituzionale e non da una espressa previsione di legge, come nel caso ora al vaglio di questo collegio, sia perché le ragioni tutelate da quella pronuncia si rivelano peculiari, con una comparazione secca tra tributi riconosciuti incostituzionali e ragioni di equilibrio di bilancio, laddove il caso de quo afferisce al tema della sanzioni. Resta comunque chiaro che la deroga al principio della applicazione della legge più favorevole, come agevolmente si desume dai precedenti della Corte di legittimità e dalle Corti unionali, ha il suo comune denominatore nella esigenza di comparazione con altri diritti di rango costituzionale o eurounitario, comparazione all’esito della quale la lex mitior può risultare recessiva,
giustificandosene dunque la deroga. Ebbene, per quanto qui di interesse, l’irretroattività disposta dal citato art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 8 del 2024 per le nuove sanzioni, complessivamente più favorevoli per il contribuente, si colloca in un contesto, interno ed esterno, che accompagna la rimeditazione dell’intero sistema sanzionatorio, sul piano qualitativo come quantitativo. Al di là della pertinenza delle ragioni esposte nella relazione illustrativa di accompagnamento, in ordine alla previsione dell’ art. 5, non può negarsi che di certo il file rouge che giustifica la irretroattività delle sanzioni più favorevoli è la emersione di diritti o finalità di pari o superiore livello alla garanzia sacrificata. È sufficiente la lettura dell’art. 20 della legge delega, e degli ampi obiettivi che con essa sono stati assunti dal Legislatore, per comprendere come la riforma -poco importa se epocale o meno, ma certo di grande respiro- non si limita a rideterminare le sanzioni in senso favorevole al contribuente, ma si accompagna ad un ripensamento del ruolo stesso della sanzione, implementando un contesto di collaborazione tra Amministrazione e contribuente (art. 20, comma 1, lett. a, n. 4), e persino prevedendo forme di compensazione tra sanzioni comminate e crediti maturati nei confronti delle amministrazioni (art. 20, comma 1, lett. a, n. 2), oppure valorizzando la condotta successiva o pregressa del contribuente in uno spirito radicalmente rivoluzionato rispetto al passato, quanto meno in termini di obiettivi (art . 20, comma 1, lett. 2 e 3). Concentrare l’attenzione, come emerge dalla difesa della ricorrente, sui soli interventi inerenti il carico delle sanzioni, previsto nell’art. 20, comma 1, lett. c, n. 2 della l. 111 del 2023 (uno dei tanti principi e criteri per la revisione del sistema sanzionatorio, ma che di per sé rappresenta solo una porzione degli interessi in gioco e del riassetto normativo), significa limitare il cono visivo sulla riforma, che non è vagliata nella sua complessa articolazione. È invece evidente che un simile riassetto -che peraltro non risulta neppure del tutto compiuto, almeno quanto a riordino della disciplina, atteso che i vecchi decreti legislativi nn. 471 e 472, le cui norme risultano modificate dal d.lgs. n. 87 del 2024, cesseranno di avere vigore il 1° gennaio 2026, perché abrogati dal d.lgs. 5 novembre 2024, n. 173, art. 102, con l’introduzione di un Testo Unico in materia – giustifica la scelta del legislatore
delegato. Basti considerare che un intervento di tale portata, e la previsione di sanzioni più leggere, con conseguente riduzione di risorse già preventivate, al di là delle esigenze di rispetto dei principi di equilibrio di bilancio e di sostenibilità del debito pubblico, ex art. 97 Cost., riversa direttamente i suoi effetti sul raggiungimento di prestazioni standard in materie di rango costituzionale altrettanto sensibili, quali le prestazioni sanitarie (art. 32 Cost.), scolastiche (art. 34 Cost.), di sic urezza pubblica, ecc. E’ dunque agevole rilevare che una riforma del sistema tributario, nel quale la previsione di un minor carico sanzionatorio si relaziona ad una modifica radicale del rapporto Fisco/Contribuente, come già prospettato, giustifica ampiamente una irretroattività della nuova disciplina sanzionatoria, senza con ciò poter essere tacciata di violazione dei diritti presidiati dagli artt. 3 e 53 Cost. E d’altronde, che la deroga sia ‘pensata’ con estrema ponderazione lo si rinviene nella constat azione che l’irretroattività non è coincidente con il momento di entrata in vigore della legge, ma con una data ulteriormente successiva, a comprova della necessità che anche l’attenuazione delle sanzioni necessita di una ‘tempo’ per l’attuazione dell’inte ro ripensamento dell’impianto sanzionatorio. Ne discende anche che è parimenti priva di fondamento la denuncia di eccesso di delega del legislatore delegato, come pure prospettato dalla difesa della ricorrente, mancando una espressa previsione derogatoria della lex mitior nella legge delega. Invece è proprio la complessa revisione della disciplina che in sé porta a reputare come il legislatore delegato, nella ponderazione complessiva dei valori e degli interessi di rilevanza costituzionale, abbia agito nel legittimo perimetro della delega conferita. In definitiva, questo collegio ritiene che non sussistano ragioni che inducano a riconoscere la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 87 del 2024, né reputa che la disciplina sia incompatibile con i principi unionali (Cass., sez.5, sentenza n. 1274 del 2025).
14.In conclusione, il ricorso va rigettato.
15.Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo;
P.Q. M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in euro 13.000,00 per compensi oltre spese prenotate a debito;
Dà atto, ai sensi dell’art.13 comma 1quater D.P.R. n.115/2002, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma il 26.6.2025