Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 8711 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 8711 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 02/04/2025
ORDINANZA
Sul ricorso n. 22491-2018, proposto da:
COGNOME NOME COGNOME c.f. CODICE_FISCALE elettivamente domiciliato in Roma, alla INDIRIZZO presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME dalla quale, unitamente all’avv. NOME COGNOME è rappresentato e difeso –
Ricorrente
CONTRO
RAGIONE_SOCIALE , cf NUMERO_DOCUMENTO, in persona del Direttore p.t., elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende ope legis –
Controricorrente
Avverso la sentenza n. 259/23/2018 della Commissione tributaria regionale della Lombardia, sez. staccata di Brescia, depositata il 22.01.2018; udita la relazione della causa svolta dal Consigliere dott. NOME COGNOME nell’ adunanza camerale del 15 gennaio 2025;
FATTI DI CAUSA
Dalla sentenza emerge che l’Agenzia delle entrate notificò due avvisi d’accertamento alla RAGIONE_SOCIALE in liquidazione, e per essa alla legale
Accertamento -Elusione -Riqualificazione in evasione -Amministratore di fatto e socio occulto
rappresentante nonché a COGNOME NOMECOGNOME ritenuto l’amministratore di fatto della società. Gli atti impositivi erano stati emessi, con riguardo agli anni d’imposta 200 7/2008, in parte per contestare fatture afferenti ad operazioni ritenute inesistenti, in parte per fatture relative a costi ritenuti indeducibili, con conseguente contestazione di indebita detrazione di iva e dichiarazione di IRES e IRAP inferiore a quella dovuta . L’ufficio notificò al COGNOME due ulteriori avvisi d’accertamento, con i qual i pretese il recupero del 40% del maggior reddito accertato in capo alla società, corrispondente agli utili a lui attribuiti ex art. 37 comma 3, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600.
Il COGNOME per entrambe le annualità propose due distinti ricorsi.
La Commissione tributaria provinciale di Mantova, riuniti i ricorsi, con sentenza n. 73/02/2016 li respinse. L’appello proposto dal COGNOME fu rigettato dalla Commissione tributaria regionale della Lombardia, sez. staccata di Brescia, con sentenza n. 259/23/2018. Il giudice regionale, confermando le statuizioni di primo grado, ha ritenuto che la cancellazione della società, in data anteriore alla notifica degli atti impositivi ma successiva alla verifica eseguita presso la sede della stessa, involgesse la elusività degli atti a ciò finalizzati. Ha inoltre rigettato le difese del ricorrente in merito alla rideterminazione del reddito sociale, così come degli utili attribuiti al COGNOME, riconoscendo tanto la fittizietà delle operazioni fatturate e la genericità, per altro verso, di molte fatture al fine della emersione di maggiori costi, quanto il ruolo del ricorrente, amministratore di fatto e socio occulto della società.
Il ricorrente ha censurato la decisione con otto motivi, chiedendone la cassazione. L’Amministrazione finanziaria ha resistito con controricorso. La Procura generale, in persona del Sostituto procuratore Generale NOME COGNOME ha depositato requisitoria scritta.
Nell’adunanza camerale del 15 gennaio 2025 l a causa è stata discussa e decisa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il ricorrente ha denunciato:
RGN 22491/2018 Consigliere rel. COGNOME con il primo motivo la nullità della sentenza per violazione degli artt. 112 e 345 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ. La Commissione regionale avrebbe omesso di pronunciarsi sul primo motivo d’appello, con cui il contribuente aveva eccepito l’inammissibilità del
rilievo d’ufficio della condotta elusiva in cui si sarebbe concretizzata la cancellazione della società RAGIONE_SOCIALE dal registro delle impese;
con il secondo motivo la violazione de ll’ art. 112 e 115 c.p.c., nonché dell’art. 2697 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. La sentenza sarebbe errata laddove ha ritenuto che l’abuso del diritto possa essere rilevato anche d’ufficio, perché, pur richiamando principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità, si è tuttavia basata su fatti mai allegati e tanto meno provati dall’Amministrazione finanziaria;
con il terzo motivo la violazione e falsa applicazione dell’art. 101, secondo comma, cod. proc. civ., nonché dell’art. 24 Costituzione, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. La Commissione avrebbe erroneamente affrontato d’ufficio la questione dell’abuso del diritto, senza prima instaurare sul punto il contraddittorio, così violando il diritto di difesa delle parti;
con il quarto motivo la violazione o falsa applicazione dell’art. 37 bis del d.P.R. n. 600 del 1973, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. La pronuncia sarebbe errata perché la fattispecie oggetto di causa esulava dalle ipotesi sussumibili nell’ art. 37 bis cit.;
con il quinto motivo l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. Nel dedurre il carattere elusivo della cancellazione della società RAGIONE_SOCIALE dal registro delle imprese il giudice d’appello non avrebbe tenuto conto della documentazione allegata dalla difesa del contribuente, che provava l’assenza di intenti elusivi e comunque l’estranei tà del Marinoni alla vicenda.
I cinque motivi possono essere trattati unitariamente, perché connessi. Essi sono infondati, sebbene la motivazione della pronuncia vada corretta ai sensi dell’art. 384 , quarto comma, cod. proc. civ.
Va intanto rilevato che, sebbene la ricostruzione dei fatti, posti a fondamento della riqualificazione della condotta e degli eventi che hanno portato alla cancellazione della società, dichiarata dal giudice di primo grado e confermata da quello d’appello, sia logica e coerente con le regole d’interpretazione delle prove presuntive -per quanto si avrà modo di chiarire anche appresso-, il Collegio però non ne condivide la qualificazione giuridica in termini di abuso del diritto/elusione.
I fatti accaduti e vagliati dal giudice di merito, in particolare la costituzione della RAGIONE_SOCIALE il 9 dicembre 2010, ossia due mesi dopo la redazione del primo pvc nei confronti della RAGIONE_SOCIALE; la liquidazione volontaria di questa società, con acquisizione di tutti i suoi clienti da parte della RAGIONE_SOCIALE il suo scioglimento il 5 settembre 2012 e la tempestività della sua cancellazione dal registro delle imprese (solo dopo due giorni); la circostanza che l’odierno ricorrente e i suoi famigliari avevano con tinuato a comportarsi come se la società RAGIONE_SOCIALE posta in liquidazione e già cancellata, fosse ancora attiva nel novembre 2012, come risultante dal pvc redatto il 23 novembre 2012, ricadono piuttosto chiaramente in una condotta diretta a perseguire l’evasione fiscale nella forma più grave, ossia a tentare di sottrarsi definitivamente alle stesse conseguenze dell’accertamento erariale in atto .
Affinché operi la clausola antielusiva occorre che la società faccia un utilizzo improprio o distorto dello strumento negoziale e che tale uso sia realizzato allo scopo specifico, seppure non esclusivo, di eludere la norma tributaria e di ottenere in questo modo un vantaggio fiscale.
Al contrario, nel presente caso, dalla ricostruzione operata dall’Agenzia delle entrate, su cui si fonda la qualificazione elusiva della vicenda che ha portato alla cancellazione della società, non emerge un uso distorto della normativa fiscale o del singolo strumento negoziale, in quanto la fattispecie così qualificata ha riguardato esclusivamente la ‘s parizione ‘ di un soggetto passivo d’imposta al fine di sottrarsi all’attività impositiva . Ciò anche nella speranza di escludere ogni altro soggetto, coinvolto nella gestione sociale quale beneficiario e unico controllore di quella compagine, dalla possibilità di essere identificato, così da indirizzare nei suoi confronti le contestazioni per il re cupero dell’iva indebitamente detratta ed i maggiori ricavi.
In altri termini, la riqualificazione giuridica operata dal giudice di merito non afferiva propriamente all’oggetto degli atti impositivi, ma ad un momento successivo, ossia alla individuazione del loro destinatario, ed era finalizzata a ‘ri portare in vita’, sul piano della inefficacia degli atti elusivi nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, le operazioni tese ad estinguere la società. Operazione, può aggiungersi, in realtà inutile, perché gli avvisi d’accertamento nei confronti della società eran o stati notificati anche al COGNOME quale amministratore di fatto e soggetto già identificato quale
‘unico beneficiario’ (sostanzialmente il dominus e socio unico della società) di tutte le operazioni finalizzate a detrarre illegittimamente l’iva e a dichiarare costi inesistenti o indeducibili per ridurre l’imponibile sociale.
Dei maggiori redditi e della indebita detrazione dell’iva, ancorché estintasi la società, era dunque tenuto a rispondere il COGNOME, sia ai sensi dell’art. 37 comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973, sia perché, all’estinzione della società si era realizzato quel fenomeno successorio regolato dall’art. 2495 cod. civ., del quale non poteva che essere investito il medesimo COGNOME in ragione della posizione contestata dall’erario in tutti gli atti impositivi a lui notificati.
Per mera completezza, richiamando principi generali, non vi sono peraltro preclusioni alla riqualificazione della fattispecie da elusiva/abusiva in evasiva. Ciò trova riscontro in specifici precedenti, nei quali la fattispecie elusiva è stata sussunta nella evasione, con la conseguenza che, riconducendosi i fatti e le condotte in quest’ultima fattispecie , non possono neppure trovare applicazione le disposizioni di legge ed i principi elaborati dalla giurisprudenza, interna ed unionale, in tema di abuso del diritto (cfr. Cass., 30 ottobre 2018, n. 27550). Né con tale riqualificazione si realizza alcun nocumento al diritto di difesa, perché i fatti posti a base dell’accertamento restano intatti e muta solo la sussunzione giuridica, senza alcuna lesione del contraddittorio.
Va dunque respinto il primo motivo, con il quale ci si duole del l’omessa pronuncia della Commissione regionale sulla critica elevata in sede d’appello dal COGNOME avverso la sentenza di primo grado, che aveva d’ufficio qualificato elusive le operazioni volte alla cancellazione della società dal registro delle imprese, attesa l’irrilevanza della suddetta qualificazione. Peraltro, il motivo è anche infondato, sia perché la pronuncia del giudice d’appello tratta espressamente della elusione, così che la asser ita omessa pronuncia non corrisponde neppure al vero, sia perché, censurata la sentenza per una questione puramente processuale (il mancato rispetto dell’art. 112 cod. proc. civ. per mancata corrispondenza tra chiesto e pronunciato) l’omesso esame non integra il vizio di omessa pronuncia, configurabile soltanto nel caso di mancato esame di domande od eccezioni di merito (da ultimo, cfr. Cass., 16 ottobre 2024, n. 26913).
Va respinto anche il secondo motivo, perché i fatti rappresentati dal giudice di merito nella pronuncia erano obiettivi, e comunque, rispetto all’intento del giudice (escludere l’efficacia della cancellazione della società nei confronti dell’Agenzia delle entrate) , essi erano estranei all’oggetto d egli atti impositivi, che afferivano alla contestazione di condotte temporalmente collocate in anni ben precedenti (2007 e 2008). Alcun onere di prova spettava dunque all’amministrazione finanziaria.
Va respinto anche il terzo motivo di ricorso, perché, come chiarito, nessuna lesione al contraddittorio si è verificata.
Per le ragioni espresse privo di rilievo e interesse è anche il quarto motivo, con cui ci si duole che la pronuncia sarebbe errata perché la fattispecie oggetto di causa esulava dalle ipotesi sussumibili nell’art. 37 bis cit. Come più volte rilevato, nel caso di specie la condotta elusiva non riguardava gli anni d’imposta accertati, ma il tentativo finalizzato, mediante l’estinzione della società , ad evitare le conseguenze degli accertamenti fiscali. Sul punto espressamente in sentenza si avverte che «il COGNOME non volesse affrontare il processo tributario per tali violazioni e nello stesso tempo sottrarsi alle sue responsabilità provate in modo non equivoco » (pagina 3 della sentenza, ultimo capoverso). La questione, dunque esula del tutto dalle ipotesi per le quali poteva applicarsi l’art. 37 bis ( ratione temporis vigente).
Il quinto motivo, già privo di rilievo per quanto chiarito, è inoltre inammissibile, sia per la conforme motivazione resa in primo e secondo grado dai giudici di merito, sia perché il vizio di motivazione, nei limiti ancora ammissibili in ragione delle modificazioni intervenute con il d.l. 22 giugno 2021, n. 83, deve attenere ad un fatto storico e non ad una rivalutazione dei fatti, come invece sottende e pretende la doglianza formulata dal ricorrente.
Con il sesto motivo il ricorrente denuncia la nullità della sentenza, per violazione degli artt. 112 e 115 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ. La pronuncia sarebbe viziata per aver fondato la dedotta inesistenza o indeducibilità dei costi riportati nelle fatture conteste dall’Agenzia delle entrate sul solo riscontro che i pagamenti agli operatori con cui la società era in rapporti commerciali sarebbero stati eseguiti solo in contanti, ciò che invece non risultava in nessuno degli atti impositivi.
Il motivo, con il quale, sotto il profilo del vizio radicale della sentenza, di fatto il ricorrente contesta gli elementi su cui il giudice d’appello ha riconosciuto l’illegittimità delle operazioni denunciate dall’erario, così erroneamente negando la deducibilità dei costi, è altrettanto infondato.
Pur nella sua sinteticità, in sentenza la Commissione regionale è chiara nel rilevare, in sintonia con le contestazioni elevate negli atti impositivi, che le operazioni poste in essere dalla società del COGNOME, tanto quelle inesistenti, quanto quelle per le quali erano esposti in fattura costi indeducibili, avevano l ‘unica finalità di diminuire l’imponibile. Quanto alle prove su cui fondare le statuizioni, la sentenza si riporta in modo esplicito ad altre pronunce intervenute sulle medesime contestazioni, relative a pregresse annualità, che hanno tutte come comune denominatore la medesima ed unica complessa verifica, da cui sono scaturiti i vari atti impositivi. Ebbene, il richiamo a pagamenti in contanti, che così rappresentato sembra che esuli dai fatti accertati, costituisce in realtà un dato pertinente della vicenda, atteso che i pagamenti, pur quando eseguiti con assegni, si concludevano con un cambio immediato, in giornata, dei suddetti titoli. Si tratta allora solo dell’utilizzo di una terminologia errata, che però agevolmente sottende ad elementi, in particolare ad un elemento, la rapida volatilizzazione degli assegni mutati immediatamente in contanti, a cui quel giudice ha inteso presuntivamente attribuire significato assorbente ai fini della prova della inesistenza delle operazioni e della conseguente esposizione di costi inesistenti oppure indeducibili.
D’altronde, sull’errore d’interpretazione delle regole di governo delle prove presuntive, va intanto premesso che la giurisprudenza di legittimità, nel tracciare il corretto procedimento logico del giudice di merito per la valutazione degli indizi, ha affermato che la gravità, precisione e concordanza richiesti dalla legge vanno ricavati dal loro complessivo esame, in un giudizio globale e non atomistico di essi (ciascuno dei quali può essere insufficiente), ancorché preceduto dalla considerazione di ognuno per individuare quelli significativi, perché è necessaria la loro collocazione in un contesto articolato, nel quale un indizio rafforza e ad un tempo trae vigore dall’altro in vicendevole completamento ( ex multis cfr. Cass., 16 maggio 2017, n. 12002; Cass., 2 marzo 2017, n. 5374; 12 aprile 2018, n. 9059; 25 ottobre 2019, n. 27410). Ciò che dunque rileva, in base a deduzioni logiche
di ragionevole probabilità, non necessariamente certe, è che dalla valutazione complessiva emerga la sufficienza degli indizi a supportare la presunzione semplice di fondatezza della pretesa, salvo l’ampio diritto del contribuente a fornire la prova contraria. Deve inoltre avvertirsi che ai fini della prova presuntiva non è escluso che l’accertamento trovi fondamento anche su un unico indizio. Nella prova civile, infatti, ed anche ai fini dell’accertamento tributario, non è necessario che gli elementi assun ti a fonte di presunzione siano plurimi, benché gli artt. 2729, primo comma, cod. civ., 38, comma 3 e 39, comma 4 del d.P.R. n. 600 del 1973, 54 del d.P.R. n. 633 del 1972 si esprimano al plurale. Il convincimento del giudice può essere fondato anche su un elemento unico, preciso e grave, la valutazione della cui rilevanza, peraltro, nell’ambito del processo logico applicato al caso concreto, non è sindacabile in sede di legittimità ove sorretta da motivazione adeguata e logicamente non contraddittoria (cfr. Cass., 29 luglio 2009, n. 17574; 15 gennaio 2014, n. 656; 26 settembre 2018, n. 23153; 28 aprile 2021, n. 11162).
Ebbene, nel caso di specie il giudice d’appello ha sviluppato con logica consequenziale le proprie argomentazioni, valorizzando proprio la singolare liquidità in cui si traduceva la corresponsione di ogni corrispettivo.
Rispetto al vaglio degli elementi ritenuti di rilievo , o dell’unico elemento, da parte del giudice d’appello, non emergono illogicità o errori materiali, così che esula dai poteri di questo collegio di legittimità rivalutare quegli elementi fattuali già ponderati in sede di merito, peraltro confermandosi la pronuncia del giudice di primo grado.
Per mera completezza, nessun rilievo può avere il mancato richiamo delle allegazioni difensive di controparte, soprattutto alla luce del principio di diritto consolidato, secondo cui la conformità della sentenza al modello di cui all’art. 132, n. 4, cod. proc. civ. e l’osservanza degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. non richiedono che il giudice di merito dia conto dell’esame di tutte le prove prodotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettate dalle parti, essendo necessario e sufficiente che egli esponga, in maniera concisa, gli elementi in fatto ed in diritto posti a fondamento della sua decisione, offrendo una motivazione logica ed adeguata ed evidenziando le prove ritenute idonee a confortarla, dovendo reputarsi per implicito disattesi tutti
gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con l’iter argomentativo svolto (Cass., 13 gennaio 2005, n. 520; 20 febbraio 2006, n. 3601; 29 dicembre 2020, 29730).
Con il settimo motivo si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ. , in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. La Commissione regionale avrebbe erroneamente qualificato il COGNOME quale socio occulto della RAGIONE_SOCIALE senza prove sufficienti del ruolo di amministratore di fatto della società, così come di socio occulto, mancando ogni riscontro dell’aver tratto profitto dalle operazioni illegittime contestate.
Con l’ottavo motivo ha lamentato l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. In relazione alla qualifica di amministratore di fatto e di socio occulto il giudice d’appello non avrebbe considerato le circostanze di fatto e la documentazione allegata dal contribuente a confutazione degli addebiti dell’ufficio.
I due motivi, che possono trovare trattazione congiunta perché connessi, sono altrettanto infondati.
Anche sulle responsabilità del COGNOME, quale amministratore di fatto e socio occulto della RAGIONE_SOCIALE, sostanzialmente unico controllore e beneficiario delle condotte illecite messe in atto a mezzo della società e finalizzate al conseguimento di redditi maggiori di quanto dichiarato, il collegio regionale ha valorizzato alcuni elementi di rilievo (quali il richiamo alle dichiarazioni rese dal COGNOME nel processo penale afferente il medesimo oggetto, poi definitosi con sentenza di patteggiamento della pena, intendendo con ciò non certo trarre una prova certa, ma solo un elemento, riportato peraltro nella motivazione della sentenza di patteggiamento), riportandosi per il resto alle ragioni espresse nella pronuncia del giudice di primo grado, cui fa infatti rinvio (le dichiarazioni di soggetti terzi, che avevano identificato il COGNOME come l’unico interlocutore nei rapporti tenuti con la società, a fronte di una amministratrice quasi ottuagenaria, che non aveva mai avuto esperienze lavorative significative; le operazioni di ripiano di ingenti debiti sociali, cui aveva provveduto il ricorrente in anni vicini a quelli oggetto di verifica).
Valgono in questo caso le considerazioni già illustrate con riguardo al sesto motivo, laddove le difese del ricorrente tentano solo di ottenere un inammissibile -in sede di legittimità- rivalutazione dei fatti nel merito.
Il ricorso va in definitiva rigettato. Le spese seguono la regola della soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese di causa, che si liquidano nell’importo di € 13 .000,00, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unif icato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis del medesimo articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il giorno 15 gennaio 2025