Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 5916 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 5 Num. 5916 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 05/03/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
RAGIONE_SOCIALE , in persona del Direttore pro tempore ;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE con sede in Spoleto, INDIRIZZO, C.F. P_IVA, in persona del Presidente -legale rappresentante -Sig. NOME COGNOME nato a Spoleto il 10 luglio 1947, elettivamente domiciliata ai fini del presente giudizio in Roma, INDIRIZZO presso lo Studio dell’Avv. NOME COGNOME (CODICE_FISCALE del Foro di Roma, che la rappresenta e difende, giusta procura su foglio separato da intendersi materialmente congiunta al presente atto
– controricorrente –
Avverso la sentenza della Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado dell’Umbria n. 147/1/24 depositata il 15 aprile 2024.
Udita la relazione della causa svolta alla pubblica udienza del cinque febbraio 2025 dal consigliere NOME COGNOME.
AGEV. IRES
RAGIONE_SOCIALE
Dato atto che il Sostituto procuratore generale NOME COGNOME ha concluso per il rigetto del ricorso.
Dato atto che la difesa erariale ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
Dato atto che l’avv. NOME COGNOME per delega del difensore del controricorrente avv. NOME COGNOME ha concluso per il rigetto del ricorso.
RILEVATO CHE
La Fondazione Cassa di Risparmio di Spoleto presentava istanza di rimborso ritenendo a sé applicabile l’agevolazione di cui all’art. 6 DPR 601/73. L’importo era pari a: – euro 43.581,50, a titolo di maggiore Ires ritenuta indebitamente versata in relazione al periodo d’imposta 2018; – euro 68.865,48, a titolo di maggiore Ires ritenuta indebitamente versata in relazione al periodo d’imposta 2019; -euro 67.323,00, a titolo di maggiore Ires ritenuta indebitamente versata in relazione al periodo d’imposta 2020; -euro 49.243,15, a titolo di maggiore Ires ritenuta indebitamente versata in relazione al periodo d’imposta 2021. La Fondazione affermava di operare nei settori di rilevanza sociale previsti dall’art. 6 D.P.R. 601/73. Formatosi il silenziorifiuto dell’Agenzia, la Fondazione lo impugnava. La CTP, con sentenza n. 433/2023, accoglieva il ricorso, ritenendo in particolare errata e del tutto innovativa la tesi per cui ai fini dell’applicabilità dell’agevolazione, la fondazione avrebbe dovuto dimostrare ‘lo svolgimento in modo diretto ed esclusivo di attività di promozione sociale e culturale’. Si riteneva altresì assolto l’onere di dimostrare il requisito costituito dalla impossibilità di influire sulla gestione della banca conferitaria, soprattutto a fronte della percentuale detenuta di partecipazione e della copiosa documentazione presentata dalla ricorrente, senza che la resistente amministrazione avesse precisato quale sarebbero stati gli ulteriori documenti contabili o societari recanti i dati in grado di provare ragionevolmente l’impossibilità di ingerirsi negli
indirizzi operativi dell’azienda bancaria; precisazione certo non rinvenibile nella mera elencazione di documenti (il bilancio; gli estratti dei libri contabili; le deliberazioni assembleari; le certificazioni dell’organo di controllo della fondazione o delle società partecipate). Sempre per il primo giudice risultava altresì dimostrato il requisito di avere la fondazione nel complesso svolto, nelle annualità di interesse ed in concreto, prevalente attività di promozione sociale e non di mera gestione della partecipazione detenuta, in relazione alla percentuale dei proventi destinata alle attività suddette. L’Agenzia proponeva appello avverso la suddetta sentenza. La Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado nel merito, circa in particolare il requisito oggettivo inerente alle attività svolte dalla Fondazione, riteneva che il concetto di diretta strumentalità non significherebbe svolgimento diretto ‘in prima persona’ dell’attività ‘meritoria’ o del progetto di utilità sociale ma verrebbe invece in rilievo l’attività dei destinatari delle erogazioni, per verificare se esse rientrano nel settore di intervento individuato dallo Statuto, e poi l’indagine dovrebbe incentrarsi sull’attività della Fondazione per verificare che essa sia svolta senza la caratteristica di imprenditorialità. L’onere della prova relativa sarebbe a carico della Fondazione, che nella specie l’avrebbe assolto dimostrando che le attività finanziate rientrano nei settori di intervento previsti dallo statuto ‘adeguato’, che i redditi conseguiti sono stati utilizzati per le finalità statutarie, che l’attività svolta dalla Fondazione per conseguire i redditi di capitale e di locazione è stata svolta senza nessuna caratteristica imprenditoriale. L’assenza di imprenditorialità nella gestione dell’attività di locazione era poi avvalorata dai chiarimenti contenuti nella Circolare dell’Agenzia delle entrate n. 35/E del 28.12.2023, secondo cui ‘i redditi derivanti dalle locazioni/vendite del patrimonio immobiliare degli enti di assistenza e beneficenza godono dell’agevolazione sempreché siano destinati a finanziare l’attività istituzionale e non
si riscontri un’attività organizzata in forma di impresa nella gestione immobiliare’.
Ricorre quindi in cassazione l’Agenzia affidandosi a due motivi. La contribuente resiste a mezzo di controricorso, e la difesa erariale ha successivamente depositato memoria illustrativa.
CONSIDERATO CHE
1. Con il primo motivo si deduce ‘nullità della sentenza e del procedimento per violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c. e dell’art. 36 D.Lgs. 546/92, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4) c.p.c.’ – Nel caso di specie, infatti, il Collegio, dopo aver rilevato la necessità della sussistenza dei requisiti (soggettivi e oggettivi) per usufruire dell’agevolazione in parola, si limiterebbe ad affermare, in maniera assolutamente apodittica e immotivata, che: -‘Il Collegio ritiene sussistente anche il requisito oggettivo in quanto la Fondazione ha assolto all’onere della prova che le incombeva dimostrando che le attività finanziate rientrano nei settori di intervento previsti dallo statuto ‘adeguato’, che i redditi conseguiti sono stati utilizzati per le finalità statutarie, che l’attività svolta dalla Fondazione per conseguire i redditi di capitale e di locazione è stata svolta senza nessuna caratteristica imprenditoriale’ e ancora ‘Il Collegio ritiene che le due condizioni esplicitate dall’Agenzia affinchè i redditi di locazione usufruiscano della riduzione a metà dell’aliquota IRES, e cioè destinazione dei profitti al finanziamento dei fini istituzionali e svolgimento di attività organizzata non in forma di impresa, siano soddisfatte non solo dall’attività di locazione ma anche dall’attività di investimento finanziario da cui la Fondazione ricava proventi e redditi e che per questo motivo possono godere dell’agevolazione dell’IRES alla metà ex art. 6 c.1 del DPR n. 601/1973’ (cfr. pag. 6 sentenza di appello).
In altri termini, non sarebbe dato evincere: il perché e sulla scorta di quale elemento/documento etc., il Giudice di seconde cure
compia le suddette affermazioni; – la disamina logico/giuridica degli elementi sottesi alla decisione adottata. I Giudici di appello, quindi, perverrebbero ad una conclusione che, a bene vedere, si pone in netto contrasto con la più recente giurisprudenza di legittimità (Cass., Ord., 7 febbraio 2024, n. 3503).
1.1. Il motivo appare infondato.
Invero la CTR chiarisce l’iter logico seguito nella decisione circa la sussistenza dei requisiti soggettivo ed oggettivo.
In particolare, con speciale riferimento al secondo, oggetto della critica mossa dalla difesa erariale, a fronte del fatto che negli anni in questione, dal 2018 al 2021, il reddito della Fondazione deriverebbe da utili di partecipazione in varie società ed interessi attivi e fitti attivi, come si evince dai dati delle dichiarazioni dei redditi, il giudice d’appello spiega intanto che l’assenza di imprenditorialità deriverebbe dal fatto che la Fondazione destina i proventi da locazione immobiliare a fini istituzionali e che gli immobili concessi in locazione non sono inseriti in un contesto produttivo ma sono posseduti al solo scopo di trarne redditi di natura fondiaria, attraverso il quale appunto essa sostiene e si procura i proventi per poter raggiungere i fini istituzionali.
Sotto il profilo poi dell’attività di investimento finanziario da cui la Fondazione ricava ulteriori proventi e redditi, il giudice tributario basa l’esclusione dell’attività gestoria delle relative aziende sulla minima entità della partecipazione all’impresa collettiva bancaria (Intesa).
Infine, quanto alla non totalità dell’utilizzo dei vari proventi nelle attività meritorie, il giudice di merito si basa sul fatto che non viene dimostrato che i proventi legati alla gestione delle partecipazioni siano stati impiegati in altre attività che esulano dalle finalità istituzionali e comunque la destinazione degli stessi alle finalità istituzionali potrebbe avvenire anche in anni successivi.
Considerato che la censura di motivazione apparente attiene ad un profilo di invalidità della pronuncia, attraverso il quale si denuncia l’impossibilità di ricostruire l’iter logico attraverso il quale il giudice giunge alla propria decisione, e non di condivisione o meno delle relative statuizioni, foss’anche sotto altri profili di legittimità, il motivo dev’essere appunto respinto.
Violazione e falsa applicazione dell’art. 6 d.p.r. 601/73 e dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3) c.p.c. Con esso l’Agenzia impugna la pronuncia in questione (primo profilo) laddove essa ritiene non necessaria la gestione diretta delle attività meritorie, come invece stabilito dalla giurisprudenza e da atti di prassi (n. 15/E del 2022) in tutta coerenza a livello sistemico con le intenzioni del legislatore, che avrebbe inteso agevolare i soggetti dediti allo svolgimento diretto da parte degli stessi delle attività meritevoli di un trattamento fiscale di favore.
In relazione poi all’onere probatorio incombente sulla fondazione, si duole la difesa erariale (secondo profilo) che il giudice d’appello non abbia considerato che pur avendo essa esibito lo Statuto, i documenti Programmatici previsionali per gli anni 2017-2019, 20202022, i bilanci d’esercizio 2018 -2021, con stralci delle note integrative, tuttavia essa non ha esibito il Regolamento, gli estratti dei libri contabili, le deliberazioni assembleari, le certificazioni dell’Organo di controllo della Fondazione o delle società partecipate, i documenti relativi all’attività effettivamente esercitata, né è stato provato specificamente che il reddito per cui si richiede l’agevolazione derivi da quella attività.
Inoltre, si censura la sentenza impugnata (terzo profilo) per non aver il giudice d’appello valorizzato l’impiego solo parziale dei proventi nel finanziamento di attività meritoria, avendo in particolare l’Agenzia dimostrato che il patrimonio della Fondazione si era incrementato per la cifra complessiva di € 2.352.547,00, a fronte di introiti, da dividendi ed interessi, pari ad € 4.961.637,00.
Dunque, in totale non sarebbe stata utilizzata, per i fini istituzionali, una percentuale degli introiti pari al 47,41%.
Ancora, il giudice d’appello avrebbe trascurato (quarto profilo) che dall’analisi della documentazione fornita, si evince che la Fondazione avrebbe non soltanto finalità di assistenza, di istruzione e culturali ma, anche, finalità non riconducibili a quelle oggetto dell’invocata disposizione di beneficio, quali la promozione dello sviluppo economico, la sicurezza alimentare e agricoltura di qualità, etc.
Segnala l’Agenzia tra i progetti esulanti le finalità dell’art. 6 d.p.r. n. 601/1973: 2019, sviluppo locale ed edilizia popolare locale ( vari progetti propri e 1 richiesta pervenuta tramite bando per un totale di € 39.500); tra essi € 20.000 per la realizzazione della fiction Don Matteo; € 2.500,00 per la realizzazione dello spettacolo pirotecnico a conclusione della manifestazione Festival dei due mondi (per la quale erano comunque già stanziati € 92.536,00); € 5.000,00 per la manifestazione ‘RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE‘; 2020 edilizia locale popolare (8 progetti propri e n. 1 richiesta pervenuta tramite bando per un totale di € 58.829); tra cui euro 5.000,00 (quale ulteriore contribuzione per la realizzazione della fiction Don Matteo; € 10.000,00 a Confcommercio Umbria per la realizzazione della manifestazione ‘RAGIONE_SOCIALE‘; 2021 edilizia popolare locale (n. 3 progetti propri e n. 2 richieste pervenute tramite bando per un totale di € 45.450); tra cui € 23.000,00 quale contribuzione per la realizzazione della famosa fiction Don Matteo. Viene segnalata ancora per il 2020 lo stanziamento della somma di € 13.000,00 per la costituzione del ‘Fondo Sostegno Comunicazione Locale’, affinché attraverso i canali media possa essere diffusa l’attività istituzionale che viene svolta durante l’anno 2020, integrati nel semestre per un totale di circa € 5.283,00; impegnata la somma di circa € 7.900,00 per l’istituzione di un ‘Fondo Sostegno Editoriale’ al fine di acquistare volumi di qualità; per il 2021 lo stanziamento
della somma di € 26.500,00 per la costituzione del ‘Fondo Sostegno RAGIONE_SOCIALE‘, come sopra con ulteriori fondi per € 5.283,00; € 2.000,00 per l’istituzione di un ‘Fondo Sostegno Editoriale’ al fine di acquistare volumi di qualità. Ad essi vanno aggiunti tutte le numerose erogazioni nei confronti di varie Associazioni Sportive Dilettantistiche a cui non potrebbero ascriversi finalità di assistenza o soccorso, né in ogni caso culturali o di ricerca. Il sostegno all’attività agonistica infatti esulerebbe dai fini propriamente culturali (che andrebbero interpretati tra l’altro in senso restrittivo, considerando le finalità di promozione dell’istruzione della norma) e si tradurrebbe in una mera sovvenzione a vantaggio degli associati.
Analoghe considerazioni vengono svolte anche per i contributi alla Federazione Italia di Biliardo sportivo, All’Associazione RAGIONE_SOCIALE.
2.1. Va anzitutto chiarito qual sia lo stato della giurisprudenza in ordine alla natura delle fondazioni bancarie, così come risultanti (ratione temporis) dalla c.d. riforma COGNOME, recata dal d.lgs n. 356/1990, in base alla quale gli enti creditizi vennero trasformati in persone giuridiche private senza fine di lucro (C.Cost. ord. n. 300 del 2003), che conferivano l’azienda bancaria in società per azioni, acquisendone in cambio l’intero pacchetto azionario o una parte consistente dello stesso, e successivamente dalle fondazioni bancarie introdotte dalla riforma Ciampi recata dal d.lgs. n. 153/1999.
Orbene con riferimento a tali enti, questa Corte ha avuto plurime volte occasione di chiarire che essi, gravati dall’obbligo di detenere e conservare la maggioranza del capitale delle società bancarie come previsto dall’art. 12, d.lgs n. 356/1990, dunque funzionalmente (e per la ragione appena indicata) e geneticamente vincolati alle aziende suddette (in tal senso C. Cost. sent. n. 163 del 1995), non potevano essere assimilati né alle persone
giuridiche di cui alla l. n. 1745/1962 né agli enti con le finalità sociali sopra riportate di cui all’art. 6, d.p.r. n. 601/1973, i quali ultimi sono invece caratterizzati da un fine sociale già esistente al momento di entrata in vigore della disposizione (Cass. 16842/2013), e pertanto non potevano in linea di principio fruire dei relativi benefici.
Tale orientamento risulta confermato sia dalla pronuncia Cass. 16906/20, sia da ultimo da Cass. 31203/24, che proprio dalla differente natura degli enti in parola ha tratto argomento per una diversa disciplina in tema di enti fin dall’origine aventi finalità sociale (nella specie di gestione della previdenza obbligatoria di una determinata categoria professionale).
Ne deriva, dal punto di vista processuale, che deve presumersi che tale tipologia di ente, detenendo e conservando una rilevante (se non totalitaria) partecipazione nella società, avesse come finalità precipua la gestione della stessa.
Espressione di tale orientamento è, anche con riferimento alle fondazioni bancarie (che succedono temporalmente agli enti previsti dalla riforma Amato), la pronuncia già richiamata (Cass. 16906/20), che appunto proprio per la vocazione gestoria dell’ente, richiede che la asserita finalità di utilità sociale sia oggetto di dimostrazione, dovendosi in difetto presumere (Cass. Sez. U. n. 1576/2009) che l’ente abbia avuto di mira la gestione della banca conferitaria, circostanza quest’ultima, come detto, rispondente alle finalità istituzionali e quindi alla regolarità dei casi, di cui esso, sempre in virtù dell’origine dell’ente, in via normale detiene una partecipazione significativa ai fini del controllo diretto od indiretto.
Deve però operarsi una distinzione temporale, consistente nel fatto che mentre per gli enti previsti dal d.lgs n. 218/1990 era istituzionalmente prevista la gestione della partecipazione totalitaria o maggioritaria nelle società bancarie, e la stessa continuò ad essere ammessa fino al 2005 (termine poi prorogato al
2006) anche per le fondazioni istituite a mezzo del d.lgs. n. 153/1999, dopo tale termine le stesse hanno dovuto disfarsi di tale partecipazione.
Ciò peraltro continua a giustificare l’esistenza di un onere probatorio in capo alla fondazione, non solo in relazione all’originale funzione svolta dalla fondazione, e poi ancor ammessa dall’ordinamento per vari anni, ma anzitutto perché ferma quell’origine la disciplina ha stabilito che in difetto di dismissione l’ente andrà considerato come avente natura commerciale e dunque dovrà dimostrare pur sempre l’assenza di partecipazioni nelle imprese, e soprattutto perché proprio la disponibilità della rilevante se non totalitaria partecipazione ha di necessità comportato la relativa dismissione a titolo oneroso, con onere di dimostrare che l’investimento di tali disponibilità non ha consentito la partecipazione di controllo su altre imprese (come espressamente la norma vuole evitare che accada), e -ai fini che qui interessano -perché la fondazione, invocando un credito di rimborso è attore in senso sostanziale, e per di più fondato su un beneficio, in deroga ai generali principi in tema di capacità contributiva. Il tutto dovendosi osservare che allo scopo non può certo essere sufficiente invocare la mera veste di fondazione.
Peraltro deve rimarcarsi come in virtù del comma 3bis dell’articolo 25 del d.lgs. n. 153 del 1999, aggiunto dall’articolo 80, comma 20, della legge 27 dicembre 2002, n. 289 e poi sostituito dall’articolo 4 del decreto legge 24 giugno 2003, n. 143, convertito, con modificazioni, dalla legge 1 agosto 2003, n. 212, il divieto di partecipazione nelle società bancarie o in altre società con loro controllo, non si applica alle fondazioni con patrimonio netto contabile inferiore ai 200 milioni di euro.
La corretta sussunzione della fattispecie nella norma in commento richiede dunque da parte del giudice del merito, in caso di controversia circa la spettanza dell’agevolazione e in particolare
della ricorrenza dei relativi presupposti nei confronti di una fondazione, anche per redditi maturati dopo il 2006, di porre in capo allo stesso l’onere della prova, oltre che, come vedremo, il concreto perseguimento della finalità sociale contemplata dall’art. 6 d.p.r. n. 601/1973:
-dell’insussistenza di una partecipazione maggioritaria o altrimenti determinante;
-dell’insussistenza di obblighi statutari di mantenimento di una partecipazione significativa o di controllo e l’esercizio di poteri di intervento diretto, tramite intervento diretto di propri organi nel consiglio d’amministrazione della banca;
-altre forme di condizionamento come elencate dall’art. 23 T.U.B.
Elementi questi ritraibili sia dallo statuto che da bilanci, note agli stessi e altri documenti nella disponibilità dell’ente
2.2. Sotto un primo profilo emerge evidente come la C.G.T. di 2^ grado abbia incentrato la propria attenzione solo sull’utilizzo dei proventi e non sul perseguimento delle finalità della norma in parola attraverso propria attività.
In proposito, in base alla giurisprudenza di questa Corte, l’indagine andava invece estesa alla concreta attività svolta dall’ente per il perseguimento delle finalità sociali suddette.
Invero questa Corte ha stabilito -con orientamento costante nel tempo – che le fondazioni, per vincere la presunzione sopra indicata, non devono limitarsi a provare il mero fatto di avere destinato concretamente anche tutte le risorse disponibili all’attuazione dello “scopo” di utilità generale, bensì, più radicalmente, “di avere svolto una attività…di prevalente o esclusiva promozione sociale e culturale” (ancora Cass. n. 4278/2010).
Siffatto orientamento, che dunque richiede la prova della gestione alternativa, cioè dell’impegno diretto degli enti nel perseguimento delle finalità indicate dall’art. 6, d.p.r. n. 601/1973, risulta anche
recentemente confermato da questa Corte secondo cui, ai fini della concessione del beneficio, il giudice di merito non può limitarsi «ad accertare che la Fondazione aveva impiegato per gli anni in questione una consistente parte delle risorse per attività di promozione sociale e culturale. Tale circostanza, tuttavia, non è determinante perché, laddove si accedesse all’interpretazione dell’art. 6 sottesa a tale statuizione, si finirebbe con il riconoscere il beneficio in ragione del mero status di Fondazione, così disattendendo sia la sentenza di rinvio che le Sezioni Unite che ne costituiscono l’antecedente» (Cass. n. 27300/23).
Nel caso da ultimo citato la sentenza impugnata venne cassata appunto perché il giudice d’appello non aveva verificato se la contribuente avesse fornito la prova di non svolgere anche indirettamente attività di impresa. Il giudice, infatti, si era limitato ad accertare che la Fondazione aveva impiegato per gli anni in questione una consistente parte delle risorse per attività di promozione sociale e culturale. Tale circostanza, tuttavia, non è stata giudicata determinante.
Nella specie va dunque censurato il modo di procedere adottato dal giudice d’appello, laddove lo stesso appunto si è scientemente limitato a verificare la mera destinazione delle risorse, e non già l’esercizio di un’attività meritoria.
La giurisprudenza della Corte è quindi nel senso che, ferma la differente disciplina di beneficio che può riguardare la destinazione delle risorse a liberalità, l’agevolazione consistente nel dimezzamento dell’aliquota preveduta dall’art. 6 d.p.r. n. 601/1973 dipende dal perseguimento delle finalità ivi stabilite come attività dell’ente medesimo.
Tanto dipende dalla stessa considerazione contenuta nella disposizione in esame, che concerne enti che svolgono direttamente le attività meritorie.
Invero la giurisprudenza di questa Corte ha chiaramente indicato come in proposito ‘occorre la dimostrazione che tali attività abbiano costituito le uniche espletate dall’ente’ (arg. ex Cass. SS.UU. 27619/2006), quale presupposto per legittimare la conclusione della riconducibilità delle fondazioni tra i beneficiari dell’agevolazione di cui all’art. 6 D.P.R. 601/1973, che dunque devono svolgere in modo diretto ed esclusivo di attività meritoria.
Tale conclusione, imposta dal tenore anche letterale della disposizione (che infatti si riferisce a ‘enti il cui fine e’ equiparato per legge ai fini di beneficenza o di istruzione’), è coerente con altre disposizioni legislative, ed in special modo con l’art. 10, comma 2-bis, d.lgs. n. 460/1997 (introdotto dal d.l. n. 185/2008), che solo in via di deroga amplia il concetto di beneficenza alle erogazioni con riguardo a specifici enti.
D’altronde nel concetto di gestione diretta pare del tutto compatibile l’ipotesi in cui il progetto sia pur realizzato in via esecutiva da terzi, mantenendo però l’ente (in questo caso la fondazione bancaria) un ruolo di controllo o supervisione sull’effettiva destinazione dei fondi e sulla realizzazione degli obiettivi sociali.
La mancata indagine sul punto si spiega ove si considera che il giudice d’appello ha espressamente ritenuto che la stessa dovesse concentrarsi solo sulla natura non imprenditoriale dell’ente da un lato e dall’altro sul perseguimento delle finalità solo attraverso l’impiego dei proventi, osservando che ‘se così (non, n.d.r.) fosse questa circostanza basterebbe ad affermare che le Fondazioni bancarie non possono godere dell’agevolazione, perché non effettuano direttamente nessuna attività sociale ed erogano solo contributi.’.
Evidente, dunque, come il giudice d’appello parta dal presupposto esattamente contrario a quello proprio dell’insegnamento che si trae dalle decisioni indicate.
Il che evidentemente non toglie che in parte i proventi percepiti dalla fondazione possano essere devoluti a progetti di terzi soggetti, purché appunto l’attività della fondazione in sé sia destinata alle finalità sopra elencate e volute dall’art. 6 d.p.r. n. 601/1973.
Ma occorre che l’ente svolga in concreto una delle attività indicate dalla disposizione, e sopra appena elencate, nel senso e nei limiti suddetti.
In altri termini la natura in esame va dimostrata non solo sotto il profilo formale, con riferimento agli scopi individuati dalle norme e dallo statuto, ma anche dal punto di vista sostanziale, considerato che la l’attività in concreto esercitata prevale, comunque, sul fine dichiarato. E sotto questo ultimo profilo occorre la dimostrazione del concreto svolgimento di una delle attività ivi elencate da parte degli enti individuati dalla norma quali meritevoli del trattamento agevolativo.
La norma in esame, sia chiaro, non vieta alla fondazione stessa di limitarsi a riscuotere fitti o percepire redditi da capitale in altra forma e di fruire di altri benefici per poi devolverli in liberalità, purché essa non pretenda anche di accedere al beneficio di cui alla norma in esame che siffatto diretto svolgimento, come denuncia lo stesso testo della norma (che a tipologie di enti svolgenti in concreto l’attività benefica si rivolge), sottende.
Sotto tale profilo è evidente che la fondazione in sé può perseguire finalità più ampie rispetto a quanto previsto dall’art. 6 citato e, in base alle leggi istitutive, può anche essenzialmente concentrarsi sulla distribuzione dei redditi a finalità latamente sociali, come dimostrano le disposizioni di cui all’art. 3, co. 1, d.lgs n. 153/1999 (secondo cui ‘è esclusa altresì qualsiasi forma di finanziamento, di erogazione o, comunque, di sovvenzione, diretti o indiretti, ad enti con fini di lucro o in favore di imprese di qualsiasi natura …’) o il successivo co. 4 (che disciplina e vincola l’attività erogativa,
precisando che le fondazioni ‘… determinano in via generale, nelle forme stabilite dagli statuti, le modalità e i criteri che presiedono allo svolgimento dell’attività istituzionale, con particolare riferimento alle modalità di individuazione e di selezione dei progetti e delle iniziative da finanziare, allo scopo di assicurare la migliore utilizzazione delle risorse e l’efficacia degli interventi’), ma ciò non implica che automaticamente il rispetto dei più ampi limiti previsti dalla disciplina istitutiva in parola comporti quello della più ristretta finalità e dei presupposti che sono previsti per fruire di un particolare beneficio, qual è appunto quello preveduto dall’art. 6, d.p.r. n. 601/1973.
Casomai la comparazione ope legis del perseguimento delle attività e dei limiti indicati dal d.lgs n. 153/99 poteva predicarsi in virtù del disposto di cui all’art. 12, comma 2, del d.lgs medesimo, però abrogato dal d.l. n. 168/2004, come ritenuto tra l’altro da un documento di prassi secondo cui tale abrogazione ha avuto ‘il più limitato (ma comunque significativo) effetto di aver fatto venire meno solo il meccanismo automatico previsto del legislatore del 1999’ e dunque ‘ha comportato la «riespansione» della disposizione generale (art. 6 D.P.R. 601/1973) …’ (Circ. n.15/22). ‘coerentemente con la ratio legis … la disposizione
Né vale a concludere diversamente quanto ritenuto in generale in tema di beni immobili e di godimento dei relativi redditi da parte di enti religiosi dalla stessa Agenzia (circ. n. 15/E del 2022), poiché in tal caso è stato chiarito dagli atti di prassi, ma in conformità con il tenore qui ricostruito del portato dell’art. 6 in commento che recata dall’articolo 6 del d.P.R. n. 601 del 1973, in via di principio, (può) applicarsi anche ai proventi derivanti dal mero godimento del patrimonio immobiliare … purché tali proventi siano effettivamente ed esclusivamente impiegati nelle attività di «religione o di culto»’, poiché è evidente che in tal caso al godimento si accompagna lo svolgimento (per la natura stessa dell’ente) dell’attività di religione
e di culto (mentre la fondazione nasce per gestire una partecipazione bancaria), oltre che la finalizzazione delle risorse a tale scopo. E proprio per questo se ne conclude che ‘Ragionando diversamente (…) la norma non realizzerebbe le proprie finalità, in quanto, essendo le attività religiose rese, come detto, prevalentemente a titolo gratuito, le stesse non potrebbero mai generare di per sé redditi, cui applicare il dimezzamento dell’aliquota’.
In definitiva la fondazione, libera di perseguire le finalità più ampie previste dalle leggi istitutive e anche di limitarsi a erogare liberalità per tali fini, se invece vuole beneficiare di quanto previsto dall’art. 6 d.p.r. n. 601/1973, deve da un lato dimostrare di aver perseguito le più ristrette finalità ivi menzionate, e dall’altro deve perseguirle quale fondazione operativa e non meramente erogativa.
A ciò il giudice d’appello non si è conformato.
2.3. Sotto il secondo profilo deve ammettersi, anche in base a quanto fin qui esposto, che le fondazioni debbono esse fornire la prova di non gestire l’attività imprenditoriale (non strumentale all’attività meritoria), non essendo per quanto detto sorte per la gestione di attività meritoria (come invece vale per gli enti contemplati dall’art. 6 d.p.r. n. 601/1973).
La censura circa la mancata valutazione dell’assenza di produzione di una serie di documentazione invece rilevante ai fini del giudizio di ricorrenza dei presupposti per l’ottenimento del beneficio invocato, sotto tale profilo, coglie dunque anch’essa il segno.
Ciò tanto più se si considera che la giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. Sez. U. n. 5069/2016) ha statuito che occorre ‘conferire rilievo, indipendentemente dal possesso di partecipazioni azionarie di controllo, all’eventuale stipulazione di patti parasociali, idonei a consentire, anche congiuntamente ad altri soggetti, l’esercizio di un’influenza sulla gestione dell’impresa bancaria, nonché lo
svolgimento di attività economica anche non caratterizzata da scopo di lucro’.
E ancora va evidenziato che
‘Assume particolare rilevanza (…) l’eventuale partecipazione della fondazione -azionista maggioritario o non maggioritario della società che esercita l’impresa bancaria ad accordi parasociali e specialmente a patti di sindacato sul diritto di voto, soggetti, per le società quotate in borsa, ad un rigoroso regime di pubblicità (l. 12 febbraio 1992, n. 149), attraverso i quali l’azionista anche non maggioritario -può svolgere una determinante influenza sulla gestione sociale, ad esempio sulla nomina degli amministratori o sugli assetti proprietari. La possibilità di esercitare influenza dominante sulla gestione sociale mediante accordi parasociali di vario contenuto, e quindi a prescindere dal possesso del capitale di controllo, è stata riconosciuta dalla giurisprudenza di questa Suprema Corte (sent. 23 gennaio 2001, n. 14865).
Inoltre, dai vari bilanci, come riferito nel ricorso, emerge la disponibilità di partecipazioni in varie società in capo alla Fondazione (nel 2018 euro 2.623.893; nel 2021 euro 8.070.070,00).
In proposito viene in rilievo che
‘Occorre sempre accertare che l’attività della fondazione non presenti i connotati propri dell’esercizio di un’impresa, tenendo conto che è qualificabile come tale, indipendentemente dal carattere non lucrativo dei compiti istituzionali assegnati all’ente, anche l’esclusiva gestione dell’originaria partecipazione nella banca conferitaria, e che la completa dismissione di tale partecipazione non comporta automaticamente il venir meno dei predetti connotati, quando le risorse da essa ricavate siano state utilizzate per acquisire partecipazioni in altre imprese, anche non bancarie’ (Cass., n. 10258/2007).
Quanto agli immobili, a fronte di un consistente patrimonio immobiliare, circa la metà e più (in base alle stesse tabelle riportate nel controricorso) è costituito da immobili non strumentali (in ordine al possesso di beni immobili non strumentali cfr. la loro compatibilità con i limiti indicati dall’art. 7, comma 3 -bis, d.lgs. n. 153/99).
A fronte di tutto ciò il giudice d’appello s’è limitato a considerare che la fondazione riscuoteva dei fitti e aveva una minima partecipazione in relazione all’azienda bancaria Intesa.
2.4. Sotto il terzo profilo si desume, altresì, che è mancata l’indagine in ordine al fatto che i proventi venissero integralmente o anche solo prevalentemente destinati al raggiungimento degli scopi sociali.
A tale proposito, l’Ufficio sulla base dei bilanci ricavava che solo il 47,41% degli introiti veniva utilizzato per i fini istituzionali, il che risulta perfettamente compatibile con un rilevante accantonamento la dimostrazione del cui fine è ancora una volta, e per quanto già detto, a carico della parte contribuente.
Sul punto invece il giudice d’appello si è limitato a constatare che appunto gli importi sopra calcolati erano destinati alla finalità istituzionale, limitandosi a osservare che l’accantonamento del resto poteva essere compatibile con un futuro utilizzo alle suddette finalità.
Orbene se l’onere probatorio circa il perseguimento delle finalità sociali, per quanto detto, grava sulla fondazione, esso non può certo essere ritenuto assolto dal giudice con la mera congettura circa una possibile -e dunque non dimostrata -futura collocazione all’interno delle finalità istituzionali, ma essa deve semmai essere oggetto di concreta e fattuale dimostrazione scrutinata poi, nella sua consistenza, dal giudice medesimo.
2.5. Sotto il quarto profilo l’Agenzia elenca una serie di progetti che reputa esulanti dalle finalità strettamente previste dalla disciplina
agevolatrice, e che semmai possono costituire liberalità oggetto di altra tipologia di beneficio, e anche sotto questo punto è mancata qualsiasi analisi da parte del giudice del merito.
Anche tale verifica, ai fini della corretta sussunzione, era dovuta, al lume delle indicate attività ritenute come esulanti dalle finalità di legge, ove si ponga mente al fatto che trattandosi di beneficio fiscale comportante la riduzione dell’aliquota normale, si versa in ipotesi di disposizione di natura derogatoria e dunque di stretta interpretazione. Dunque, a fronte della deduzione dell’estraneità dell’attività (rispetto, si ripete ancora una volta, al beneficio delineato dall’art. 6 d.p.r. n. 601/1973, senza interferenze con quanto stabilito dal d.lgs. n. 153/1999, cfr. retro, par. 2.2), andava verificata -ma così non è stato – la sua riconducibilità alle finalità suddette ( fine in particolare che dev’essere equiparato per legge a quelli di beneficenza o di istruzione).
2.6. Infine, non può trascurarsi che la disciplina in esame, ove non interpretata alla luce dei limiti di cui s’è detto, soprattutto in ordine all’onere della prova, si porrebbe in contrasto con quella unionale in tema di divieto di aiuto di stato, come pure dedotto, ed in particolare in violazione dell’art. 87, comma 1, Trattato CE.
In proposito il mancato contrasto viene da questa Corte fatto dipendere proprio dal fatto che si ritiene insussistente il diritto al ” beneficio (riduzione alla metà dell’IRES) di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 601 del 1973, articolo 1 (in ultimo S.U. 1576/2009)’ ove sia ‘sussistente l’attività commerciale di Enti quali le Fondazioni bancarie, secondo il diritto comunitario’, quindi laddove ‘le stesse non avessero concretamente dimostrato, e indipendentemente dalle previsioni statutarie, di aver svolto, un’attività prevalente od esclusiva di promozione sociale o culturale, anziché di controllo o governo delle partecipazioni bancarie, e sempre che tale prova sia stata introdotta in giudizio secondo le regole proprie del processo tributario, ovvero mediante
la proposizione da parte del contribuente, di specifiche questioni nel ricorso introduttivo (Cass. 5740/2007; 7883/2007; 10253/2007; 10258/2007; 13559/2007; 14087/2007)’ (Cass. 2 aprile 2010, n. 8082; Cass. 24 febbraio 2010, nn. 4416 e 4454).
In proposito mette conto rilevare che la sentenza CGUE 10 gennaio 2006, C-222/04, ha ritenuto compatibile con la disciplina comunitaria sugli aiuti di Stato l’agevolazione dell’IRES ridotta in ragione del versamento di contributi ad enti che agiscano senza scopo di lucro, avendo tale attività ‘natura esclusivamente sociale’, dunque purché ‘svolta su un mercato in concorrenza con altri operatori’ e comportandosi come ‘un ente di beneficenza o un’organizzazione caritativa, e non come un’impresa’.
L’esclusività così richiesta non può che passare attraverso la relativa prova positiva, così come sopra delineata, e solo così si giustifica il beneficio senza che lo stesso costituisca -appunto -aiuto di stato.
Al postutto il ricorso dev’essere accolto, con cassazione della sentenza impugnata e rinvio al giudice d’appello che si conformerà ai principi qui espressi, e provvederà altresì alla liquidazione delle spese di lite del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado dell’Umbria che, in diversa composizione, si atterrà ai principi qui espressi e provvederà altresì alla liquidazione delle spese di lite del presente giudizio.
Così deciso in Roma, il 5 febbraio 2025