Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 5914 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 5 Num. 5914 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 05/03/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
RAGIONE_SOCIALE , in persona del Direttore pro tempore ;
– ricorrente principale – contro
RAGIONE_SOCIALE con avv.
NOME COGNOME
– controricorrente e ricorrente incidentale –
Avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale delle Marche, n. 49/2022 depositata il 17 gennaio 2022.
Udita la relazione della causa svolta alla pubblica udienza del cinque febbraio 2025 dal consigliere NOME COGNOME.
Dato atto che il Sostituto procuratore generale NOME COGNOME ha concluso per l’accoglimento del ricorso principale e il rigetto di quello incidentale.
Dato atto che la difesa erariale ha concluso per l’accoglimento del ricorso principale ed il rigetto di quello incidentale.
AGEV. RAGIONE_SOCIALE
Dato atto che il difensore del controricorrente e ricorrente incidentale, avv. NOME COGNOME ha concluso per l’accoglimento del ricorso incidentale e rigetto di quello principale.
RILEVATO CHE
1.La Fondazione in epigrafe indicava -nelle dichiarazioni dei redditi relative agli anni d’imposta dal 1994 al 1998 – crediti derivanti dall’agevolazione di cui all’art. 6, d.p.r. n. 601/1973.
A seguito della relativa istruttoria, anche a mezzo di documentazione richiesta alla contribuente, l’Agenzia in data 4 dicembre 2009 notificava provvedimento di diniego. La CTP accoglieva il ricorso della contribuente ritenendo che i crediti erano diventati certi nell’ an e nel quantum nei termini previsti dall’art. 36-bis, d.p.r. n. 600/1973, termine a cui il primo giudice negava la natura decadenziale.
La CTR, adìta dall’Agenzia in sede d’appello, negava l’intervenuta decadenza in aderenza al decisum delle Sez. U. di questa Corte che, con sentenza n. 5069/2016, avevano ritenuto che i termini decadenziali fossero propri solo dell’attività di accertamento da parte dell’autorità fiscale, e non di quella con cui l’amministrazione stessa contesti la sussistenza di un proprio debito.
Nel merito tuttavia la CTR rigettava l’appello, osservando che ciò che rileva ai fini della concessione dell’agevolazione in predicato sarebbe costituito non dalla fonte da cui la Fondazione si procura la provvista, ma dalla destinazione del denaro ricavato.
Inoltre la CTR riteneva da un canto che la decrescita nella partecipazione al capitale della Banca delle Marche da parte della Fondazione fosse coerente coi fini di utilità sociale dell’ente, che dunque apparivano ampiamente documentati; dall’altro canto che la Fondazione aveva comunque dimostrato, tramite statuto, bilanci e allegati la finalità suddetta e l’assenza dei caratteri d’imprenditorialità.
In particolare la CTR riteneva che l’esiguità della partecipazione nell’impresa bancaria escludeva la possibilità di controllo da parte della fondazione e piuttosto reputava dimostrata da parte di quest’ultima lo svolgimento concreto e prevalente di un’attività di promozione sociale e culturale, in luogo di quella di governo e controllo delle partecipazioni bancarie detenute.
L’Agenzia propone così ricorso in cassazione, affidato a sei motivi, mentre la Fondazione resiste a mezzo di controricorso e spiega a sua volta ricorso incidentale condizionato, cui replica l’Agenzia a mezzo d’ulteriore controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative.
CONSIDERATO CHE
1.Con il primo motivo di ricorso si denuncia nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 2909 cod. civ., 112 e 324, cod. proc. civ. in relazione all’art. 360, primo comma, num. 4, stesso codice.
Invero l’Agenzia invoca l’autorità di giudicato esterno di alcune pronunce, intervenute fra le stesse parti, bensì relative a diversi anni d’imposta e alla diversa agevolazione di cui all’art. 10 bis l. n. 174/1962 (esenzione dall’imposta sugli utili), ma pur sempre indissolubilmente collegate a quello di specie, in quanto basate proprio sull’assenza o mancata prova dei requisiti necessari per godere dei benefici di cui al qui rilevante art. 6, d.p.r. n. 601/1973.
1.1.Il motivo è infondato poiché pacificamente la giurisprudenza di questa Corte ha chiarito che
In tema di IRPEG, ove gli enti costituiti ai sensi della l. n. 218 del 1990 e del d.lgs. n. 356 del 1990 intendano beneficiare dell’aliquota ridotta della metà prevista dall’art. 6, comma 1, d.P.R. n. 601 del 1973 debbono provare, in ossequio all’art. 2697 c.c., di avere concretamente svolto per l’anno di imposta rilevante, in via esclusiva o prevalente, attività di promozione sociale e culturale senza fini di lucro, anziché quella di controllo e governo delle
partecipazioni bancarie, dovendosi conseguentemente escludere che la sentenza passata in giudicato che abbia riconosciuto (o negato) alla fondazione il diritto alla suddetta agevolazione per un determinato periodo d’imposta faccia stato nella controversia concernente il riconoscimento della stessa riduzione per una diversa annualità, atteso che la spettanza del beneficio dipende dalla concreta attività svolta ciascun anno e non discende da uno “status” personale o dall’astratta qualità dell’attività svolta dall’ente (Cass. n. 16906/2020).
Trattandosi così di annualità differenti, non può dunque invocarsi il giudicato formatosi per le stesse con riferimento ad altri anni d’imposta, appunto per la rilevata variabilità intrinseca dell’attività concretamente svolta ciascun anno, e da cui appunto dipende lo status dell’ente ai fini in argomento.
Con il secondo motivo si deduce omesso esame di un fatto decisivo.
In particolare, si deduce che per giungere alla propria decisione la CTR elenca soltanto alcuni documenti, senza che gli stessi peraltro siano utili al superamento della presunzione di attività gestionale, con ciò tra l’altro incorrendo in vizio motivazionale.
Col terzo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 6, d.p.r. n. 601/1973 e dei principi in tema di concorrenza di cui agli artt. 87 e 88 del Trattato CE. Nello specifico si ritiene da parte dell’Agenzia che la CTR non avrebbe affatto valorizzato il fatto che non solo per ottenersi il beneficio occorre che la fondazione (o meglio l’ente, ratione temporis ) non avesse gestito direttamente od indirettamente l’azienda bancaria, ma che concretamente avesse non già finanziato ma direttamente svolto le attività meritorie aventi finalità sociale.
Col quarto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli art. 6, d.p.r. n. 601/1973 e 2697, cod. civ., avendo la CTR operato un’indebita inversione dell’onere della prova laddove essa
di fatto avrebbe onerato l’Agenzia della prova dell’estraneità tra la Fondazione e la banca conferitaria, essendosi basata su irrilevanti elementi di prova.
Col quinto motivo si denuncia violazione degli artt. 115 e 116, cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, num. 4, stesso codice.
Col sesto motivo si deduce omesso esame di un fatto decisivo, costituito dalla dedotta sussistenza di patti parasociali.
I motivi, attesa la loro connessione, vanno esaminati congiuntamente, e sono fondati.
7.1. Va anzitutto chiarito qual sia lo stato della giurisprudenza in ordine alla natura delle Istituzioni bancarie, così come risultanti (ratione temporis) dalla c.d. riforma COGNOME, recata dal d.lgs n. 356/1990, in base alla quale gli enti creditizi vennero trasformati in persone giuridiche private senza fine di lucro (C.Cost. ord. n. 300 del 2003), che conferivano l’azienda bancaria in società per azioni, acquisendone in cambio l’intero pacchetto azionario o una parte consistente dello stesso (per completezza va ricordato che poi l’istituzione delle fondazioni si deve alla riforma Ciampi recata dal d.lgs. n. 153/1999).
Orbene con riferimento a tali enti, ed in particolare a quelli istituiti con la prima delle citate disposizioni (per i quali appunto la gestione delle partecipazioni era istituzionalmente fissata) questa Corte ha avuto plurime volte occasione di chiarire che essi, gravati dall’obbligo di detenere e conservare la maggioranza del capitale delle società bancarie come previsto dall’art. 12, d.lgs n. 356/1990, dunque funzionalmente (e per la ragione appena indicata) e geneticamente vincolati alle aziende suddette (in tal senso C. Cost. sent. n. 163 del 1995), non potevano essere assimilati né alle persone giuridiche di cui alla l. n. 1745/1962 né agli enti con le finalità sociali sopra riportate di cui all’art. 6, d.p.r. n. 601/1973, i quali ultimi sono invece caratterizzati da un fine sociale già
esistente al momento di entrata in vigore della disposizione (Cass. 16842/2013), e pertanto non potevano in linea di principio fruire dei relativi benefici.
Tale orientamento risulta confermato sia dalla pronuncia sopra riportata (Cass. 16906/20), sia da ultimo da Cass. 31203/24, che proprio dalla differente natura degli enti in parola ha tratto argomento per una diversa disciplina in tema di enti fin dall’origine aventi finalità sociale (nella specie di gestione della previdenza obbligatoria di una determinata categoria professionale).
Ne deriva, dal punto di vista processuale, che deve presumersi che l’ente suddetto, detenendo e conservando una rilevante (se non totalitaria) partecipazione nella società, avesse come finalità precipua la gestione della stessa.
Espressione di tale orientamento è, anche con riferimento alle fondazioni bancarie (che succedono temporalmente agli enti previsti dalla riforma Amato), la pronuncia già richiamata (Cass. 16906/20), che appunto proprio per la vocazione gestoria dell’ente, richiede che la asserita finalità di utilità sociale sia oggetto di dimostrazione.
La corretta sussunzione della fattispecie nella norma in commento richiede dunque da parte del giudice del merito, in caso di controversia circa la spettanza dell’agevolazione e in particolare della ricorrenza dei relativi presupposti nei confronti di un ente tra quelli sopra descritti, di porre in capo all’ente contribuente stesso l’onere della prova circa il perseguimento della finalità sociale (vedremo in cosa consistente), dovendosi in difetto presumere (Cass. Sez. U. n. 1576/2009) che l’ente abbia di mira la gestione della banca conferitaria, circostanza quest’ultima, come detto, rispondente alle finalità istituzionali e quindi alla regolarità dei casi, di cui esso, sempre in virtù dell’origine dell’ente, in via normale detiene una partecipazione significativa ai fini del controllo diretto od indiretto.
Quanto alla consistenza dell’onere suddetto, esso proprio perché si procede da una iniziale detenzione di una partecipazione significativa se non totalitaria e dalla finalità gestionale di cui s’è detto -non può che comportare la dimostrazione da parte dell’ente, tra l’altro nella specie non solo attore in senso sostanziale poiché si tratta di giudizio avente ad oggetto istanza di rimborso, ma di credito fondato sull’esistenza di un beneficio fiscale:
-dell’insussistenza di una partecipazione maggioritaria o altrimenti determinante;
-dell’insussistenza di obblighi statutari di mantenimento di una partecipazione significativa o di controllo e l’esercizio di poteri di intervento diretto, tramite intervento diretto di propri organi nel consiglio d’amministrazione della banca;
-altre forme di condizionamento come elencate dall’art. 23 T.U.B.
Elementi questi ritraibili sia dallo statuto che da bilanci, note agli stessi e altri documenti nella disponibilità dell’ente. Prova dunque piuttosto agevole per l’ente stesso, e non certo ‘diabolica’, come vedremo essere stato sostenuto dalla CTR.
A tale prova si accompagna quella relativa al perseguimento delle finalità sociali sopra specificate.
7.2. Sotto tale profilo i giudici d’appello principiano concentrando la propria attenzione sull’utilizzo degli utili derivanti dalle partecipazioni.
Ora è senz’altro necessario, ai fini del riconoscimento dell’agevolazione in predicato, che le risorse ottenute dall’ente in virtù delle proprie partecipazioni siano utilizzati esclusivamente a scopi sociali, ma come detto, affinché gli stessi possano accedere al beneficio, occorre anzitutto che essi si astengano dal gestire e governare tali partecipazioni.
Per altro verso la decisione impugnata vìola le disposizioni indicate laddove, oltre ad abbandonarsi ad un giudizio circa i limiti del potere nomofilattico di questa Corte, tradisce interamente il
relativo insegnamento laddove da un lato erra nella sussunzione della fattispecie considerando le prove addotte (aldilà della mancata indicazione del relativo utilizzo) sempre allo scopo di verificare esclusivamente la destinazione degli utili piuttosto che (anche) l’attività gestionale (e le relative finalità), confondendo l’attività appunto con la destinazione dei dividendi percepiti; e dall’altro dimostra di ritenere che la prova in base alla distribuzione dell’ onus probandi insegnato da questa Corte -in relazione all’attività gestionale si sostanzierebbero per l’ente in una probatio diabolica.
Va come premesso escluso infatti che l’onere della prova relativamente al mancato controllo diretto od indiretto della gestione dell’attività bancaria -sia di impossibile o difficile assoluzione, e di ciò rende chiarezza la seguente
In tema di fondazioni bancarie, sussiste una presunzione di esercizio di impresa bancaria in capo ai soggetti che, in relazione all’entità di partecipazione al capitale sociale, sono in grado di influire sull’attività dell’ente creditizio: ne deriva che detti soggetti, per fruire delle agevolazioni previste per le persone giuridiche di cui all’art. 10 bis della l. n. 1745 del 1962 ovvero dall’art. 6 del d.P.R. n. 601 del 1973 per gli enti ed istituti aventi finalità di assistenza, beneficienza, istruzione e cultura, sono tenuti a fornire, assolvendo all’onere a proprio carico ex art. 2697 c.c., la prova positiva – che può essere assolta mediante la produzione di estratti dei libri contabili o idonee certificazioni del collegio dei revisori o del collegio sindacale delle società partecipate – di avere nel complesso svolto, in concreto, attività di promozione sociale e non di mera gestione della partecipazione detenuta.
(Cass. 16229/2018).
La suddetta presunzione, soprattutto nel caso degli enti non lucrativi di cui alla c.d. riforma COGNOME, tra cui quello oggetto di causa (poiché, si ripete, la controversia ha ad oggetto il periodo
1994-98), affonda le sue radici nel fatto che le altre finalità (diverse dalla gestione dell’azienda) da essi perseguite e da enunciare nello statuto, consistenti in “fini di interesse pubblico e di utilità sociale preminentemente nei settori della ricerca scientifica, della istruzione, dell’arte e della sanità”; od anche nel mantenimento delle “originarie finalità di assistenza e di tutela delle categorie sociali più deboli” (
, lett. a)) – sono da ritenere secondarie (e neppure obbligatorie); sicché a questi enti in line adi principio non può estendersi la previsione agevolativa del d.p.r. n. 601/1973 che riguarda istituti di tutt’altra origine (così Cass. Sez. U. n. 1546/2009).
7.3. Nella specie poi la CTR ha svolto un’indagine fondata sulla ricerca (la destinazione dei dividendi) necessaria ma non sufficiente a consentire l’accesso al beneficio fiscale di cui si tratta.
In altri termini sotto il profilo dell’indagine circa gli elementi rilevanti ai fini della concessione del beneficio in esame, palesemente la CTR ha dato rilievo al fatto che la fondazione contribuente ebbe, come detto, a erogare somme a vantaggio di attività connotate da forte utilità sociale.
In realtà, in base alla giurisprudenza di questa Corte, l’indagine andava estesa alla concreta attività svolta dall’ente per il perseguimento delle finalità sociali suddette.
In proposito in effetti questa Corte ha stabilito -con orientamento costante nel tempo – che gli enti in parola, per vincere la presunzione sopra indicata, non devono limitarsi a provare il mero fatto di avere destinato concretamente anche tutte le risorse disponibili all’attuazione dello “scopo” di utilità generale, bensì, più radicalmente, “di avere svolto una attività del tutto differente da quella voluta dal legislatore, nel senso che invece di privilegiare le finalità di consentire al nostro sistema creditizio di affrontare le turbolenze del mercato internazionale in mare aperto (governando
la fase dell’affrancamento dal protezionismo statale), abbia… invece svolto una attività di prevalente o esclusiva promozione sociale e culturale” (ancora Cass. n. 4278/2010).
Ciò in quanto, come detto, di principio tali enti, soprattutto quelli sussistenti nella vigenza della riforma COGNOME (quindi appunto negli Anni Novanta, che qui rilevano), erano istituzionalmente preposti ad altro, e tra l’altro la stessa giurisprudenza appena citata ha escluso che la presunzione in parola fosse intaccata dalle ripetute sollecitazioni del legislatore e di carattere amministrativo a disfarsi delle partecipazioni da parte di siffatti enti, non farebbero che confermare la permanenza dell’influenza di tali enti, in quel torno di tempo, sulla gestione, diretta od indiretta, delle aziende bancarie.
Siffatto orientamento, che dunque richiede la prova della gestione alternativa, cioè dell’impegno diretto degli enti nel perseguimento delle finalità indicate dall’art. 6, d.p.r. n. 601/1973, risulta anche recentemente confermato da questa Corte secondo cui, ai fini della concessione del beneficio, il giudice di merito non può limitarsi «ad accertare che la Fondazione aveva impiegato per gli anni in questione una consistente parte delle risorse per attività di promozione sociale e culturale. Tale circostanza, tuttavia, non è determinante perché, laddove si accedesse all’interpretazione dell’art. 6 sottesa a tale statuizione, si finirebbe con il riconoscere il beneficio in ragione del mero status di Fondazione, così disattendendo sia la sentenza di rinvio che le Sezioni Unite che ne costituiscono l’antecedente» (Cass. n. 27300/23).
Nel caso da ultimo citato la sentenza impugnata venne cassata appunto perché il giudice d’appello non aveva verificato se la contribuente avesse fornito la prova di non svolgere anche indirettamente attività di impresa. Il giudice, infatti, si era limitato ad accertare che la Fondazione aveva impiegato per gli anni in questione una consistente parte delle risorse per attività di
promozione sociale e culturale. Tale circostanza, tuttavia, non è stata giudicata determinante.
Nella specie va dunque censurato il modo di procedere adottato dalla CTR, laddove la stessa appunto si è scientemente limitata a verificare la mera destinazione delle risorse, e non già l’esercizio di un’attività meritoria alternativa a quella gestionale di principio devoluta all’ente.
Così facendo, anche sotto tal profilo, ha ulteriormente esentato la contribuente dall’onere incombentegli a fronte della presunzione più volte citata.
Una volta quindi che sia dimostrata la mancata gestione, diretta od indiretta -da parte dell’ente dell’impresa bancaria (o di altra la cui partecipazione la stessa si sia procurata, ad esempio attraverso la dismissione delle relative azioni), ai fini dell’applicazione della disposizione invocata, quindi dell’art. 6 d.p.r. n. 601/1973, occorre la prova del perseguimento delle specifiche finalità sociali ivi previste.
La disposizione in esame prevede il beneficio solo per: ‘ a) enti e istituti di assistenza sociale, societa’ di mutuo soccorso, enti ospedalieri, enti di assistenza e beneficienza;
istituti di istruzione e istituti di studio e sperimentazione di interesse generale che non hanno fine di lucro, corpi scientifici, accademie, fondazioni e associazioni storiche, letterarie, scientifiche, di esperienze e ricerche aventi scopi esclusivamente culturali;
enti il cui fine è equiparato per legge ai fini di beneficenza o di istruzione. c-bis) istituti autonomi per le case popolari, comunque denominati, e loro consorzi.’
Trattasi dunque di finalità specifiche, ben più contenute di quelle in generale stabilite dalla disciplina degli enti e poi delle fondazioni bancarie, e ove invocata da una fondazione, per la connotazione che tali attività hanno, deve trattarsi appunto di fondazioni operative e non meramente erogative.
Il che evidentemente non toglie che anche in parte i proventi percepiti dalla fondazione possano essere devoluti a progetti di terzi soggetti, purché appunto l’attività della fondazione in sé sia destinata alle finalità sopra elencate e volute dall’art. 6 d.p.r. n. 601/1973.
Ma occorre che l’ente svolga in concreto una delle attività indicate dalla disposizione, e sopra appena elencate.
In altri termini la natura in esame va dimostrata non solo sotto il profilo formale, con riferimento agli scopi individuati dalle norme e dallo statuto, ma anche dal punto di vista sostanziale, considerato che la natura dell’attività in concreto esercitata dall’ente prevale, comunque, sul fine dichiarato. E sotto questo ultimo profilo occorre la dimostrazione del concreto svolgimento di una delle attività ivi elencate da parte degli enti individuati dalla norma quali meritevoli del trattamento agevolativo.
La norma peraltro, sia chiaro, non vieta all’ente di limitarsi a riscuotere fitti o percepire redditi da capitale in altra forma e di fruire di altri benefici per le liberalità che elargisce con tali proventi, purché essa non pretenda anche di accedere al beneficio di cui alla norma in esame che invece il diretto svolgimento, come denuncia lo stesso testo della norma (che a tipologie di enti svolgenti in concreto l’attività benefica si rivolge), sottende.
Sotto tale profilo è evidente che l’ente in sé può perseguire finalità più ampie rispetto a quanto previsto dall’art. 6 (che si traggono dalla mera lettura della disposizione), può anche essenzialmente concentrarsi sulla distribuzione dei redditi a finalità latamente sociali, come dimostrano le disposizioni di cui all’art. 3, co. 1, d.lgs
n. 153/1999 (secondo cui ‘è esclusa altresì qualsiasi forma di finanziamento, di erogazione o, comunque, di sovvenzione, diretti o indiretti, ad enti con fini di lucro o in favore di imprese di qualsiasi natura …’) o il successivo co. 4 (che disciplina e vincola l’attività erogativa, precisando che le fondazioni ‘… determinano in via generale, nelle forme stabilite dagli statuti, le modalità e i criteri che presiedono allo svolgimento dell’attività istituzionale, con particolare riferimento alle modalità di individuazione e di selezione dei progetti e delle iniziative da finanziare, allo scopo di assicurare la migliore utilizzazione delle risorse e l’efficacia degli interventi’), ma ciò non implica che automaticamente il rispetto dei più ampi limiti previsti dalla disciplina in parola comporti quello della più ristretta finalità e dei presupposti che sono previsti per fruire di un particolare beneficio, qual è appunto quello preveduto dall’art. 6, d.p.r. n. 601/1973.
Casomai la comparazione ope legis del perseguimento delle attività e dei limiti indicati dal d.lgs n. 153/99 poteva predicarsi in virtù del disposto di cui all’art. 12, comma 2, del d.lgs medesimo, però abrogato dal d.l. n. 168/2004, come ritenuto tra l’altro da un documento di prassi secondo cui tale abrogazione ha avuto’il più limitato (ma comunque significativo) effetto di aver fatto venire meno solo il meccanismo automatico previsto del legislatore del 1999′ e dunque ‘ha comportato la «riespansione» della disposizione generale (art. 6 D.P.R. 601/1973) …’ (Circ. n.15/22), non applicabile alla presente fattispecie che ricade integralmente sotto la disciplina di cui al d.lgs n. 218/1990 (c.d. riforma COGNOME; si ricordi altresì che la disposizione aveva natura innovativa e non interpretativa, Cass. n 22356/2020).
Né vale a concludere diversamente quanto ritenuto in generale in tema di beni immobili e di godimento dei relativi redditi da parte di enti religiosi dalla stessa Agenzia (circ. n. 15/E del 2022), poiché in tal caso è stato chiarito dagli atti di prassi, ma in conformità con il
tenore qui ricostruito del portato dell’art. 6 in commento, che ‘coerentemente con la ratio legis … la disposizione recata dall’articolo 6 del d.P.R. n. 601 del 1973, in via di principio, (può) applicarsi anche ai proventi derivanti dal mero godimento del patrimonio immobiliare … purché tali proventi siano effettivamente ed esclusivamente impiegati nelle attività di «religione o di culto»’, poiché è evidente che in tal caso al godimento si accompagna lo svolgimento (per la natura stessa dell’ente) dell’attività di religione e di culto (mentre la fondazione nasce per gestire una partecipazione bancaria), oltre che la finalizzazione delle risorse a tale scopo. E proprio per questo se ne conclude che ‘Ragionando diversamente (…) la norma non realizzerebbe le proprie finalità, in quanto, essendo le attività religiose rese, come detto, prevalentemente a titolo gratuito, le stesse non potrebbero mai generare di per sé redditi, cui applicare il dimezzamento dell’aliquota’.
7.4. La CTR, dopo aver erroneamente predicato la rilevanza (esclusiva) dell’utilizzo dei proventi delle partecipazioni, ha poi sì riconosciuto la rilevanza dell’attività di gestione dell’attività bancaria, laddove in particolare ha ritenuto che ‘In ogni caso, anche riconoscendo l’esistenza della presunzione di esercizio di impresa bancaria (SS.UU. n. 1576/09), questo Collegio ritiene che la dimostrazione sia stata fornita con la produzione, oltre che dello Statuto, dei bilanci d’esercizio e dei relativi allegati…’
In ciò fare però la verifica è stata indubbiamente parziale e incongrua, trascurando essa elementi rilevanti ai fini della verifica dei presupposti per ottenere il beneficio in parola.
Da un lato infatti è mancata qualsiasi indagine in ordine alla direzione dell’attività dell’ente al perseguimento di finalità sociali, come visto al paragrafo precedente. Dall’altro la stessa verifica dell’attività gestionale circa l’esercizio dell’azienda bancaria è risultata carente in quanto:
trattandosi di un ente sorto in base alla già richiamata riforma COGNOME non poteva che detenere in origine almeno una rilevante partecipazione bancaria;
-l’assenza di partecipazioni nella Banca delle Marche relativamente all’anno 1994 discende dal semplice fatto che tale istituto incorporò la Cassa di Risparmio di Jesi s.p.a. solo nel 1995 (cfr. all. 3,4,5 Agenzia);
ancora nel 2001 la Banca delle Marche era controllata per il 10, 45 % dalla Fondazione odierna controricorrente; per l’otto % dalla RAGIONE_SOCIALE e per il 42 % da altre due Fondazioni bancarie (di riferimento delle altre banche confluite): orbene dalla nota integrativa bilancio 2001 di una di tali fondazioni, Cassa di Risparmio di Macerata (all. 4 alla memoria dell’Agenzia in secondo grado) emergeva che tali enti e la RAGIONE_SOCIALE erano avvinte da un ‘patto di sindacato’, strumento volto ad attuare un controllo anche in assenza di una partecipazione maggioritaria del singolo azionista aderente.
Anche sotto tale profilo, dunque, non si può ritenere che fosse richiesto all’ente uno sforzo probatorio impossibile: sicuramente qui come per gli altri elementi non è possibile la prova negativa, ma è possibile la prova positiva del fatto contrario.
Trattasi invero di elementi che devono tutti risultare da documentazione formale e contabile, sia della fondazione che a maggior ragione dell’impresa bancaria, e patti consimili sono sottoposti agli obblighi di comunicazione di cui all’art. 20 T.U.B.
Nella specie, avendo l’Agenzia dimostrato l’esistenza di elementi circa l’esistenza di un patto di sindacato per l’anno 2001, era onere del giudice del merito tenere conto di ciò ai fini della valutazione dell’adempimento dell’onere della prova incombente sul contribuente.
Per concludere sul punto appare evidente non solo, anche dalle considerazioni svolte dalla CTR, l’aver essa limitato l’onere
probatorio invece incombente sulla contribuente, ma con ciò l’aver altresì erroneamente sussunto la fattispecie, non valorizzando gli elementi presenti al lume dell’onere probatorio suddetto.
Essa dunque, dopo aver omesso l’indagine sull’esistenza di un’attività gestionale meritoria, non poteva ulteriormente limitarsi a considerare l’asserita ‘esiguità’ della partecipazione nella società bancaria, e il suo decrescere nel tempo, ma avendo presente la documentazione suddetta avrebbe dovuto ampliare l’indagine e scrutinare l’adempimento dell’onere della prova anche in relazione al fatto che non è solo attraverso un pacchetto azionario maggioritario che si realizza la possibilità di gestione e controllo di un’azienda bancaria.
7.5.Inoltre, mette conto sottolineare che, interpretando la disciplina in esame come fa la CTR, quindi relegando la verifica della finalità sociale all’utilizzo dei dividendi, si consentirebbe ad un ente che gestisce, o influisce in guisa determinante nella gestione di un’impresa bancaria, di vedere l’utile soggetto ad una tassazione agevolata, così affacciandosi la possibilità di ledere la concorrenza di mercato, in violazione allora delle norme del Trattato CE, e in particolare al divieto di aiuti di stato di cui all’art. 87.
Invero la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’UE, chiamata a pronunciarsi su una questione pregiudiziale sollevata da questa Corte, dopo aver precisato che costituisce attività economica qualsiasi attività che consista nell’offrire beni o servizi su un determinato mercato e che nell’ambito del diritto della concorrenza il concetto di impresa comprende qualsiasi ente che eserciti un’attività economica, a prescindere dal suo status giuridico e dalle sue modalità di finanziamento ha statuito che, in linea di principio, il semplice possesso di partecipazioni, anche di controllo, non è sufficiente a configurare un’attività economica del soggetto che detiene tali partecipazioni, ove tale possesso comporti solo l’esercizio dei diritti connessi alla qualità di azionista o socio
nonché, eventualmente, la percezione dei dividendi; ha precisato che, invece, un soggetto che, titolare di partecipazioni di controllo in una società, eserciti effettivamente tale controllo partecipando direttamente o indirettamente alla gestione di essa, deve essere considerato partecipe dell’attività economica svolta dall’impresa controllata e, quindi dev’essere considerato, a tale titolo, un’impresa. Osserva in proposito la Corte UE che la semplice suddivisione di un’impresa in due enti distinti, uno con il compito di svolgere direttamente l’attività economica precedente e il secondo con quello di controllare il primo, intervenendo nella sua gestione, consentirebbe di eludere le norme comunitarie sugli aiuti di Stato in quanto l’ente controllante potrebbe beneficiare di sovvenzioni o di altri vantaggi concessi dallo Stato e di utilizzarli in tutto o in parte a beneficio dell’impresa controllata, sempre nell’interesse dell’unità economica costituita dai due enti (Corte giustizia 10/01/2006, n. 222 causa C-222/04).
Ancora, in materia proprio di fondazioni bancarie, il mancato contrasto viene da questa Corte fatto dipendere proprio dal fatto che si ritiene insussistente il diritto al ” beneficio (riduzione alla metà dell’IRPEG) di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 601 del 1973, articolo 1 (in ultimo S.U. 1576/2009)’ ove sia ‘sussistente l’attività commerciale di Enti quali le Fondazioni bancarie, secondo il diritto comunitario’, quindi laddove ‘le stesse non avessero concretamente dimostrato, e indipendentemente dalle previsioni statutarie, di aver svolto, un’attività prevalente od esclusiva di promozione sociale o culturale, anziché di controllo o governo delle partecipazioni bancarie, e sempre che tale prova sia stata introdotta in giudizio secondo le regole proprie del processo tributario, ovvero mediante la proposizione da parte del contribuente, di specifiche questioni nel ricorso introduttivo (Cass. 5740/2007; 7883/2007; 10253/2007; 10258/2007; 13559/2007;
14087/2007)’ (Cass. 2 aprile 2010, n. 8082; Cass. 24 febbraio 2010, nn. 4416 e 4454).
In proposito mette conto rilevare che la sentenza CGUE 10 gennaio 2006, C-222/04, ha ritenuto compatibile con la disciplina comunitaria sugli aiuti di Stato l’agevolazione dell’IRES ridotta in ragione del versamento di contributi ad enti che agiscano senza scopo di lucro, avendo tale attività ‘natura esclusivamente sociale’, dunque purché ‘svolta su un mercato in concorrenza con altri operatori’ e comportandosi come ‘un ente di beneficenza o un’organizzazione caritativa, e non come un’impresa’.
L’esclusività così richiesta non può che passare attraverso la relativa prova positiva, così come sopra delineata, e solo così si giustifica il beneficio senza che lo stesso costituisca -appunto -aiuto di stato.
8. Venendo ora all’esame del motivo del ricorso incidentale, lo stesso attiene alla ritenuta violazione e falsa applicazione degli artt. 36 bis e 43, d.p.r. n. 600/1973 e 94, TUIR, avendo ad avviso della ricorrente incidentale erroneamente ritenuto la CTR che il credito non si consolidi con l’inutile decorso dei termini previsti dagli artt. 36-bis e 43, d.p.r. n. 600/1973.
8.1. Il motivo è inammissibile ai sensi dell’art. 360 bis, num. 1, cod. proc. civ., poiché come già indicato in premessa, la questione è stata risolta dalle Sez. U. di questa Corte con la richiamata sentenza n. 5069/16, peraltro ribadita più di recente in tema di i.v.a. con altra pronuncia a Sez. U. n. 21765/21.
Gli stessi profili di pretesa illegittimità costituzionale sono tutti manifestamente infondati, sotto il profilo della uguaglianza e ragionevolezza, perché viene comparata la situazione di un’istanza di rimborso a quella di recupero di un credito compensato, visto che in tale ultimo caso il credito risulta utilizzato appunto tramite la compensazione.
Circa la violazione del principio di buon andamento dell’amministrazione, il legislatore ha delineato il silenzio significativo, sottoponendolo ad una specifica disciplina, e senz’altro il valore sotteso alla norma denunciata non può giungere a costituire un credito insussistente ma semmai, per la disciplina vigente, nei limiti e nei tempi stabiliti dal legislatore, a conferire al preteso creditore un’azione per far valere l’assunto credito.
Circa, infine, il diritto di difesa esso non ha interferenze con la vicenda, poiché non si tratta di precludere il diritto ad agire o resistere, appunto garantito, proprio in caso di istanza di rimborso (espressa o contenuta nella dichiarazione), dal sistema del silenziorifiuto, ovvero dal provvedimento di diniego.
Al postutto il ricorso principale dev’essere accolto e, respinto quello incidentale, va cassata la sentenza impugnata con rinvio al giudice d’appello che si conformerà ai principi qui espressi, e provvederà altresì alla liquidazione delle spese di lite del presente giudizio.
Con riguardo al ricorso incidentale sussistono i presupposti processuali per dichiarare l’obbligo di versare, ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della l. 24 dicembre 2012, n. 228, un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso principale nei termini di cui in motivazione e, respinto quello incidentale, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado delle Marche che, in diversa composizione, si atterrà ai principi qui espressi e provvederà altresì alla liquidazione delle spese di lite del presente giudizio.
Con riguardo al ricorso incidentale sussistono i presupposti processuali per dichiarare l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 5 febbraio 2025