Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 33099 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 5 Num. 33099 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 18/12/2024
Accertamento fiscale domiciliare incompetenza territoriale – vizi di notifica -delega di firma -sentenza Corte Costituzionale n. 37/2015 – rilevanza – esclusione agevolazioni in favore di ASD iscrizione al Coni – sufficienza esclusione
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 4045/2016 R.G. proposto da:
ASSOCIAZIONE RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa, in virtù di procura speciale in calce al ricorso, dall’Avv. NOME COGNOME elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso l’Avv. NOME COGNOME;
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Direttore pro tempore , con sede in Roma, INDIRIZZO C/D, domiciliata in Roma alla INDIRIZZO presso l’Avvocatura generale dello Stato dalla quale è rappresentata e difesa ope legis ;
-controricorrente – avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania, n. 7555/34/2015, depositata in data 23 luglio 2015. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 28 novembre 2024 dal Consigliere NOME COGNOME.
Rilevato che:
1. In data 26 giugno 2012, a seguito di verifica fiscale condotta da funzionari dell’ Agenzia delle Entrate-D.P. di Caserta, l’associazione sportiva dilettantistica RAGIONE_SOCIALE (d’ora in avanti, per brevità, Atene) era raggiunta dall’ avviso di accertamento n. NUMERO_DOCUMENTO, relativo ad IVA, IRES ed IRAP, per l’anno di imposta 2008. In particolare, veniva accertato un reddito di esercizio pari ad Euro 89.264,00 ai fini IRES, un imponibile IRAP pari ad Euro 81.264,00 ed una base imponibile IVA pari ad Euro 121.362,00.
La Atene impugnava l’avviso innanzi alla C ommissione tributaria provinciale di Caserta deducendo: a) la carenza dei presupposti applicativi degli artt. 39 d.P.R. n. 600/1973 e 54 d.P.R. n. 633/1972 per essere la ricorrente un ente non commerciale; b) la carenza di motivazione dell’atto impugnato in ordine al disconoscimento della qualità di ente no profit ed al ricorso al metodo induttivo di accertamento; c) l’illegittima autorizzazione all’ispezione emessa dalla Procura della Repubblica; d) la violazione d ell’art. 149 d.P.R. n. 917/1986 per l’inoperatività dei limiti imposti alla associazioni sportive dilettantistiche; e) l’incompetenza territoriale dell’Agenzia delle Entrate di Caserta.
La CTP rigettava il ricorso rilevando che la ricorrente non aveva dato prova dello svolgimento della sua attività nel rispetto delle prescrizioni poste in materia di agevolazioni alle associazioni non commerciali (in senso contrario militavano, da un lato, l’inesistenza di reale vita associativa, dall’altro, la presenza di quasi 1400 iscritti, assimilabili a clienti di una palestra).
La contribuente proponeva gravame innanzi alla Commissione tributaria regionale della Campania, che rigettava l’appello .
Avverso la decisione della Commissione tributaria regionale ha proposto ricorso per cassazione la contribuente, affidandosi a sei motivi. L’Agenzia delle Entrate ha resistito con controricorso.
È stata, quindi, fissata l’adunanza camerale per il 28 novembre 2024.
Considerato che:
1. Con il primo strumento di impugnazione la contribuente deduce la «violazione e falsa applicazione del combinato disposto di cui agli artt. 32 comma 2 e 58 del D.P.R. n.600/1973 – Incompetenza territoriale dell’Agenzia delle Entrate di Caserta all’effettuazione dell’accertamento fiscale subito dalla ricorrente presso la sua Sede operativa di Nola (NA) e conseguente nullità di tutti i relativi atti per carenza di potere dell’Ufficio». Deduce, in particolare, che l’accesso fu eseguito dai verificatori dell’ Agenzia delle Entrate di Caserta in territorio del comune di Nola (sito in provincia di Napoli), pertanto al di fuori dei limiti territoriali dell’Ufficio di appartenenza. L’acclarata inesistenza, in fatto, della sede legale dell’associazione nel comune di Caserta avrebbe dovuto indurre gli agenti della Direzione Provinciale di Caserta a rimettere gli atti alla Direzione Provinciale di Napoli, territorialmente competente.
Il motivo è infondato.
È noto che nelle imposte sui redditi la competenza territoriale dell’Agenzia delle Entrate si determina, ex art. 31, comma 2, d.P.R. n. 600/1973, sulla base del domicilio fiscale del contribuente, come determinato in base agli artt. 58, ovvero per le persone fisiche nel comune nella cui anagrafe sono iscritte, per i soggetti diversi dalle persone fisiche nel comune in cui si trova la loro sede legale o, in mancanza, la sede amministrativa; se anche questa manchi, nel comune ove è stabilita una sede secondaria o una stabile organizzazione e, in mancanza, nel comune in cui prevalentemente esercitano la loro attività.
Analoghe disposizioni sono dettate in materia di IVA (art. 40, comma 1, d.P.R. n. 633/1972, che richiama l’art. 58 cit.).
La funzione principale del domicilio fiscale (luogo predeterminato ex lege sulla base di criteri certi ed obiettivi) è, quindi, quella di radicare la competenza dell’Ufficio munito di tutti i
poteri, in particolare, di controllo e di accertamento, nei confronti dei soggetti passivi.
Questa Corte, con riferimento al domicilio fiscale dichiarato nella dichiarazione dei redditi, ha avuto modo di precisare che «la competenza territoriale degli uffici finanziari si determina tramite il criterio del domicilio fiscale o della residenza del contribuente inserita nella dichiarazione dei redditi, per cui, se quest’ultimo li ha indicati erroneamente, non può sfruttare l’errore in cui è incorsa l’Amministrazione finanziaria per eccepire l’invalidità per incompetenza territoriale dell’atto di accertamento compiuto dall’Ufficio finanziario del domicilio o della residenza da lui stesso dichiarato errato, con la conseguenza che, ai fini della competenza territoriale, rileva anche il domicilio fiscale o la residenza indicata erroneamente con la dichiarazione» (Cass. 12/06/2024, n. 16408; conf. 20/02/2020, n. 4412).
Nella specie l’ASD oggetto di verifica aveva la sede legale in Caserta (come riportato anche nell’intestazione del presente ricorso), pertanto correttamente la CTR ha ritenuto legittimo l’operato dell’Agenzia dell’Entrate di Caserta, in quanto territorialmente competente (a nulla rilevando che la verifica sia stata eseguita in una sede operativa dell’associazione, sita in Nola).
L’inesistenza della sede legale in Caserta (asserita a pag. 7 del ricorso) è rimasta del tutto indimostrata e, perciò, non è idonea a spostare la competenza territoriale in capo all’Agenzia delle Entrate di Napoli.
Con il secondo strumento la ricorrente lamenta la «violazione e falsa applicazione dell’ art. 42 DPR 600/73 e dell’art. 21 septies l. n. 241 del 07 agosto 1990, in relazione all’art. 360 c.p.c. n. 3 – nullitàinesistenza giuridica dell’atto impositivo impugnato per carenza di potere dirigenziale del soggetto sottoscrittore dell’impugnato avviso di accertamento ». Sostiene, in particolare, che l’atto sottoscritto da un non -dirigente o da un funzionario delegato non vincitore di concorso pubblico per l’accesso a funzioni dirigenziali
sarebbe affetto da nullità assoluta e richiama, al riguardo, la giurisprudenza della Corte Costituzionale (da ultimo, la sent. n. 37/2015 con cui è stato dichiarato incostituzionale l’articolo 8, comma 24, del d.l. 16/2012, che consentiva alle Agenzie fiscali di coprire le posizioni dirigenziali, in attesa dei concorsi, con il ricorso a contratti individuali con i funzionari interni).
Nella specie il sottoscrittore dell’atto era, quindi, priv o del potere di rappresentare ed impegnare l’ente, poiché ‘incaricat o di funzioni dirigenziali’ e non ‘dirigent e ‘ a seguito di concorso pubblico.
Il motivo è infondato.
2.1. Va premesso che la doglianza, pur essendo stata proposta per la prima volta solo in cassazione, è ammissibile, atteso che la pronuncia della Corte Costituzionale sulla quale si fonda (n. 37/2015) è intervenuta dopo la camera di consiglio innanzi alla CTR, per cui non può farsi applicazione, nella specie, della giurisprudenza di legittimità ( ex multis Cass. 13/01/2016, n. 381) a mente della quale il vizio de quo non è rilevabile d’ufficio, né può essere rilevato per la prima volta nel giudizio di cassazione, ma va eccepito dalla parte (principio applicabile quando la doglianza possa tempestivamente essere avanzata nel primo grado di lite, non già quando essa si fondi su una pronuncia di incostituzionalità sopravvenuta o su uno ius superveniens ).
2.2. Nel merito, la censura non è fondata.
2.2.1. Questa Corte ha avuto modo di affrontare la questione della sorte degli atti tributari sottoscritti da soggetti -capi di ufficio o delegati -la cui qualifica dirigenziale sia risultata conseguita illegittimamente per effetto della sopravvenuta sentenza della Corte Costituzionale n. 37/2015.
L’art. 42, comma 1, d.P.R. n. 600/1973 si limita a prevedere che gli avvisi, con cui sono portati a conoscenza dei contribuenti gli accertamenti in rettifica e gli accertamenti d’ufficio, sono sottoscritti dal ‘capo dell’ufficio’ o ‘da altro impiegato dell a carriera direttiva da
lui delegato’, senza richiedere che il capo dell’ufficio abbia a rivestire anche una qualifica dirigenziale.
La norma, contestualmente prevedendo l’ipotesi di nullità, individua nel capo dell’ufficio, per il solo fatto di essere stato nominato tale, l’agente capace di manifestare la volontà dell’amministrazione finanziaria negli atti a rilevanza esterna. In tal modo identifica quale debba essere in definitiva la professionalità per legge idonea a emettere atti suscettibili di produrre i previsti effetti nella sfera giuridica del destinatario.
2.2.2. Si è, poi, sottolineato (Cass. 09/11/2015, n. 22810) che un argomento logico-letterale è innegabilmente rilevante per la soluzione del problema in esame: « se, in base alla norma di cui all’art. 42, 1° comma, l’atto impositivo può essere sottoscritto anche da un ‘altro’ impiegato della carriera direttiva delegato dal capo dell’ufficio, e se tale ‘altro’ impiegato può essere un funzionario di area direttiva no n dirigenziale (appunto l’impiegato ex nono livello), per proprietà transitiva è logico desumere che la medesima qualifica di semplice impiegato della carriera direttiva vale ad identificare, in base alla stessa norma di legge, la posizione del capo dell’ufficio delegante; posizione in tal misura necessaria, ma anche sufficiente ai fini specifici della validità degli atti.
La conclusione è in simile prospettiva direttamente evincibile dal testo dell’art. 42, 1° comma, del d.P.R. n. 600 del 1973, in cui l’utilizzo dell’espressione ‘altro’ non può essere privata di significato al fine di individuare il precetto sottostante. Essa vale a stabilire che la legge consente che anche il capo dell’ufficio sia, al pari del delegato, e al fine di legittimamente sottoscrivere gli avvisi di accertamento, un semplice impiegato della carriera direttiva.
Né la norma si presta a un’interpretazione diversa da quella letterale » atteso che l’espressione ‘impiegato della carriera direttiva’ fu coniata in un contesto ordinamentale che già conosceva le qualifiche funzionali della dirigenza pubblica.
2.2.3. Infine, non può sostenersi che l’appartenenza al ruolo dirigenziale sarebbe stata prevista per implicito dal regolamento interno di amministrazione dell’agenzia delle entrate, approvato con la delibera del comitato direttivo n. 4 del 22/04/2000 (e richiamato anche dalla ricorrente), poiché tale regolamento esaurisce i propri effetti nell’ambito del rapporto di impiego (o di servizio) tra il suddetto funzionario e l’amministrazione.
Così come non rileva in senso contrario o correttivo o integrativo dell’art. 42 cit. il d.lgs. n. 165/2001 (anch’esso richiamato dalla ricorrente), che, agli artt. 17 e ss., ha ridefinito l’ambito delle competenze e delle funzioni della cd. carriera dirige nziale, trattandosi di ‘norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche’ e, dunque, di norme di rango paritario rispetto all’art. 42, ma non interferenti col regime di validità degli atti costituenti estrinsecazione della funzione amministrativa di dettaglio (Cass. n. 22810/2015 cit.). L’autonoma valenza riconosciuta all’art. 42 cit. trova conforto, ai fini specifici, nella costante affermazione giurisprudenziale secondo cui « va esclusa, in materia tributaria, l’applicazione del principio desumibile dall’art. 21 -octies della l. n. 241/1990 , secondo il quale è in sé invalido l’atto amministrativo emanato in violazione di una norma di legge. Sicché la nullità, di cui è dato discutere nella presente sede, è soltanto quella rigidamente circoscritta dai limiti dell’art. 42 citato, rispetto alla quale non assume rilievo l’eventuale illegittimità del conferimento d’incarico (finanche temporaneo) al capo dell’ufficio siccome avvenuto in dipendenza di una norma regolamentare illegittima o, per quanto rileva, di una norma di legge dichiarata incostituzionale » (ancora Cass. n. 22810/2015 cit.).
2.2.4 . Quanto esposto in ordine alla corretta esegesi dell’art. 42 del d.P.R. n. 600/1973 costituisce del resto un corollario del principio generale che presidia l’attività amministrativa di
accertamento fiscale, rispondente a peculiari esigenze di stabilità e di continuità.
La ratio della norma de qua appare intesa a circoscrivere, per quanto possibile, le fasi di interruzione dell’azione amministrativa di accertamento, coincidenti, per esempio, con la durata di espletamento di concorsi per l’attribuzione di qualifiche dirigenziali, tenuto conto del fatto che, in ambito fiscale come in altri ambiti di rilevanza essenziale per l’ordinamento, la celerità dell’azione amministrativa coincide con l’efficienza, ed è presidiata da altrettante norme costituzionali (artt. 53 e 97 Cost.).
Poiché allora il terzo comma dell’art. 42 postula l’esistenza del vizio invalidante in relazione al non essere l’atto fiscale proveniente da chi abbia titolo per agire in nome e per conto dell’amministrazione, e poiché colui che vanta, in base al primo comma della norma, questo titolo è il funzionario di carriere direttiva che sia stato messo a capo dell’ufficio ovvero che sia stato da questi appositamente delegato, non anche il funzionario avente qualifica dirigenziale, la conseguenza è che rimane irrilevante, ai fini specifici, la sopravvenuta decisione n. 37 del 2015 della Corte Costituzionale.
La decisione, invero, non può incidere sulla validità degli atti tributari perché diverso è il suo oggetto.
La sentenza riguarda il solo aspetto attinente all’art. 8, comma 24, del d.l. n. 16/2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 44/2012, dichiarato illegittimo per il fatto di consentire alle amministrazioni finanziarie l’attribuzione di incarichi dirigenziali a propri funzionari fino all’espletamento delle procedure concorsuali, da completare entro il 31 dicembre 2013, con salvezza degli incarichi già conferiti, norma che (unitamente alle disposizioni di proroga) è stata ritenuta in violazione degli artt. 3, 51 e 97 Cost., per aver contribuito all’indefinito protrarsi nel tempo di assegnazioni asseritamente temporanee di mansioni superiori, senza copertura dei posti dirigenziali vacanti da parte dei vincitori di una procedura concorsuale aperta e pubblica.
Tuttavia, i due aspetti -quello della dirigenza e quello della validità degli atti anteriormente sottoscritti da impiegati della carriera direttiva, preposti agli uffici finanziari o delegati -non sono, per quanto esposto, in modo alcuno confondibili, non essendo previsto che gli avvisi di accertamento promanino, per essere imputabili all’amministrazione finanziaria, da soggetti aventi qualifiche dirigenziali. Cosicché non è utile ai fini specifici insistere oltre, circa la portata retroattiva ordinariamente ascrivibile alla citata declaratoria di incostituzionalità, per il semplice fatto che quella declaratoria resta irrilevante quanto alla soluzione del problema in esame.
La richiamata pronuncia n. 37 del 2015 riguarda il profilo involto dalla norma consentanea all’attribuzione degli incarichi dirigenziali senza concorso. Dunque, non supera, sul piano effettuale, i confini del rapporto interno (di impiego o di servizio) tra l’amministrazione e il personale direttivo, e non attinge la sorte degli atti, rispetto ai quali rileva in modo autosufficiente (solo) l’art. 42 del d.P.R. n. 600/1973, in rapporto alla disciplina del quale devesi stabilire se la volontà dell’ente sia sta ta validamente manifestata dal soggetto che, indipendentemente dalla qualifica dirigenziale, legittimamente rivestiva la funzione da esso articolo considerata.
Pertanto, possono essere ribaditi i seguenti principi di diritto: « in ordine agli avvisi di accertamento in rettifica e agli accertamenti d’ufficio, il d.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, impone sotto pena di nullità che l’atto sia sottoscritto dal ‘capo dell’ufficio’ o ‘da altro impiegato della carriera direttiva da lui del egato’, senza richiedere che il capo dell’ufficio o il funzionario delegato abbia a rivestire anche una qualifica dirigenziale; ciò ancorché una simile qualifica sia eventualmente richiesta da altre disposizioni »; « essendo la materia tributaria governata dal principio di tassatività delle cause di nullità degli atti fiscali, e non occorrendo, ai meri fini della validità di tali atti, che i funzionari (delegati o deleganti) possiedano qualifiche dirigenziali, ne consegue che la sorte degli atti impositivi formati
anteriormente alla sentenza n. 37 del 2015 della Corte Costituzionale, sottoscritti da soggetti al momento rivestenti funzioni di capo dell’ufficio, ovvero da funzionari della carriera direttiva appositamente delegati, e dunque da soggetti idonei ai sensi dell’art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973, non è condizionata dalla validità o meno della qualifica dirigenziale attribuita per effetto della censurata disposizione di cui all’art. 8, 24° comma, del d.l. n. 16/2012 ».
2.2.5. In definitiva, deve ribadirsi (cfr. Cass. 26/02/2020, n. 5177) l’irrilevanza della pronuncia della Corte Costituzionale n. 37/2015 sulla validità degli atti sottoscritti da soggetti -capi di ufficio o delegati -la cui qualifica dirigenziale sia risultata conseguita illegittimamente.
Con il terzo strumento di impugnazione la contribuente deduce la «violazione e falsa applicazione dell’art. 52 DPR 633/1972, degli artt. 14 e 113 Cost., in relazione all’ar. 360 c.p.c. n. 3 – Omesso controllo, da parte del Giudice di Appello, in ordine alla idoneità ed alla sussistenza di dei gravi indizi di evasione fiscale addotti dalla Procura di Nola nell’autorizzazione alla verifica domiciliare ». Lamenta, anzitutto, che l’autorizzazione della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Santa NOME COGNOME all’ispezione presso i locali della ricorrente non si rinviene negli atti di causa; che, quindi, non si comprende come la CTR possa aver ritenuto la stessa ‘suffragata da gravi indizi’ e, infine, che con tutta probabilità era stata rilasciata in assenza dei relativi presupposti.
Il motivo è infondato.
L’art. 52 del d.P.R. n. 633/1972 prevede , per quel che qui rileva, l’autorizzazione della Procura della Repubblica solo nelle ipotesi in cui: a) l’ispezione debba svolgersi in locali destinati all’esercizio di attività commerciali, agricole, artistiche o professionali, o in locali utilizzati dagli enti non commerciali, che sono , nell’uno o nell’altro caso, adibiti anche ad abitazione (comma primo) ; b) l’ accesso debba svolgersi in locali diversi da quelli indicati nel comma primo, solo se sussistono gravi indizi di violazioni delle
norme del presente decreto, al fine di reperire prove delle relative violazioni.
Nella specie, secondo quanto affermato dalla stessa ricorrente, l’accesso è stato eseguito nei locali della sede operativa dell’associazione sportiva, motivo per il quale – in difetto della deduzione che trattavasi di locali destinati anche ad abitazione alcuna autorizzazione della Procura era necessaria (arg., a contrario , da Cass. 12/04/2019, n. 10275).
Ciò comporta l’assorbimento delle questioni poste dalla ricorrente relative, nell’ordine: a) all’allegazione in giudizio dell’autorizzazione (richiamata nell’avviso di accertamento) della Procura; b) alla sussistenza dei gravi indizi delle violazioni, suss istenza costituente presupposto dell’autorizzazione.
Con il quarto strumento di impugnazione la contribuente deduce la «violazione e falsa applicazione dell’art. 149, comma 4 del TUIR e dell’art. 90 l. n. 289/2002, il relazione all’art. 360 c.p.c. n. 3. – Inoperatività delle limitazioni della richiamata disciplina riguardo alle associazioni sportive dilettantistiche, come quella della ricorrente, regolarmente iscritte nel registro CONI». Sostiene, in particolare che per effetto della iscrizione al CONI nei suoi confronti non opererebbero ‘le limitazioni di attività di cui al cit. art. 149 comma 4 TUIR’ (pag. 11 del ricorso).
Il motivo è infondato.
Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte «in tema di agevolazioni tributarie, l’esenzione d’imposta, prevista dal d.P.R. n. 917 del 1986, art. 148 in favore delle associazioni non lucrative, dipende non dall’elemento formale della veste giuridica assunta (nella specie, associazione sportiva dilettantistica), ma anche dall’effettivo svolgimento di attività senza fine di lucro, il cui onere probatorio incombe sulla contribuente e non può ritenersi soddisfatto dal dato, del tutto estraneo e neutra le, dell’affiliazione al CONI» (Cass. 05/08/2016, n. 16449; e, più recentemente, Cass. 29/05/2024, n. 15050, che ha cassato la decisione della CTR che
aveva riconosciuto i vantaggi fiscali ad una ASD sulla mera base del riscontro di aspetti meramente formali, quale l’iscrizione al CONI).
Nella specie la CTR ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi avendo affermato che ai fini del trattamento agevolato in materia di imposte sui redditi e di IVA in favore delle associazioni sportive dilettantistiche ‘non è sufficiente la sussistenza di meri requisiti formali’ (pag. 4 della sentenza).
Con il quinto strumento la ricorrente lamenta la «violazione e falsa applicazione dell’art. 148 comma 2 TUIR, in relazione all’art. 360 c.p.c. n. 3, per essere l’attività della ricorrente decommercializzata ex lege dalle relative disposizioni». Dopo aver riportato il testo dell’art. 148, commi 3 e 4, t.u.i.r., lamenta che la CTR avrebbe affermato ‘ sic et simpliciter , che esercitare l’attività in modo analogo ad una palestra significa esercitare un’attività commerciale’ (pag. 12 del ricorso). Di contro, l’affiliazione ad un Ente di Promozione comporterebbe la decommercializzazione ex lege delle quote e dei corrispettivi versati dagli associati.
Il motivo è infondato.
Al riguardo è sufficiente rilevare che correttamente la CTR ha affermato che l’esercizio di un’attività in modo analogo ad una palestra equivale all’esercizio di un’attività commerciale; infatti, da un lato, come già evidenziato poco supra in sede di esame del quarto motivo, la mera esistenza di requisiti formali (iscrizione al CONI ed affiliazione ad enti di promozione), non comporta ex se l’applicazione dei benefici fiscali; dall’altro, nella specie il giudice del gravame ha valutato una serie di elementi di fatto (in particolare, il grande numero di iscritti -oltre 1300 -ed il mancato svolgimento di una reale vita associativa), ritenendoli idonei a suffragare lo svolgimento di una attività di natura ‘commerciale’.
Con il sesto strumento di impugnazione la contribuente lamenta la «violazione e falsa applicazione dell’art. 42 commi 2 e 3 D.P.R. n. 600 del 1973, dell’art. 7 comma 1 L. n. 212 del 2000, dell’art. 3 comma 1 L. n. 241 del 1990, dell’art. 2729 c.c. comma 1
e dell’art. 111 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c. comma 1 n. 3 Illegittimità del ricorso, da parte dell’Agenzia delle Entrate di Caserta, al metodo induttivo di accertamento -Motivazione apparente dell’impugnata sentenza sul punto».
Il motivo si sviluppa sostanzialmente lungo due direttrici: a) da una parte, la ricorrente lamenta l’erroneo ricorso, da parte dell’Ufficio, al metodo induttivo, in assenza di elementi gravi, precisi e concordanti; b) dall’altra, la motivazione della sentenza sul punto sarebbe apparente.
Il motivo non ha pregio.
6.1. La doglianza relativa alla motivazione apparente, logicamente e giuridicamente preliminare, non può essere accolta.
Giova premettere che secondo la giurisprudenza di questa Corte la motivazione è solo «apparente» e la sentenza è nulla quando benché graficamente esistente, non renda percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Cass., Sez. U., 7/4/2014 n. 8053).
Con particolare riferimento alla tecnica motivazionale per relationem questa Corte ha ripetutamente affermato che detta motivazione è valida a condizione che i contenuti mutuati siano fatti oggetto di autonoma valutazione critica e le ragioni della decisione risultino in modo chiaro, univoco ed esaustivo (Cass., Sez. U., 4/6/2008 n. 14814). Il giudice di appello è tenuto ad esplicitare le ragioni della conferma della pronuncia di primo grado con riguardo ai motivi di impugnazione proposti ( ex multis , Cass., 7/8/2015 n. 16612) sicché deve considerarsi nulla -in quanto meramente apparente -una motivazione per relationem alla sentenza di primo grado, qualora la laconicità della motivazione, come nel caso di specie, non consenta di appurare che alla condivisione della decisione di prime cure il giudice di appello sia pervenuto attraverso
l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame, previa specifica ed adeguata considerazione delle allegazioni difensive, degli elementi di prova e dei motivi di appello ( ex multis , Cass. 21/9/2017 n. 22022 e Cass. 25/10/2018 n. 27112).
Orbene, nel caso di specie la CTR ha motivato circa la sussistenza degli elementi ritenuti idonei a fondare il ricorso all’accertamento induttivo. La motivazione al riguardo è congrua e specifica, evidenziando gli elementi di fatto ritenuti gravi, precisi e concordanti onde inferire la natura commerciale dell’attività svolta dalla ricorrente.
6.2. Anche sotto l’altro profilo il motivo non è fondato.
È noto che la selezione, tra gli indizi offerti dall’Amministrazione a dimostrazione delle pretese fiscali, di quelli reputati rilevanti rientra a pieno titolo nel meccanismo di operatività dell’art. 2729 cod. civ., il quale, nel prescrivere che le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla “prudenza del giudice” (secondo una formula analoga a quella che si rinviene nell’art. 116 cod. proc. civ. a proposito della valutazione delle prove dirette), si articola nei due momenti valutativi della previa analisi di tutti gli elementi indiziari, volta a scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e a conservare viceversa quelli che, presi singolarmente, rivestono i caratteri della precisione e gravità, e della successiva valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi così isolati, oltreché dell’accertamento della loro idoneità alla prova presuntiva se considerati in combinazione tra loro (c.d. convergenza del molteplice), essendo erroneo l’operato del giudice di merito il quale, al cospetto di plurimi indizi, li prenda in esame e li valuti singolarmente, per poi giungere alla conclusione che nessuno di essi assurga a dignità di prova (da ultimo Cass., 21/03/2022, n. 9054; Cass. 05/04/2023, n. 9336; v. anche Cass., 09/03/2012 n. 3703).
Pertanto, come affermato da questa Corte, intanto può denunciarsi la violazione o falsa applicazione del ridetto art. 2729 cod. civ., in quanto il giudice di merito ne abbia contraddetto il
disposto, affermando che un ragionamento presuntivo può basarsi anche su presunzioni ( rectius : fatti), che non siano gravi, precisi e concordanti, ovvero abbia fondato la presunzione su un fatto storico privo di gravità o di precisione o di concordanza ai fini della inferenza dal fatto noto della conseguenza ignota e abbia dunque sussunto erroneamente sotto i tre caratteri individuatori della presunzione fatti concreti accertati che non siano, invece, rispondenti a quei caratteri, competendo soltanto in tal caso alla Corte di cassazione controllare se la norma in esame sia stata applicata a fattispecie concrete che effettivamente risultino ascrivibili alla fattispecie astratta o il giudice non sia incorso in errore nel considerare grave una presunzione che non lo sia sotto il profilo logico generale o sotto il particolare profilo logico (interno ad una certa disciplina) entro il quale essa si collochi, al pari di quanto può accadere con riguardo al controllo della precisione e della concordanza (in questi termini, v. ex multis Cass., 21/03/2022, n. 9054).
Se questo è il presupposto della violazione o errata applicazione dell’art. 2729 cod. civ., la deduzione del vizio, come già sostenuto da questa Corte, non può che estrinsecarsi nella puntuale indicazione, enunciazione e spiegazione dei motivi per i quali il ragionamento del giudice di merito sia irrispettoso dei paradigmi della gravità, precisione e concordanza, risolvendosi altrimenti la critica al ragionamento presuntivo svolto, che si sostanzi nell’enunciazione di una diversa modalità della sua ricostruzione, nel suggerimento di un diverso apprezzamento della questio facti che si pone al di là della fattispecie di cui all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., atteso che il giudice di merito, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente
incompatibili con la decisione adottata (Cass., 02/08/2016, n. 16056), e che la valutazione del compendio probatorio è preclusa a questa Corte, essendo riservata al giudice di merito al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (cfr. Cass., 13/01/2020, n. 331; Cass., 04/08/2017, n. 19547; Cass., 04/11/2013, n. 24679; Cass., 16/12/2011, n. 27197; Cass., 07/02/2004 n. 2357).
Nella specie la CTR, sulla base dei diversi elementi dedotti dall’Ufficio (il cospicuo numero di iscritti ed il mancato svolgimento di attività associativa) ha ritenuto corretto l’operato dell’A.F. in ordine alla natura commerciale dell’attività svolta dalla ricorrente.
La ricorrente ha contestato tale conclusione, da un lato, affermando genericamente che i detti elementi ‘nulla possono dimostrare riguardo alla natura commerciale o meno di un’associazione’, dall’altro, deducendo che i ricavi registrati per l’introito dell e quote o rette versate dai soci sarebbero esenti da imposta ‘siccome derivanti da attività svolta dalla ricorrente come associazione sportiva dilettantistica regolarmente iscritta nel registro CONI’ (pag. 15 del ricorso).
La deduzione è inammissibile nella parte in cui attribuisce, di nuovo, valenza all’iscrizione dell’associazione al CONI (valenza da escludere per quanto già evidenziato in sede di esame del quarto motivo di ricorso) ed infondata nella parte in cui viene, solo in termini generici, contestata la valenza indiziaria degli elementi di fatto sopra riportati.
I l ricorso va, per l’effetto, integralmente rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Sussistono, infine, i presupposti, ai sensi dell’articolo 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115/2002, per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis del citato art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore dell’Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore , delle spese processuali che si liquidano in euro 5.600,00 oltre spese prenotate a debito.
Dà atto della sussistenza dei presupposti, ai sensi dell’articolo 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115/2002, per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis del citato art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 28 novembre