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Accertamento studi di settore: quando è legittimo?

La Corte di Cassazione ha confermato la legittimità di un accertamento basato su studi di settore a carico di una società metallurgica. La decisione si fonda sulla “grave incongruenza” tra i ricavi dichiarati e quelli stimati, ulteriormente corroborata dal comportamento palesemente antieconomico dell’azienda (utili irrisori a fronte di un alto fatturato). La Corte ha sottolineato l’importanza del contraddittorio preventivo, durante il quale l’Agenzia delle Entrate aveva anche ricalibrato l’analisi sulla base delle indicazioni del contribuente, senza tuttavia modificare le ragioni sostanziali della pretesa fiscale. Il ricorso dell’impresa è stato rigettato.

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Pubblicato il 10 ottobre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Accertamento studi di settore: la Cassazione chiarisce i limiti di legittimità

L’accertamento basato sugli studi di settore rappresenta da anni uno degli strumenti più discussi nell’arsenale del Fisco. Con l’ordinanza in commento, la Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sulla materia, delineando con precisione i presupposti di legittimità di tale procedura e il ruolo cruciale del comportamento del contribuente e del contraddittorio preventivo. La sentenza offre spunti fondamentali per imprese e professionisti che si confrontano con le pretese dell’Agenzia delle Entrate.

I fatti del caso

Una società operante nel commercio all’ingrosso di ferro e altri metalli impugnava un avviso di accertamento con cui l’Agenzia delle Entrate contestava, per l’anno d’imposta 2006, maggiori ricavi ai fini Ires, Irap e Iva. La contestazione nasceva da una “grave incongruenza” emersa dall’applicazione dello studio di settore TM11U.

L’Ufficio aveva rilevato che i ricavi dichiarati (circa 3,88 milioni di euro) erano significativamente inferiori a quelli stimati (circa 3,96 milioni di euro). Questa discrepanza era ulteriormente supportata da altri elementi, quali l’incongruenza dei ricavi reiterata nel tempo (dal 2004 al 2008) e un andamento palesemente antieconomico dell’attività d’impresa, caratterizzato da un utile dichiarato irrisorio (poco più di 28.000 euro) rispetto all’elevato volume d’affari.

Dopo un primo grado favorevole al contribuente, la Commissione Tributaria Regionale aveva riformato la decisione, accogliendo l’appello dell’Agenzia. La società ha quindi proposto ricorso per cassazione, lamentando, tra le altre cose, la violazione delle norme sulla motivazione degli atti e sull’onere della prova, e sostenendo che l’Agenzia avesse illegittimamente mutato le ragioni della pretesa in corso di causa.

Il ruolo del contraddittorio nell’accertamento studi di settore

Uno dei punti centrali del ricorso verteva sul presunto vizio dell’atto di appello dell’Agenzia, che, secondo la società, avrebbe tentato una inammissibile mutatio libelli, trasformando un accertamento da studi di settore in un accertamento induttivo “tout court”. La Corte di Cassazione ha rigettato questa tesi, chiarendo la funzione del contraddittorio.

Nel corso del procedimento, la società aveva eccepito l’errata applicazione del codice attività (relativo al commercio al dettaglio anziché all’ingrosso). L’Agenzia, tenendo conto di questa osservazione, aveva provveduto a rielaborare lo studio di settore sulla base del cluster più corretto, rideterminando parzialmente la pretesa. Secondo la Suprema Corte, questa non è una modifica delle ragioni originarie dell’accertamento, ma un doveroso adeguamento dell’analisi alla luce del dialogo con il contribuente. Le ragioni fondanti della pretesa (la grave incongruenza e il comportamento antieconomico) sono rimaste immutate.

La rilevanza del comportamento antieconomico

La Corte ha dato particolare peso alla circostanza che l’impresa mostrasse una redditività reiteratamente bassa e incongrua rispetto al volume d’affari. Un utile di soli 28.505 euro su ricavi per oltre 3,8 milioni di euro è stato considerato un chiaro sintomo di antieconomicità. Questo elemento, secondo i giudici, non è un motivo di accertamento autonomo, ma agisce come una forte “corroborazione” della stima operata tramite gli studi di settore. Rafforza la presunzione che i ricavi effettivi fossero superiori a quelli dichiarati.

Le motivazioni

La Corte Suprema ha stabilito che la procedura di accertamento standardizzato trova il suo fulcro nel contraddittorio endoprocedimentale. Questo dialogo permette di adeguare gli standard statistici alla realtà concreta dell’impresa. La motivazione dell’atto impositivo non può limitarsi al mero scostamento numerico, ma deve integrare la dimostrazione dell’applicabilità dello standard e le ragioni per cui le contestazioni del contribuente sono state disattese.

Nel caso di specie, l’Agenzia delle Entrate aveva correttamente motivato l’atto, fondandolo non solo sullo scostamento, ma anche su una serie di circostanze che ne rafforzavano la fondatezza, come la persistente incongruenza della redditività e l’andamento antieconomico. Il fatto che, a seguito del contraddittorio, l’Ufficio abbia ricalibrato l’analisi basandosi su un cluster più pertinente (indicato dalla stessa società) non ha snaturato l’accertamento, ma ne ha confermato la correttezza procedurale. La CTR, confermando la legittimità dell’avviso, non è incorsa in alcun vizio di ultrapetizione, poiché non ha mutato l’oggetto del contendere, che è rimasto ancorato alle ragioni originarie esposte nell’avviso di accertamento.

Le conclusioni

In conclusione, l’ordinanza ribadisce un principio fondamentale: l’accertamento basato sugli studi di settore è legittimo quando si fonda su una “grave incongruenza”, ma questa deve essere valutata nel contesto complessivo della gestione aziendale. Un comportamento palesemente antieconomico del contribuente, come un rapporto deficitario tra costi e ricavi o utili irrisori, costituisce un elemento probatorio di grande peso che corrobora le stime del Fisco. La decisione sottolinea inoltre l’imprescindibilità del contraddittorio, non come mera formalità, ma come fase sostanziale in cui la pretesa tributaria viene affinata e adeguata alla specifica realtà del contribuente, senza che ciò implichi una modifica delle ragioni fondanti dell’accertamento stesso.

Un accertamento fiscale può basarsi solo su una discrepanza con gli studi di settore?
No. Secondo la Corte, sebbene la “grave incongruenza” sia il presupposto necessario per un accertamento da studi di settore, la motivazione dell’atto deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità dello standard prescelto e con le ragioni del rigetto delle contestazioni del contribuente. Inoltre, elementi come un comportamento palesemente antieconomico corroborano e rafforzano la presunzione derivante dallo scostamento.

Cosa si intende per “grave incongruenza” che giustifica un accertamento studi di settore?
La sentenza non fornisce una definizione quantitativa, ma chiarisce che il requisito della “grave incongruenza” è un presupposto impositivo necessario. Nel caso specifico, la Corte ha ritenuto tale requisito soddisfatto non solo sulla base dello scostamento numerico, ma anche considerando la condotta antieconomica della società, che a fronte di ricavi superiori a 3,8 milioni di euro aveva dichiarato un utile irrisorio.

L’Agenzia delle Entrate può modificare le ragioni dell’accertamento durante il processo?
No. La Corte ribadisce che le ragioni poste a base dell’avviso di accertamento definiscono i confini del giudizio tributario. L’Ufficio non può modificare tali ragioni o introdurne di nuove nel corso della causa. Tuttavia, può precisare e difendere la propria posizione iniziale, anche rielaborando i dati alla luce del contraddittorio con il contribuente, purché la causa petendi (la ragione della pretesa) rimanga la stessa.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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