Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 15401 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 15401 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 09/06/2025
ORDINANZA
Sul ricorso n. 15686-2018 R.G., proposto da:
RAGIONE_SOCIALE , cf 021146709249, in persona del legale rappresentante p.t., elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso l o studio dell’avv. NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME
Ricorrente
CONTRO
RAGIONE_SOCIALE , cf NUMERO_DOCUMENTO, in persona del Direttore p.t., elettivamente domiciliata in Roma, alla INDIRIZZO presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che ex lege la rappresenta e difende –
Controricorrente
Avverso la sentenza n. 1174/02/2017 della Commissione tributaria regionale del Veneto, depositata il 23 novembre 2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio il 12 marzo 2025 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
Accertamento -Studi di settore -Contraddittorio
FATTI DI CAUSA
Dalla sentenza emerge che relativamente all’anno d’imposta 200 9 l’Agenzia delle entrate notificò alla società, esercente l’attività di costruzione di edifici residenziali e no, l’avviso d’accertamento con cui rideterminò l’imponibile ai fini Ires, Irap ed Iva, irrogando le conseguenti sanzioni. L’accertamento era scat urito dalla rilevazione della incongruenza tra i ricavi dichiarati ed i risultati derivanti dallo studio di settore relativo all’attività esercitata. L’ufficio rideterminò pertanto i ricavi sociali ex art. 39, comma 1, lett. d), d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600.
La società, che nel contradittorio endoprocedimentale instaurato non aveva visto accolte integralmente le proprie ragioni, adì la Commissione tributaria provinciale di Vicenza, la quale, con sentenza n. 798/01/2016, ne accolse le ragioni. L’appello proposto dall’amministrazione finanziaria fu invece accolto dalla Commissione tributaria regionale del Veneto con sentenza n. 1174/02/2017. Il giudice regionale ha ritenuto che l’ufficio aveva correttamente applicato lo studio di settore, tenendo conto dell’esito del contraddittorio, che aveva spiegato i suoi effetti sulla concreta determinazione del maggior imponibile. A tal fine ha apprezzato i criteri di rideterminazione del reddito (valore minimo risultante dallo studio di settore e non quello puntuale; imputazione dei maggiori ricavi ai soli cantieri in perdita; applicazione di aliquota Iva inferiore a quella media). Ha inoltre considerato che lo studio di settore adottato conteneva già i correttivi anticrisi necessari a valutare l’attività della società nel periodo sfavorevole in corso. Ha quindi riconosciuto che lo studio di settore così corretto, a seguito del confronto con la contribuente, assicurava un accertamento analitico-induttivo fondato su presunzioni gravi precise e concordanti. Esaminando quindi le ulteriori ragioni non esaminate in primo grado e reiterate dalla società in appello, ha respinto sia quella con cui si denunciava il mancato rispetto del termine di sessanta giorni dalla conclusione dell’attività di verifica prima della notifica dell’atto impositivo, per trattarsi di un controllo cd. ‘a tavolino’, sia quella sul presunto difetto di contraddittorio.
Con tre motivi la contribuente ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza, ulteriormente illustrati da memoria, cui ha resistito l ‘Agenzia delle entrate con controricorso.
All’esito dell’adunanza camerale del 12 marzo 2025 la causa è stata decisa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il contribuente ha denunciato:
con il primo motivo la violazione e falsa applicazione dell’art. 62 -sexies, d.l. 30 agosto 1993, n. 331, de ll’ art. 39, comma 1, lett. d) del d.P.R. 29 settembre 1979, n. 600, dell’art. 54 d.P.R. 26 ottobre 1972, nonché degli artt. 10, comma 1, l. n. 148 del 1998, 2727 e segg., cod. civ., 132 c.p.c. e 111 Cost., in relazione all’art. 360, primo comma, n n. 3 e 5, cod. proc. civ. Il giudice regionale non avrebbe preso posizione sulle articolate argomentazioni esposte in sede di contraddittorio al fine di dimos trare l’inapplicabilità dello studio di settore; non avrebbe tenuto conto della sussistenza di condizioni che avrebbero giustificato la suddetta esclusione;
c on il secondo motivo la violazione e falsa applicazione dell’art. 10, l. n. 146 del 1998, e dell’art. 10 l. n. 212 del 2000, in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, cod. proc. civ.. La Commissione regionale non avrebbe valutato l’insussistenza di un contraddittorio effettivo ;
con il terzo motivo la violazione e falsa applicazione degli artt. 7 e 12, l. 212 del 2000, dell’art. 42, d.P.R. n. 600 del 1973, dell’art. 56 del d.P.R. n. 633 del 1972, in relazione all’art. 360, primo comma, n n. 3 e 5, cod. proc. civ. Il collegio regionale avrebbe omesso di motivare sulla denuncia della illegittimità dell’avviso d’accertamento, emesso in difetto di motivazione.
I tre motivi possono essere esaminati congiuntamente, poiché sotto profili diversi denunciano un errore di diritto commesso dal giudice d’appello in materia di applicazione degli studi di settore, oltre che vizi motivazionali riconducibili nell’alveo della complessiva incompletezza dell’attività accertativa.
Va intanto premesso che rappresenta l’esito di un a evoluzione interpretativa ormai consolidata il principio secondo cui la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore, introdotto con l’art. 62 sexies del d.l. n. 331 del 1993, costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli standard in sé considerati -meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività- ma nasce
solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente con il contribuente, pena la nullità dell’accertamento. In tale sede il contribuente ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli standard o che spieghino la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame. La motivazione dell’atto di accertamento non può dunque esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello standard prescelto e con le ragioni per le quali non sono state ritenute attendibili le allegazioni del contribuente. L’esito del contraddittorio peraltro non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli standard al caso concreto, il cui onere probatorio grava sull’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente (Cass., Sez. U., 18 dicembre 2009, n. 26635; 18 dicembre 2017, n. 30370; 31 maggio 2018, n. 13908; 20 settembre 2017, n. 21754; 07/06/2017, n. 14091; 12 aprile 2017, n. 9484).
Attese quindi le conseguenze derivanti dalla ripartizione dell’onere probatorio, si è anche affermato che ogni qual volta il contraddittorio sia stato regolarmente attivato e il contribuente abbia omesso di parteciparvi, oppure, anche partecipando, non abbia allegato alcunché per spiegare lo scostamento, l’Ufficio non è più tenuto ad offrire alcuna ulteriore dimostrazione della pretesa esercitata in ragione del semplice disallineamento del reddito dichiarato rispetto ai menzionati parametri (cfr. Cass., 15 luglio 2020, n. 14981; 20 settembre 2017, n. 21754 cit.; 30 ottobre 2018, n. 27617 e 20 giugno 2019, n. 16545). In questo caso, infatti la rilevazione dello scostamento, a fronte dell’assenza di elementi con cui il contribuente ne spieghi la sussistenza, assume la dignità di indizio grave e preciso, idoneo, pur se unico, a supportare la dimostrazione del fatto ancora sconosciuto, ai sensi dell’art. 2729 cod. civ. Tanto in ogni caso non pregiudica definitivamente la difesa del contribuente, cui resta sempre il diritto di allegazione e di prova in sede contenziosa, anche per la prima volta, degli elementi idonei a vincere le presunzioni su cui l’accertamento tributario si fonda (cfr. Cass., 30 settembre 2019, n. 24330; 9 ottobre 2020, n. 21824; da ultimo cfr. 24931 del 18 agosto 2022).
Peraltro, sempre ai fini dell’accertamento affidato allo scostamento tra dichiarato e risultanze dello studio applicato, questa Corte ha ritenuto rilevante l’emersione di una grave incongruenza tra i dati (Sez. U., 18 dicembre 2009, n. 26635; cfr. anche 26 settembre 2014, n. 20414; 4 novembre 2016, n. 22421; 29 marzo 2019, n. 8854). E a tal fine si è affermato che il requisito della “grave incongruenza” di cui all’art. 62-sexies, comma 3, d.l. n. 331 del 1993, convertito con modificazioni dalla l. n. 427 del 1993, costituisce presupposto impositivo necessario per gli avvisi di accertamento su di essi fondati, senza che assuma rilievo, per gli avvisi notificati successivamente al 1° gennaio 2007, la modifica dell’art. 10, comma 1, l. n. 146 del 1998 operata con l’art. 1, comma 23, l. n. 296 del 2006, in quanto priva di portata innovativa e diretta ad assicurare, secondo una interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata, una funzione di mera semplificazione e coordinamento normativo, attesa l’abrogazione dei commi 2 e 3 del medesimo art. 10, ad opera dell’art. 37, comma 2, lett. b, d.l. n. 226 del 2006, e l’estensione della tipologia di accertamento a prescindere dalla contabilità adottata (cfr. Cass., 27 giugno 2022, n. 20608).
Quanto, infine, allo studio di settore da applicare, giurisprudenza ormai consolidata ha chiarito come, trattandosi di accertamento compiuto mediante l’applicazione di parametri e studi di settore frutto di un progressivo affinamento degli strumenti di rilevazione della normale redditività per categorie omogenee di contribuenti, esso costituisce un sistema unitario, per il quale si giustifica l’applicazione retroattiva dello strumento più recente, che prevale rispetto a quello precedente, in quanto più raffinato e più affidabile (cfr. Sez. U, 18 dicembre 2009, n. 26635; Cass., 18 novembre 2015, n. 23554, che ha dichiarato l’illegittimità dell’atto di rettifica, ai fini IRPEF ed IVA, adottato sulla base dei maggiori ricavi presunti in forza dei parametri di cui agli artt. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973, e 3, commi 181 e 184, della legge n. 549 del 1995, vigenti all’epoca dell’accertamento, nonostante la congruità dei ricavi dichiarati dal contribuente rispetto agli studi di settore, previsti dagli 62 bis e 62 sexies del d.l. n. 331 del 1993, conv. in legge n. 427 del 1993, successivamente introdotti).
Si è anzi affermato che in tema di accertamento induttivo, mentre l’errato inquadramento nello studio di settore, in quanto afferente alla genesi dell’atto impositivo, costituisce un’eccezione relativa a norma procedimentale, che
RGN 15686/2018 Consigliere rel. NOME
deve essere eccepita a pena di decadenza, il successivo affinamento in uno studio di settore più evoluto costituisce ius superveniens , rilevabile anche in appello, sorgendo in capo al contribuente un diritto soggettivo perfetto ad essere riqualificato secondo il nuovo strumento (Cass., 16 dicembre 2019, n. 33035). L’esigenza, e ad un tempo l’autorevolezza dello studio di settore più evoluto, giustifica peraltro l’affermazione secondo cui, a fronte di un accertamento induttivo, ex art. 39, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 600 del 1973, il giudice tributario deve verificare la scelta dell’Amministrazione, in relazione alle censure prospettate, atteso che tali studi vanno preferiti ai diversi parametri utilizzati in sede di accertamento induttivo, per la natura più raffinata dei primi, desumibile dalla stessa normativa che li ha introdotti (cfr. Cass., 18 agosto 2022, n. 24881).
Questi i principi che presidiano l’accertamento mediante applicazione degli studi di settore, nel caso ora al vaglio della Corte, il giudice d’appello, come già riassunto nella esposizione dei fatti, ha intanto riconosciuto che l’amministrazione aveva assicurato il contraddittorio. Ha rilevato che il confronto tra le parti nella fase endoprocedimentale a veva inciso sull’esito complessivo dell’accertamento, senza giungere ad accogliere l’intera prospettazione difensiva della società, che mirava ad escludere in radice l’applicazione dello studio di settore. A tal fine ha valorizzato le correzioni apportate allo studio applicato, favorevoli alla contribuente. Ha escluso le ulteriori pretese della società, reputando che in definitiva la rideterminazione dei ricavi fosse fondata su indizi gravi, precisi e concordanti.
A fronte del contenuto della motivazione, non ha pregio lamentare che nella sentenza non risultano esaminate tutte le ragioni pur allegate nella fase endoprocedimentale dalla contribuente. A parte una intrinseca contraddittorietà della costruzione difensiva, che denuncia l ‘insufficienza del confronto endoprocedimentale con l’ufficio, ma implicitamente riconosce che dinanzi all’amministrazione fossero state allegate le ampie motivazioni che sorreggevano la richiesta di esclusione dell’applicazione dello stud io, la censura di fatto sottende ad un tentativo di rimettere in discussione l’accertamento operato dal giudice di merito, che è un accertamento in fatto. Peraltro, è appena il caso di rammentare che il giudice, nell’esaminare gli elementi e le ragioni difensive, non è tenuto ad una analitica valutazione di ogni singola questione proposta dalle parti, atteso che anche in tema di prove
si afferma che debbano ritenersi per implicito disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con il percorso argomentativo seguito.
Nel caso di specie la sentenza risulta sorretta da una motivazione logica, coerente ed esaustiva.
In definitiva il ricorso va rigettato. Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente alla rifusione in favore dell’Agenzia delle entrate delle spese del giudizio, che si liquidano nella misura di € 2.400,00 a titolo di competenze, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis del medesimo articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, all’esito della camera di consiglio del 12 marzo 2025