Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 5899 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 5899 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 05/03/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 23214/2016 R.G. proposto da :
NOME COGNOME con l’avvocato NOME COGNOME nel domicilio eletto presso la casella di posta elettronica certificata del difensore: EMAIL
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Direttore generale pro tempore , domiciliata ex lege in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO) che la rappresenta e difende
-controricorrente-
*RISTRETTA BASE RADDOPPIO TERMINI
avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. LOMBARDIA n. 1199/2016 depositata il 04/03/2016.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 19/02/2025 dal Co: COGNOME NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
La società RAGIONE_SOCIALE, già dichiarata fallita il 22 novembre 2007, riceveva avviso di accertamento in data 16 aprile 2012 a seguito di indagini sui movimenti di conto corrente bancario e conseguente ricostruzione induttiva del reddito, presumendo reddito occulto la somma dei prelevamenti e dei versamenti non giustificati.
Preso atto della autorizzazione al curatore di non ricorrere, data dal giudice delegato della procedura concorsuale, ma fatti salvi i diritti dei soci, l’ex amministratore NOME COGNOME proponeva ricorso nell’interesse della società RAGIONE_SOCIALE Nelle more del giudizio di primo grado giungevano gli avvisi di accertamento ai due soci, NOME e NOME COGNOME in ragione della presunzione di riparto del maggior reddito occulto accertato, in ragione della ristretta compagine societaria ed in proporzione alla paritaria quota del capitale sociale sottoscritta.
Anche i soci proponevano distinti ricorsi avverso gli avvisi di accertamento individuali sicché sfociavano tre sentenze di accoglimento in primo grado delle ragioni della parte contribuente, donde impugnava l’Agenzia delle entrate. Il collegio di appello riuniva i giudizi e, in riforma delle gravate sentenze, pronunciava in accoglimento dell’impugnazione erariale, ritenendo non legittimato l’ex amministrazione ad impugnare l’avviso societario che doveva quindi ritenersi definitivo, con effetto a cascata verso i conseguenti atti impositivi notificati ai soci. Ritenuto legittimo il raddoppiamento dei termini di accertamento in presenza di fatti per cui è dovuta la denuncia penale, la commissione regionale confermava integralmente la ripresa a tassazione.
Avverso questa sentenza propone ricorso il socio NOME COGNOME affidandosi a sette strumenti, cui replica l’Avvocatura generale dello Stato con tempestivo controricorso.
CONSIDERATO
Vengono proposti sette motivi di ricorso.
Con il primo motivo si protesta censura ai sensi dell’articolo 360 numero 3 del codice di procedura civile in ordine alla legittimazione del fallito a ricorrere avverso l’avviso di accertamento in errata applicazione dell’articolo 43 del regio decreto 16 marzo 1942 numero 267.
Nella sostanza si lamenta non sia stato ritenuto legittimato a proporre ricorso l’ex amministratore NOME COGNOME una volta che la curatela abbia deciso di non proporre impugnazione, pur essendo stati fatti salvi i diritti dei soci, secondo l’esplicito provvedimento del giudice delegato al fallimento. Nello specifico, si lamenta che la sentenza in scrutinio abbia ritenuto inammissibili le impugnazioni dei soci una volta che abbia ritenuto definitivo l’accertamento societario perché non legittimato ad impugnarlo l’ex socio ed ex amministratore.
Con il secondo motivo si prospetta censura i sensi dell’articolo 360 numero 3 del codice di procedura civile per errata applicazione dell’articolo 43, comma 2 bis , del DPR numero 600 del 1973, nonché censura ai sensi dell’articolo 360 numero 5 del codice di procedura civile per la posizione dell’ex socio NOME COGNOME in ordine all’applicabilità della predetta disposizione di legge. Nello specifico si lamenta sia stato ritenuto applicabile il raddoppio dei termini per il solo fatto dell’astratta sussistenza dell’obbligo di denuncia penale in presenza di fatti a ciò rilevanti. In particolare, non è stata considerata la posizione del socio NOME COGNOME estraneo alle vicende penali della società e del congiunto altro socio.
Con il terzo motivo si profila ancora censura ai sensi dell’articolo 360 numero 3 del codice di procedura civile per errata interpretazione e disapplicazione dell’articolo 12, settimo comma, della legge numero 212 del 2000, non essendosi instaurato un preventivo contraddittorio con il contribuente da parte dell’Ufficio.
Con il quarto motivo si profila censura i sensi dell’articolo 360 numero 3 del codice di procedura civile per violazione
dell’articolo 6, terzo comma, della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dell’articolo 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e contestuale omessa valutazione sul punto ai sensi dell’articolo 360 numero 5 del codice di procedura civile.
Nello specifico si contesta la mancanza di contraddittorio preventivo endoprocedimentale a garanzia e a tutela dei diritti della parte privata.
Con il quinto motivo si profila censura ai sensi dell’articolo 360 numero 3 del codice di procedura civile per violazione dell’articolo 7, primo comma, dello Statuto dei diritti del contribuente di cui alla legge numero 212 del 2000, nonché dell’articolo 3 della legge numero 241 del 1990, anche ai sensi dell’articolo 360 numero 5 del codice di procedura civile.
Nella sostanza si lamenta la mancanza di contraddittorio e la mancanza di motivazione dell’avviso di accertamento, non potendosi ritenere risolta la questione con la notifica del processo verbale di constatazione all’ex legale rappresentante ed ex amministratore della società.
Con il sesto motivo si profila censura i sensi dell’articolo 360 numero 3 del codice di procedura civile per violazione dell’articolo 38, terzo comma, del d.P.R. numero 600 del 1973.
Nella sostanza si contesta la presunzione di riparto di utili occulti in ragione della partecipazione a società di capitali a ristretta compagine sociale.
Con il settimo ed ultimo motivo si profila censura ai sensi dell’articolo 360 numero 5 del codice di procedura civile per mancato esame dell’intera linea difensiva di giustificazione della movimentazione bancaria contestata. Nello specifico, si lamenta che la sentenza in scrutinio abbia obliterato le argomentazioni difensive in ordine alla legittimità della movimentazione sul conto corrente da cui ha tratto scaturigine l’avviso di accertamento nei confronti della società e quello nei confronti dei soci.
Il primo motivo è fondato nei termini che seguono.
Il collegio di secondo grado ha articolatamente argomentato, in aderenza al testo di legge vigente ratione temporis , come il fallito non possa più agire per conto della società, nemmeno per reagire ad atti impositivi precedenti alla dichiarazione di fallimento, poiché inerenti a profili patrimoniali che entrano nella massa creditoria/debitoria, la cui gestione spetta alla curatela, con le dovute autorizzazioni, in ordine alle valutazioni di convenienza o opportunità. Al fallito, una vota rientrato in bonis , spetta semmai azione di responsabilità per mala gestio .
Se è vero che il fallito conserva una sorta di legittimazione sussidiaria in caso di accertata inerzia degli organi della procedura concorsuale, nel caso in esame è incontroverso esserci stata una valutazione del curatore ed un conforme provvedimento del giudice delegato nel senso di non impugnare gli atti impositivi. Un tanto esclude la legittimazione sussidiaria del fallito.
Ed infatti, l’accertamento tributario in materia di I.V.A., ove inerente a crediti i cui presupposti si siano determinati prima della dichiarazione di fallimento del contribuente o nel periodo d’imposta in cui tale dichiarazione è intervenuta, deve essere notificato non solo al curatore – in ragione della partecipazione di detti crediti al concorso fallimentare, o, comunque, della loro idoneità ad incidere sulla gestione delle attività e dei beni acquisiti al fallimento – ma anche al contribuente, il quale non è privato, a seguito della dichiarazione di fallimento, della sua qualità di soggetto passivo del rapporto tributario e resta esposto ai riflessi, anche di carattere sanzionatorio, che conseguono alla “definitività” dell’atto impositivo. Da ciò deriva che il fallito, nell’inerzia degli organi fallimentari ravvisabile, ad es., nell’omesso esercizio, da parte del curatore, del diritto alla tutela giurisdizionale nei confronti dell’atto impositivo -, è eccezionalmente abilitato ad esercitare egli stesso tale tutela alla luce dell’interpretazione sistematica del combinato disposto degli art. 43 della legge fallimentare e dell’art. 16 del d.P.R. n. 636 del 1972, conforme ai principi, costituzionalmente garantiti (art. 24, comma primo e secondo, Cost.) del diritto alla tutela giurisdizionale
ed alla difesa (cfr. Cass. V, n. 4235/2006; cfr. conformi, anche per le imposte dirette: Cass. V, n. 2910/2009, n. 4113/2014). Più in generale, è stato affermato che la dichiarazione di fallimento, pur non sottraendo al fallito la titolarità dei rapporti patrimoniali compresi nel fallimento, comporta, a norma dell’art. 43 l. fall., la perdita della sua capacità di stare in giudizio nelle relative controversie, spettando la legittimazione processuale esclusivamente al curatore. Se, però, l’amministrazione fallimentare rimane inerte, il fallito conserva, in via eccezionale, la legittimazione ad agire per la tutela dei suoi diritti patrimoniali, sempre che l’inerzia del curatore sia stata determinata da un totale disinteresse degli organi fallimentari e non anche quando consegua ad una negativa valutazione di questi ultimi circa la convenienza della controversia (cfr. Cass. I, n. 13814/2016; n. 2626/2018).
Infine, sul punto è intervenuta questa Corte, con pronuncia a Sezioni Unite, affermando che qualora i presupposti di un rapporto tributario si siano formati prima della dichiarazione di fallimento, il contribuente dichiarato fallito a cui sia stato notificato l’atto impositivo può impugnarlo, ex art. 43 l.f., a condizione che il curatore si sia astenuto dall’impugnazione, assumendo un comportamento oggettivo di pura e semplice inerzia, indipendentemente dalla consapevolezza e volontà che l’abbiano determinato; l’insussistenza di detto stato di inerzia comporta, per il fallito, il difetto della capacità processuale di impugnare l’atto impositivo, vizio suscettibile di essere rilevato, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del processo (Cfr. Cass. S.U. n. 11287/2023). Tale ultima evenienza -quella di una valutazione negativa degli organi fallimentari circa la convenienza della controversia- è quanto si è concretato nella fattispecie in oggetto.
Ne consegue che l’ex amministratore non era legittimato, nel caso di specie, all’impugnazione dell’avviso di accertamento societario, soggiacendo alle conseguenze per la ripresa a tassazione come socio, salva la possibilità di opporre i profili suoi personali (p. es., dimostrazione della mancata distribuzione dell’utile o suo
reinvestimento) ed è a questo profilo che intende far riferimento il giudice delegato quando parla -nell’autorizzazione al curatore di non impugnare- che è fatta salva la posizione degli organi sociali.
Un tanto è quanto parimenti avvenuto nel caso di specie, ove l’ex amministratore ha agito (anche) per tutelare la propria posizione personale che sarebbe pregiudicata dalla definitività dell’accertamento in capo alla società, come peraltro riconosciuto dalla stessa sentenza qui in scrutinio.
La costituzione di un litisconsorzio processuale (facoltativo) in appello, comporta che il socio non amministratore debba aggredire l’unica sentenza che ha riunito in appello le posizioni sua, del socio ex amministratore e della società, per avversare l’atto presupposto (l’accertamento societario) al fine di far valere le proprie ragioni nell’opposizione all’accertamento tributario conseguente che lo riguarda personalmente. In questi termini il socio non amministratore è legittimato ad agire (anche) nei confronti del presupposto atto di accertamento societario ed avverso la sentenza che lo ritiene definitivo.
In questi termini il primo motivo è fondato e merita accoglimento.
Il secondo motivo è parimenti fondato nei termini che seguono. Nella sostanza si afferma non poter esservi il raddoppio dei termini per la ripresa a tassazione perché non vi è mai stata denuncia penale nei confronti del ricorrente NOME COGNOME Il motivo di ricorso nuove dall’equivoco per cui il raddoppiamento dei termini di cui all’art. 43 d.P.R. n. 600/1973 scaturisce da una valida denuncia querela. Al contrario, è stato chiarito come sia sufficiente solo la sussistenza di situazioni che astrattamente configurano fatti per i quali è obbligatoria la presentazione della denuncia, anche se nel concreto non sia stata presentata o sia stata poi archiviata. Ed infatti, in tema di accertamento tributario, per il raddoppio dei termini ex artt. 43, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973 e 57, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972, è sufficiente l’emersione di elementi da cui derivi l’obbligo di presentazione di denuncia penale
e non rilevano i successivi esiti dell’accertamento né il fatto che gli atti impositivi siano fondati su elementi privi di rilevanza penale, salvo che non emerga un uso pretestuoso o strumentale della disposizione, al solo fine di fruire, ingiustificatamente, di un più ampio termine (cfr. Cass. T., n, 20409/2023).
Più precisamente, in tema di accertamento tributario, l’obbligo di denuncia penale fa scattare il raddoppiamento dei termini per l’emissione degli atti impositivi previsto dall’art. 43, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973, vigente ratione temporis , nei confronti dei soci di società di persone sulle imposte dovute “per trasparenza”, anche se la ripresa a tassazione nei confronti della società si sia risolta in annullamento (Cfr. Cass. T., n. 27026/2024; in tal senso, con riferimento ad una società in nome collettivo, Cass. 16/12/2016, n. 26037; per l’applicabilità del raddoppio dei termini ai soci di una società di capitali a ristretta base partecipativa, cfr. Cass. 7/10/2015, n. 20043).
Ne consegue che non può essere apprezzata la circostanza che nel caso in esame non vi fosse stata alcuna denuncia nei confronti del ricorrente NOME COGNOME
Tuttavia, nella ripresa a tassazione de qua si controverte altresì di IRAP, per la quale imposta non è possibile il raddoppio dei termini. Ed infatti, In tema di accertamento, il cd. “raddoppio dei termini”, previsto dall’art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973, non può trovare applicazione anche per l’IRAP, poiché le violazioni delle relative disposizioni non sono presidiate da sanzioni penali (cfr. Cass., VI-5, n. 10483/2018).
Entro questi limiti il motivo merita accoglimento, dovendo il giudice del rinvio procedere al ricalcolo a scomputo dell’IRAP, con la conseguente diminuzione di imponibile nei confronti dell’accertamento a carico del socio.
I motivi terzo, quarto e quinto possono essere trattati congiuntamente, attenendo ai profili endoprocedimentali dell’avviso di accertamento, al contraddittorio preventivo ed alla motivazione dell’atto, e sono infondati.
Occorre considerare che la ristretta base partecipativa al capitale sociale ingenera la presunzione di conoscenza degli affari societari, per il legame familiare ed il forte nesso personale che stringe la compagine societaria, prevalendo il momento soggettivo e personalistico sul profilo anonimo del capitale investito.
Il contribuente era o doveva essere informato dei fatti societari, delle procedure nei confronti della società e delle vicende connesse, non potendo vantare particolare e diverso interesse ad un sub procedimento personale.
Ed infatti, in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, l’Amministrazione finanziaria è gravata di un obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale, la cui violazione comporta l’invalidità dell’atto purché il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa, esclusivamente per i tributi “armonizzati”, mentre, per quelli “non armonizzati”, non è rinvenibile, nella legislazione nazionale, un analogo generalizzato vincolo, sicché esso sussiste solo per le ipotesi in cui risulti specificamente sancito (cfr. Cass. S.U., n. 24823/2015). Tale ‘prova di resistenza’ non ha fornito il contribuente, anche in parametro alla tutela della Convenzione EDU.
Pertanto, i motivi terzo, quarto e quinto non possono essere accolti.
Con il sesto motivo si critica la presunzione di riparto pro quota in capo ai soci del maggior utile accertato in capo ad una società a ristretta base partecipativa. Nel concreto si afferma l’estraneità del contribuente NOME COGNOME, residente all’estero ed impegnato in attività del tutto eccentrica a quella della società gestita dal congiunto, per cui non avrebbe mai percepito alcuna distribuzione di maggiore utile da reddito occulto.
Il motivo non può essere apprezzato.
Ed infatti, questa Corte, con orientamento ormai consolidato, ha affermato che in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di società di capitali a ristretta base partecipativa, è
legittima la presunzione di attribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati, rimanendo salva la facoltà per il contribuente di offrire la prova del fatto che i maggiori ricavi non siano stati fatti oggetto di distribuzione, ma siano stati invece accantonati dalla società, ovvero da essa reinvestiti, non essendo tuttavia a tal fine sufficiente la mera deduzione che l’esercizio sociale ufficiale si sia concluso con perdite contabili (cfr. Cass. V n. 5076/2011; n. 17928/2012; n. 27778/2017; n. 30069/2018; 27049/2019, nonché Cass. VI – 5 n. 24820/2021). In particolare, si è precisato, che la presunzione di distribuzione ai soci degli utili non contabilizzati non viola il divieto di presunzione di secondo grado poiché il fatto noto non è costituito dalla sussistenza dei maggiori redditi induttivamente accertati, ma dalla ristrettezza della base sociale e dal vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci che, in tal caso, normalmente caratterizza la gestione sociale (Cass. 22 aprile 2009, n. 9519).
Altresì, questa Suprema Corte ha numerose volte ritenuto ammissibile la presunzione di distribuzione ai soci degli utili non contabilizzati, ma ha chiarito che, perché tale presunzione possa operare, occorre pur sempre che la “ristrettissima base sociale o familiare”, cioè il “fatto noto” alla base della presunzione, abbia costituito oggetto di uno specifico accertamento probatorio: ed invero solo una volta che sia stato stabilito che la titolarità delle azioni e l’organizzazione aziendale sono concentrate in una stretta cerchia personale o familiare, il giudice di merito non può escludere la distribuzione ai soci di utili non contabilizzati, limitandosi a prender atto della inapplicabilità dell’art. 5, d.P.R. n. 917/1986 (cfr. Cass. V, n. 2390/2000, n. 3254/2000; così Cass. VI – 5, n. 14176/2015). Non è peraltro necessario che l’accertamento nei confronti della società di capitali a ristretta base sociale sia divenuto definitivo, essendo sufficiente che sussista -al momento della presunzione di distruzione- un valido accertamento in capo alla società (cfr. Cass. V, n. 15334/2013).
Pertanto, il sesto motivo non può essere accolto.
Con l’ultimo motivo si prospetta censura ex art. 360 n. 5 del codice di procedura civile per mancato esame dell’intera linea difensiva a giustificazione della movimentazione bancaria contestata.
Il motivo è inammissibile.
Non ricorre vizio di omessa pronuncia su punto decisivo qualora la soluzione negativa di una richiesta di parte sia implicita nella costruzione logico-giuridica della sentenza, incompatibile con la detta domanda (v. Cass., 18/5/1973, n. 1433; Cass., 28/6/1969, n.2355). Quando, cioè, la decisione adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte comporti necessariamente il rigetto di quest’ultima, anche se manchi una specifica argomentazione in proposito (v. Cass., 21/10/1972, n. 3190; Cass., 17/3/1971, n. 748; Cass., 23/6/1967, n.1537). Secondo risalente insegnamento di questa Corte, al giudice di merito non può invero imputarsi di avere omesso l’esplicita confutazione delle tesi non accolte o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio non ritenuti significativi, giacché né l’una né l’altra gli sono richieste, mentre soddisfa l’esigenza di adeguata motivazione che il raggiunto convincimento come nella specie risulti da un esame logico e coerente, non già di tutte le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, bensì solo di quelle ritenute di per sé sole idonee e sufficienti a giustificarlo. In altri termini, non si richiede al giudice del merito di dar conto dell’esito dell’avvenuto esame di tutte le prove prodotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettategli, ma di fornire una motivazione logica ed adeguata dell’adottata decisione, evidenziando le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragarla, ovvero la carenza di esse (cfr. Cass. V, n. 5583/2011).
Non ricorre il vizio di mancata pronuncia su una eccezione di merito sollevata in appello qualora essa, anche se non espressamente esaminata, risulti incompatibile con la statuizione di accoglimento della pretesa dell’attore, deponendo per l’implicita pronunzia di rigetto dell’eccezione medesima, sicché il relativo mancato esame può farsi valere non già quale omessa pronunzia, e,
dunque, violazione di una norma sul procedimento (art. 112 c.p.c.), bensì come violazione di legge e difetto di motivazione, in modo da portare il controllo di legittimità sulla conformità a legge della decisione implicita e sulla decisività del punto non preso in considerazione (Cass. III, n. 24953/2020).
Per completezza argomentativa, quanto alla denuncia di vizio di motivazione, poiché è qui in esame un provvedimento pubblicato dopo il giorno 11 settembre 2012, resta applicabile ratione temporis il nuovo testo dell’art. 360, comma primo, n. 5) cod. proc. civ. la cui riformulazione, disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, secondo le Sezioni Unite deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. Sez.Un. 7 aprile 2014 n. 8053).
Sotto altro profilo è stato ribadito essere inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (cfr. Cass. S.U. n. 34476/2019).
In definitiva il ricorso è infondato e dev’essere rigettato.
Le spese seguono la regola della soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte accoglie i motivi primo e secondo, dichiara inammissibile il settimo, rigetta i restanti; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia, perché, in diversa composizione e nel rispetto dei principi esposti, proceda a nuovo giudizio in relazione alle censure accolte, provvedendo anche a regolare le spese del giudizio di legittimità tra le parti.
Così deciso in Roma, il 19/02/2025.