Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 31381 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 5 Num. 31381 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 06/12/2024
Avv. Acc. IRPEF 2008
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 12606/2016 R.G. proposto da:
COGNOME rappresentata e difesa dall’Avvocato NOME COGNOME ed elettivamente domiciliato presso lo studio di quest’ultimo in Roma, INDIRIZZO
-ricorrente –
Contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Direttore pro tempore , con sede in Roma, INDIRIZZO C/D, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, con domicilio legale in Roma, INDIRIZZO presso l’Avvocatura generale dello Stato.
-controricorrente –
Avverso la sentenza della COMM.TRIB.REG. LOMBARDIA -SEZIONE DISTACCATA DI BRESCIA n. 1654/2016, depositata in data 21 marzo 2016.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 15 novembre 2024 dal Consigliere dott.ssa NOME COGNOME
Rilevato che:
In data 15 ottobre 2014 l’Agenzia delle Entrate -direzione provinciale di Brescia, Ufficio Controlli – notificava a NOME COGNOME
l’avviso di accertamento ai fini IRPEF n. T9H01C203028 per l’anno d’imposta 2008; questa imposizione tributaria è stata motivata a fronte di un reddito dichiarato pari a € 0,00 non corrispondente al reddito determinato sinteticamente, ai sensi dell’art. 38, comma quarto, quinto e sesto, del d.P.R. 29 settembre 1973, pari a € 119,656,00; in particolare si desumeva il maggior reddito da beni indice di capacità contributiva quale la titolarità di due immobili, la disponibilità di un terzo immobile, la proprietà di un auto caravan.
Avverso l’avviso di accertamento la contribuente proponeva ricorso dinanzi alla C.t.p. di Brescia; si costituiva in giudizio anche l’Ufficio, chiedendo la conferma del proprio operato.
La C.t.p., con sentenza n. 527/06/2015, rigettava il ricorso della contribuente.
Contro tale decisione proponeva appello la contribuente dinanzi la C.t.r. del Lombardia; si costituiva in giudizio anche l’Agenzia delle Entrate, chiedendo la conferma di quanto statuito in primo grado.
Con sentenza n. 1654/67/2016, depositata in data 21 marzo 2016, la C.t.r. adita rigettava il gravame della contribuente.
Avverso la sentenza della C.t.r. della Lombardia, la contribuente ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi mentre l’Agenzia delle Entrate ha resistito con controricorso.
La causa è stata trattata nella camera di consiglio del 15 novembre 2024.
Considerato che:
Con il primo motivo di ricorso, così rubricato: « Error in procedendo de jure ex art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.» la contribuente lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio nella parte in cui, nella sentenza impugnata , la C.t.r. ha omesso di valutare la specifica censura dedotta in sede di appello ed afferente all’omesso svolgimento di contraddittorio preventivo all’emissione dell’avviso di accertamento.
1.2. Con il secondo motivo di ricorso, così rubricato: « Error in iudicando ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. per violazione e falsa applicazione dell’art. 38, quarto, quinto, sesto e settimo comma, d.P.R. n. 600/1973» la contribuente lamenta l’ error in iudicando nella parte in cui, nella sentenza impugnata, la C.t.r. ha ritenuto il redditometro avente natura di presunzione legale, anziché quella di presunzione semplice che richiede ulteriori elementi a suo supporto.
1.3. Con il terzo motivo di ricorso, così rubricato: « Error in iudicando ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. per violazione e falsa applicazione di norme di diritto rappresentate dai criteri e parametri legali di presunzione di reddito stabiliti nei DD.MM. 10 settembre 1992 e 19 novembre 1992» la contribuente lamenta l’ error in iudicando nella parte in cui, nella sentenza impugnata, la C.t.r. non ha accolto la prova contraria consistente nel possesso di un reddito inferiore da quello risultante dalla mera applicazione degli indici ministeriali.
1.4. Con il quarto motivo di ricorso, così rubricato: «Vizio per omesso esame ed assoluta carenza di motivazione su un fatto decisivo per il giudizio, concretantesi nella richiesta della contribuente della revisione dell’accertamento sintetico con l’operazione del D.L. 31 maggio 2010, n. 78» la contribuente lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio nella parte in cui, nella sentenza impugnata, la C.t.r. ha omesso di valutare la domanda di fare applicazione nel caso di specie delle nuove più favorevoli disposizioni normative del c.d. nuovo redditometro.
Il primo motivo di ricorso proposto è inammissibile, oltre che infondato; con esso, in particolare, parte ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha omesso di esaminare la domanda proposta in appello circa l’obbligatorietà del contraddittorio preventivo.
2.1. Invero, la censura proposta risulta inammissibile in quanto, secondo quella che è giurisprudenza consolidata di questa Corte, si ritiene che l’omessa pronuncia su alcuni dei motivi di appello – così come l’omessa pronuncia su domanda, eccezione o istanza ritualmente introdotta in giudizio – risolvendosi nella violazione della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, integri un difetto di attività del giudice di secondo grado, che deve essere fatto valere dal ricorrente non con la denuncia della violazione di una norma di diritto sostanziale ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., o del vizio di motivazione ex art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., in quanto siffatte censure presuppongono che il Giudice del merito abbia preso in esame la questione oggetto di doglianza e l’abbia risolta in modo giuridicamente non corretto ovvero senza giustificare (o non giustificando adeguatamente) la decisione al riguardo resa, ma attraverso la specifica deduzione del relativo ” error in procedendo ” – ovverosia della violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ. – la quale soltanto consente alla parte di chiedere e al Giudice di legittimità – in tal caso giudice anche del fatto processuale – di effettuare l’esame, altrimenti precluso, degli atti del giudizio di merito e, così, anche dell’atto di appello ( ex plurimis , Cass. n. 29952/2022).
2.2. In ogni caso, deve anche rilevarsi l’infondatezza del presente motivo: non sussiste, infatti, con riguardo alla specifica questione con esso domandata, la decisività del fatto non valutato, capace di provocare una decisione di senso contrario a quella effettivamente presa dalla C.t.r.
2.3. La giurisprudenza consolidata di questa Corte ha statuito che non esiste nel nostro ordinamento un generale obbligo di contraddittorio endoprocedimentale. Difatti: «Allo stato attuale della legislazione non sussiste, nell’ordinamento tributario nazionale, una clausola generale di contraddittorio endo-
procedimentale (…) un argomento asseverante a contrario risiede proprio nel dato normativo dell’art. 22, comma primo, d.l. n. 78/2010, convertito nella legge n. 122 del 2010 che ha introdotto l’obbligo del contraddittorio endo-procedimentale in tema di accertamento sintetico “con effetto per gli accertamenti relativi ai redditi per i quali il termine di dichiarazione non è ancora scaduto alla data di entrata in vigore del presente decreto”» (Cass. n. 3885/2016).
Più in particolare, le Sezioni Unite di questa Corte, con sentenza n. 24823/2015, hanno affermato il seguente principio di diritto: «Differentemente dal diritto dell’Unione europea, il diritto nazionale, allo stato della legislazione, non pone in capo all’Amministrazione fiscale che si accinga ad adottare un provvedimento lesivo dei diritti del contribuente, in assenza di specifica prescrizione, un generalizzato obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, comportante, in caso di violazione, l’invalidità dell’atto. Ne consegue che, in tema di tributi “non armonizzati”, l’obbligo dell’Amministrazione di attivare il contraddittorio endoprocedimentale, pena l’invalidità dell’atto, sussiste esclusivamente in relazione alle ipotesi, per le quali siffatto obbligo risulti specificamente sancito; mentre in tema di tributi “armonizzati”, avendo luogo la diretta applicazione del diritto dell’Unione, la violazione dell’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell’Amministrazione comporta in ogni caso, anche in campo tributario, l’invalidità dell’atto, purché, in giudizio, il contribuente assolva l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l’opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio), si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello
strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto». Tale pronuncia, in motivazione, prende espressamente in considerazione sia i precedenti arresti della giurisprudenza di legittimità in materia, al § II, punti 1-4; sia, al § V, punti II 1.- II 4 ed al § VI, l’ordinamento comunitario, con particolare riferimento anche a Corte giustizia, 18/12/08, in causa C-349/07, Sopropé, e Corte giust. 03/07/2014, in cause C-129/13 e C-130/13, RAGIONE_SOCIALE menzionate nel ricorso e nella memoria; sia, al § 6, le divergenze tra disciplina europea e disciplina nazionale in tema di contraddittorio endoprocedimentale in materia tributaria, anche con riferimento, al punto 2, alle disposizioni della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Conformi, ex multis, Cass. 14/03/2018, n. 6219; Cass. 11/05/2018, n. 11560; Cass. 29/10/2018, nn. 27420 e 27421; Cass. 31/05/2016, n.11283; Cass. 25/01/2017, n. 1969; Cass. 14/03/2018, n. 6219; Cass. 27/07/2018, n. 20036; Cass.29/10/2018, n. 27421; Cass. 8/10/2020, n. 21695; Cass. 23/02/2021, n. 4752; Cass. 6/05/2021, n. 11913; Cass. 30/06/2021, n. 18413; Cass. 19/0/2021, n. 20436; Cass., sez. 5, 15/07/2021, n. 20157; Cass. 19/11/2021, n. 35643).
2.4. Pertanto, nel caso di specie, non vedendo gli atti impositivi in materia di tributi armonizzati, l’obbligatorietà del contraddittorio non sussisteva, in difetto di una specifica previsione in tal senso nell’ordinamento nazionale, non rinvenibile nell’art. 12, comma 7, legge n. 212 del 2000, non applicabile nei casi di accertamento c.d. a tavolino (Cass. Sez. U, Sentenza n. 24823 del 09/12/2015, cit.; conformi, ex multis, Cass. 23/01/2020, n. 1497; Cass. 05/11/2020, n. 24793; Cass. 14/03/2018, n. 6219; Cass. 10/07/2018, n. 18103; Cass. 30/10/2018, n. 27732).
2.5. La richiamata pronuncia delle Sezioni Unite n. 24823 del 2015 ha, in particolare, chiarito che «differentemente dal diritto
dell’Unione europea, il diritto nazionale, allo stato della legislazione, non pone in capo all’Amministrazione fiscale che si accinga ad adottare un provvedimento lesivo dei diritti del contribuente, in assenza dì specifica prescrizione, un generalizzato obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, comportante, in caso di violazione, l’invalidità dell’atto. Ne consegue che, in tema di tributi “non armonizzati”, l’obbligo dell’Amministrazione di attivare il contraddittorio endoprocedimentale, pena l’invalidità dell’atto, sussiste esclusivamente in relazione alle ipotesi, per le quali siffatto obbligo risulti specificamente sancito; mentre in tema di tributi “armonizzati”, avendo luogo la diretta applicazione del diritto dell’Unione, la violazione dell’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell’Amministrazione comporta in ogni caso, anche in campo tributario, l’invalidità dell’atto, purché, in giudizio, il contribuente assolva l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l’opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio) si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto».
2.6. Inoltre, come evidenziato dallo stesso arresto giurisprudenziale (Cass. Sez. U, 09/12/2015, n. 24823, cit.), il testo dell’art. 12, comma 7, legge n. 212 del 2000, univocamente fondante la limitazione della garanzia del contradditorio procedimentale alle sole «verifiche in loco», è da ritenere «non irragionevole», in quanto giustificato dalla peculiarità stessa di tali verifiche, «caratterizzate dall’autoritativa intromissione dell’Amministrazione nei luoghi di pertinenza del contribuente alla diretta ricerca di elementi valutativi a lui sfavorevoli; peculiarità
che giustifica, quale controbilanciamento, il contraddittorio al fine di correggere, adeguare e chiarire, nell’interesse del contribuente e della stessa Amministrazione, gli elementi acquisiti presso i locali aziendali». Siffatta peculiarità, differenziando le due ipotesi di verifica («in loco» e «a tavolino»), giustifica e rende non irragionevole il differente trattamento normativo delle stesse, con conseguente manifesta infondatezza dell’ipotetica incostituzionalità della norma con riferimento agli artt. 3 e 97 Cost. (Cass. 14/04/2021, n. 9720; Cass. Cass. 19/07/2021, n. 20436, cit., in motivazione).
2.7. Anche con riferimento all’art. 3 della Cost. deve escludersi un ipotetico profilo di illegittimità costituzionale, per la duplicità di trattamento giuridico tra – «tributi armonizzati» e «tributi non armonizzati», «atteso che, come viene evidenziato dalla richiamata sentenza delle Sezioni Unite n. 24823 del 2015, l’assimilazione tra i due trattamenti è preclusa in presenza di un quadro normativo univocamente interpretabile nel senso dell’inesistenza, in campo tributario, di una clausola generale di contradditorio procedimentale.» (Cass. 19/07/2021, n. 20436, cit., in motivazione). Inoltre, poiché il sistema di tassazione diretta, nel suo complesso, non ha alcun rapporto con quello dell’Iva, «non può ritenersi che una soluzione in tema di contraddittorio endoprocedimentale in materia di IVA, diversa da quella espressa per i tributi diretti, crei un vulnus al principio di non discriminazione sul versante comunitario, né a quello della ragionevolezza sul piano interno (cfr. Corte di Giustizia, 17 marzo 2007, causa C-35/05; Cass., sez. 5, 27/09/2013, n. 22132; Cass., sez. 5, 14/04/2021, n. 9720)» (Cass. 19/07/2021, n. 20436, cit., in motivazione).
2.8. Non si ravvisano, dunque, ragioni per discostarsi dai principi enunciati dalla menzionata decisione delle Sezioni unite n. 24823 del 2015, e dall’univoco e consolidato orientamento di legittimità che ad essa è seguito, e vanno quindi disattesi i dubbi in ordine alla
legittimità dell’art. 12, comma 7, legge n. 212 del 2000, risultando il descritto assetto coerente sia con i principi costituzionali che con la normativa comunitaria.
2.9. Non ha, pertanto, errato la CTR nell’escludere che sussistesse, nel caso di specie, l’obbligo del contradittorio preventivo.
Il secondo motivo di ricorso è infondato.
3.1. Lo strumento del «redditometro» collega alla disponibilità di determinati beni e servizi in capo al contribuente, un certo importo, che, moltiplicato per un coefficiente, consente di individuare il valore del reddito del soggetto secondo criteri statistici e presuntivi, elaborati anche tenendo conto dei costi di mantenimento del bene o servizio in questione.
L’art. 38 del d.P.R. n. 600 del 1973, nel disciplinare il metodo di accertamento sintetico del reddito, nel testo vigente ratione temporis (cioè tra la L. 30 dicembre 1991, n. 413 e il D.L. n. 78/2010, convertito dalla L. 30 luglio 2010, n. 122), prevede, da un lato (quarto comma), la possibilità di presumere il reddito complessivo netto sulla base della valenza induttiva di una serie di elementi e circostanze di fatto certi, costituenti indici di capacità contributiva, connessi alla disponibilità di determinati beni o servizi ed alle spese necessarie per il loro utilizzo e mantenimento (in sostanza, un accertamento basato sui presunti consumi); dall’altro (quinto comma), contempla le «spese per incrementi patrimoniali», cioè quelle sostenute per l’acquisto di beni destinati ad incrementare durevolmente il patrimonio del contribuente. Ai sensi del sesto comma dell’art. 38 citato, resta salva la prova contraria, da parte del contribuente, consistente nella dimostrazione documentale della sussistenza e del possesso di redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, o, più in generale, nella prova che il reddito presunto non esiste o esiste in misura inferiore.
3.2. Costante orientamento di questa Corte afferma che la disciplina del redditometro introduce una presunzione legale relativa, imponendo la legge stessa di ritenere conseguente al fatto (certo) della disponibilità di alcuni beni l’esistenza di una capacità contributiva, sicché il giudice tributario, una volta accertata l’effettività fattuale degli specifici elementi indicatori dì capacità contributiva esposti dall’Ufficio, non ha il potere di privarli del valore presuntivo connesso dal legislatore alla loro disponibilità, ma può soltanto valutare la prova che il contribuente offra in ordine alla provenienza non reddituale (e, quindi, non imponibile perché già sottoposta ad imposta o perché esente) delle somme necessarie per mantenere il possesso di tali beni (Cass. n. 1980/2020, Cass. n. 10266/2019, Cass. n. 5544/2019, Cass. n. 8933/2018, Cass. n. 8539/2017, Cass. n. 17487/2016, Cass. n. 930/2016 e Cass. n. 21335/2015). Rimane al contribuente l’onere di provare (oltre, eventualmente, l’insussistenza del presupposto, cioè la presenza dell’elemento indice di capacità contributiva), attraverso idonea documentazione, che il maggior reddito, determinato o determinabile sinteticamente, è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenute alla fonte a titolo di imposta o, ancora, più in generale, secondo una ormai consolidata opinione di questa Corte, anche che il reddito presunto non esiste o esiste in misura inferiore (Cass. n. 21142/2016, Cass. n. 18604/2012 e Cass. n. 20588/2005).
3.3. Questa Corte ha chiarito, altresì, i confini della prova contraria che il contribuente può offrire, in ordine alla presenza di redditi non imponibili, per opporsi alla ricostruzione presuntiva del reddito operata dall’amministrazione finanziaria, precisando che non è sufficiente dimostrare la mera disponibilità di ulteriori redditi o il semplice transito della disponibilità economica, in quanto, pur non essendo esplicitamente richiesta la prova che detti ulteriori redditi sono stati utilizzati per coprire le spese contestate, si ritiene che il
contribuente «sia onerato della prova in merito a circostanze sintomatiche del fatto che ciò sia accaduto o sia potuto accadere»; è la norma stessa infatti a chiedere qualcosa di più della mera prova della disponibilità di ulteriori redditi (esenti ovvero soggetti a ritenute alla fonte), in quanto, pur non prevedendo esplicitamente la prova che detti ulteriori redditi sono stati utilizzati per coprire le spese contestate, chiede tuttavia espressamente una prova documentale su circostanze sintomatiche del fatto che ciò sia accaduto (o sia potuto accadere), in tal senso dovendosi leggere lo specifico riferimento alla prova (risultante da idonea documentazione) dell’entità di tali eventuali ulteriori redditi e della durata del relativo possesso, previsione che ha l’indubbia finalità di ancorare a fatti oggettivi (di tipo quantitativo e temporale) la disponibilità di detti redditi per consentire la riferibilità della maggiore capacità contributiva accertata con metodo sintetico in capo al contribuente proprio a tali ulteriori redditi. Né la prova documentale richiesta dalla norma in esame risulta particolarmente onerosa, potendo essere fornita, ad esempio, con l’esibizione degli estratti dei conti correnti bancari facenti capo al contribuente, idonei a dimostrare la durata del possesso dei redditi in esame (Cass. n. 37985/2022, Cass. n. 19082/2022, Cass. n. 12600/2022, Cass. n. 12889/2018, Cass. n. 12207/2017, Cass. n. 1332/2016 e Cass. n. 8995/2014).
3.4. Ebbene, alla stregua di questi principi, non possono evidentemente accogliersi le conclusioni di parte ricorrente circa la natura di presunzione semplice dello strumento del redditometro, così come quelle volte ad assegnare un diverso valore alle spese attenzionate rispetto a quello assegnato dai decreti ministeriali, dovendosi invece sottolineare la correttezza della decisione del C.t.r. sul punto.
Il terzo motivo di ricorso è inammissibile, oltre che infondato; con esso, in particolare, la ricorrente lamenta l’ error in iudicando
nella parte in cui, nella sentenza impugnata, la C.t.r. non ha accolto la prova contraria consistente nel possesso di un reddito inferiore da quello risultante dalla mera applicazione degli indici ministeriali.
Valgono per questa doglianza le considerazioni illustrate nel corso della disamina dell’infondatezza del secondo motivo e del primo quanto al contraddittorio endoprocedimentale.
Il quarto motivo è inammissibile oltre che infondato.
5 .1. Con riguardo all’inammissibilità, in particolare, non possono che richiamarsi le considerazioni svolte, nel corso dell’esame del primo motivo, sul corretto utilizzo del mezzo di impugnazione ex art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.
5.2. Inoltre, la presente censura deve anche ritenersi infondata; l’applicabilità nella fattispecie in oggetto della disciplina del nuovo redditometro, tra cui la suddetta regola di imputazione delle spese, è esclusa dallo stesso legislatore.
In conformità a quanto già chiarito nella giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 7269/2022), al caso di specie, riguardante l’anno d’imposta 2008, si applica, ratione temporis , l’art. 38 d.P.R. n. 600 del 1973 nella versione antecedente le modifiche introdotte dall’art. 22 D.L. n. 78/2010, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, poiché tale novella si applica solo a far data dall’anno d’imposta 2009. Infatti, il primo comma del predetto art. 22 D.L. n. 78 del 2010 espressamente prevede che le modifiche che esso reca al testo dell’art. 38 d.P.R. n. 600 del 1973 abbiano «effetto per gli accertamenti relativi ai redditi per i quali il termine di dichiarazione non è ancora scaduto alla data di entrata in vigore del presente decreto», vale a dire per gli accertamenti del reddito relativi ai periodi d’imposta successivi al 2009, tra i quali non sono compresi quelli sub iudice . A sua volta, l’art. 5 d.m. 24 dicembre 2012, conformemente alla citata disposizione di legge, statuisce che le «disposizioni contenute nel presente decreto si rendono
applicabili alla determinazione dei redditi e dei maggiori redditi relativi agli anni d’imposta a decorrere dal 2009».
5.3. Al riguardo questa Corte, nell’escludere l’applicazione retroattiva della novella in questione, ha già avuto modo di chiarire che: a) non sono in questione i principi sulla retroattività, atteso che la giurisprudenza che afferma l’applicabilità degli indici previsti dai decreti ministeriali del 10 settembre e del 19 novembre 1992 ai periodi d’imposta precedenti alla loro adozione (da ultimo, ex plurimis , Cass. n. 556/2019) si fonda piuttosto sulla natura procedimentale delle norme dei decreti, dalla quale soltanto (e non dalla retroattività) consegue la loro applicazione con riferimento al momento dell’accertamento; b) neppure è in questione il principio del favor rei , la cui applicazione è predicabile unicamente rispetto a norme sanzionatorie, non invece in materia di poteri di accertamento o di formazione della prova, rilevanti in materia di redditometro; c) comunque, l’individuazione della norma applicabile è questione di diritto intertemporale e di fronte alla esplicita previsione di diritto transitorio, già richiamata, che inequivocabilmente identifica la norma applicabile, è recessivo anche il principio tempus regit actum , altrimenti applicabile alle norme che dovessero qualificarsi come procedimentali (Cass. n. 21041/2014, Cass. n. 22744/2015, Cass. n. 1772/2016 e Cass. n. 30355/2019).
In conclusione, il ricorso va rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente a rifondere all’Agenzia delle Entrate le spese processuali che si liquidano in € 5.800,00, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis del medesimo art. 13, se dovuto. Così deciso in Roma il 15 novembre 2024.