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Accertamento senza contraddittorio: quando è legittimo?

Un’impresa di pasticceria ha ricevuto un accertamento fiscale per mancata documentazione dei costi. L’Agenzia delle Entrate, anziché disconoscere tutti i costi, ha utilizzato gli studi di settore in modo favorevole al contribuente per quantificare una deduzione presuntiva. Il contribuente ha impugnato l’atto per mancato contraddittorio preventivo. La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, stabilendo che l’accertamento senza contraddittorio è legittimo in questo caso, poiché gli studi di settore non sono stati usati per contestare un’incongruità, ma come strumento ausiliario a vantaggio del contribuente stesso, la cui inerzia probatoria aveva innescato il controllo.

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Pubblicato il 10 ottobre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Accertamento senza contraddittorio: quando il Fisco può procedere?

L’obbligo del contraddittorio preventivo è uno dei pilastri della difesa del contribuente. Tuttavia, la sua applicazione non è assoluta. Con una recente ordinanza, la Corte di Cassazione ha fornito un’importante chiave di lettura sui casi in cui un accertamento senza contraddittorio formale può essere considerato legittimo, specialmente quando l’Amministrazione Finanziaria utilizza gli studi di settore non per penalizzare, ma per aiutare il contribuente. Analizziamo questa decisione per capire i confini tra i poteri del Fisco e i diritti del cittadino.

Il caso: accertamento fiscale a un’impresa di pasticceria

Tutto ha origine da un avviso di accertamento notificato al titolare di un’impresa familiare attiva nella produzione di pasticceria. L’Agenzia delle Entrate contestava, per l’anno d’imposta 2009, un maggior reddito ai fini IRPEF, IRAP e IVA. La rettifica scaturiva dall’impossibilità di verificare la documentazione relativa a significativi costi dichiarati dal contribuente, il quale, nonostante un invito formale tramite questionario, non aveva fornito i giustificativi di spesa richiesti.

Di fronte a questa inerzia probatoria, l’Ufficio, anziché negare interamente la deducibilità dei costi non provati, ha adottato un approccio particolare: ha utilizzato lo studio di settore applicabile all’attività per stimare una quota di costi “congrui” e l’ha riconosciuta al contribuente. Di fatto, l’Amministrazione ha sopperito alla mancanza documentale del contribuente, ma ha comunque accertato un maggior reddito pari alla differenza tra i costi dichiarati e quelli presunti come congrui.

Il contribuente ha impugnato l’atto, ottenendo ragione in primo grado, dove i giudici hanno annullato l’accertamento per violazione del contraddittorio preventivo. La Commissione Tributaria Regionale, tuttavia, ha ribaltato la decisione, ritenendo l’atto legittimo. La questione è così giunta dinanzi alla Corte di Cassazione.

La questione dell’accertamento senza contraddittorio e gli studi di settore

Il fulcro del ricorso del contribuente si basava sull’argomento che, avendo l’Agenzia utilizzato gli studi di settore, sarebbe scattato l’obbligo di un contraddittorio preventivo, come previsto dalla normativa specifica (art. 10, L. 146/1998). Secondo la difesa, l’omissione di questo passaggio procedurale avrebbe reso nullo l’intero accertamento.

Il contribuente sosteneva che l’accertamento fosse, almeno in parte, fondato sulle risultanze parametriche e che, pertanto, non si potesse prescindere da un confronto preliminare. Questa fase sarebbe stata essenziale per permettergli di giustificare eventuali scostamenti e difendere la propria posizione prima della notifica dell’atto impositivo.

La decisione della Cassazione su questo tipo di accertamento

La Suprema Corte ha respinto il ricorso, confermando la validità dell’operato dell’Agenzia delle Entrate. I giudici hanno chiarito un punto fondamentale: la procedura di contraddittorio obbligatoria si applica quando l’accertamento si fonda sulla difformità tra i dati dichiarati e le risultanze degli studi di settore. In altre parole, quando lo studio di settore è lo strumento con cui il Fisco contesta al contribuente un reddito insufficiente.

Nel caso di specie, la situazione era radicalmente diversa. L’accertamento non nasceva da un’incongruità, ma dalla mancata produzione di documentazione giustificativa dei costi. L’Agenzia non ha usato lo studio di settore per accertare maggiori ricavi, ma lo ha impiegato in via ausiliaria e a favore del contribuente per quantificare presuntivamente i costi da ammettere in deduzione, evitando così di disconoscerli totalmente. L’uso dello strumento parametrico non è stato quindi la base della pretesa, ma un correttivo a vantaggio del soggetto accertato.

Altri motivi di ricorso: il termine dilatorio e la motivazione

La Corte ha rigettato anche gli altri motivi di ricorso. In particolare, ha ribadito che il termine dilatorio di 60 giorni previsto dall’art. 12 dello Statuto del Contribuente, che deve intercorrere tra la chiusura delle verifiche e l’emissione dell’avviso, si applica solo in caso di accessi, ispezioni e verifiche fiscali presso la sede del contribuente, e non per gli accertamenti “a tavolino” scaturiti dall’invio di questionari. Per quanto riguarda la presunta carenza di motivazione, la censura è stata ritenuta inammissibile perché non adeguatamente formulata nel ricorso.

Le motivazioni

La Corte di Cassazione fonda la sua decisione su una distinzione giuridica cruciale: la differenza tra un accertamento basato su presunzioni parametriche e un accertamento originato dall’inerzia probatoria del contribuente. Le motivazioni della Corte possono essere così sintetizzate:
1. Origine della pretesa: La pretesa tributaria non deriva da uno scostamento rispetto agli studi di settore, ma dalla violazione dell’onere del contribuente di provare i costi portati in deduzione. L’accertamento si fonda sull’articolo 39 del DPR 600/73 (accertamento analitico-induttivo) a causa della mancata esibizione dei documenti richiesti.
2. Uso favorevole dello studio di settore: L’Amministrazione ha utilizzato lo studio di settore non per determinare il reddito, ma per “sopperire” all’inerzia del contribuente, riconoscendogli una quota di costi in via forfettaria. Questo uso, definito “in negativo” (per riconoscere un decremento di reddito) e non “in positivo” (per determinare il reddito), non fa scattare gli obblighi procedurali specifici legati agli accertamenti da studi di settore.
3. Contraddittorio per i tributi armonizzati (IVA): Per l’IVA, pur vigendo un principio generale di contraddittorio di matrice europea, la Corte ha ritenuto che tale garanzia sia stata soddisfatta. L’invio di un questionario, che offre al contribuente la possibilità di fornire documenti e chiarimenti, costituisce una forma idonea di interlocuzione preventiva. Il principio di libertà delle forme consente infatti che il contraddittorio si realizzi con strumenti diversi dal classico invito formale al confronto.

Le conclusioni

L’ordinanza della Cassazione offre importanti implicazioni pratiche. In primo luogo, un accertamento senza contraddittorio formale non è automaticamente nullo. La sua legittimità dipende dalla natura e dal fondamento della pretesa fiscale. Se l’accertamento nasce dalla mancata risposta del contribuente a richieste documentali, l’Ufficio può procedere anche senza un ulteriore confronto.

In secondo luogo, viene valorizzato il comportamento del Fisco che, pur in presenza di una grave mancanza del contribuente, agisce in modo da non penalizzarlo eccessivamente, riconoscendo costi presunti. Questo approccio, sebbene discrezionale, viene considerato legittimo e non innesca ulteriori oneri procedurali.

Infine, la sentenza ribadisce un principio fondamentale: il primo e più importante onere di difesa per il contribuente è rispondere puntualmente e in modo completo alle richieste dell’Amministrazione Finanziaria. L’inerzia probatoria non solo legittima l’azione accertatrice del Fisco, ma indebolisce notevolmente le successive possibilità di difesa.

È sempre necessario il contraddittorio preventivo per un accertamento fiscale?
No. Secondo la sentenza, non è necessario quando l’accertamento non si fonda su presunzioni, come quelle derivanti dagli studi di settore, ma sulla mancata produzione di documenti da parte del contribuente. Per i tributi armonizzati come l’IVA, l’invio di un questionario che permette di fornire documenti e chiarimenti può essere considerato una forma sufficiente di contraddittorio.

L’uso degli studi di settore da parte dell’Agenzia delle Entrate obbliga sempre al contraddittorio?
No. L’obbligo specifico di contraddittorio scatta quando l’accertamento si basa sulla difformità tra il dichiarato e le risultanze degli studi. Se, come nel caso esaminato, lo studio di settore è usato solo come strumento ausiliario e a favore del contribuente per riconoscere dei costi non documentati, tale obbligo non sussiste.

Il termine di 60 giorni prima di emettere un avviso di accertamento si applica sempre?
No. La Corte ha confermato che il termine dilatorio di 60 giorni previsto dall’art. 12 dello Statuto del Contribuente si applica solo agli accertamenti che seguono accessi, ispezioni e verifiche fisiche presso la sede del contribuente, non agli accertamenti cosiddetti “a tavolino” avviati tramite questionari.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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