Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 21058 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 21058 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 24/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 21583/2016 R.G. proposto da :
COGNOME NOME , elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE;
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE , domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO) che la rappresenta e difende;
-controricorrente-
avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG.SEZ.DIST. BRESCIA n. 1626/2016 depositata il 21/03/2016.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 09/07/2025 dal Presidente NOME COGNOME
RILEVATO CHE
Con avviso di accertamento per Iva, Irpef e Irap relativo all’anno di imposta 1997 si contestava a COGNOME NOME di aver percepito un reddito di impresa non dichiarato, desunto dalla contabilità in nero rinvenuta presso le società RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE In
particolare, in un ‘brogliaccio’ il COGNOME, che avrebbe aperto partita IVA solo nel 2000 per lo svolgimento di attività d’impresa nel settore edile, era indicato sotto la voce ‘squadra’ quale beneficiario di ingenti pagamenti tra il 1997 e il 1999.
L’avviso, impugnato dal contribuente, veniva annullato dalla Commissione Tributaria Provinciale (CTP) di Brescia. Con sentenza n. 33/65/09, la Commissione Tributaria Regionale (CTR) della Lombardia, a sua volta, rigettava l’appello dell’Ufficio che proponeva ricorso per cassazione, accolto da questa Corte con sentenza n. 17634/2014 limitatamente al quarto motivo.
Riassunto il giudizio dal contribuente, la CTR con la sentenza in epigrafe accoglieva parzialmente il ricorso confermando il reddito accertato dall’Agenzia quale reddito da lavoro dipendente.
Ha proposto ricorso per cassazione il COGNOME che si è affidato a tre motivi e ha depositato memoria.
Ha resistito con controricorso l’Agenzia delle entrate.
CONSIDERATO CHE
Con il primo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 comma 1 n.3 c.p.c., violazione falsa applicazione dell’art. 39 comma 1 lett. d) del d.P.R. n. 600/1973 e dell’art. 54 del d.P.R. n. 633/1972 nonché dell’art. 49 del d.P.R. n. 917/1986, degli artt. 377 e 2739 c.c. per aver la CTR ritenuto la sussistenza di presunzioni, gravi, precise e concordanti che giustificavano l’accertamento erariale. In particolare, si contesta la sentenza impugnata per aver ritenuto che l’unico elemento indiziario, il cd. ‘brogliaccio’ rinvenuto, fosse elemento sufficiente trattandosi di un dato « impreciso », a differenza degli elementi forniti dal contribuente il quale aveva dimostrato che nessuna di quelle somme era stata da lui percepita, avendo prodotto gli assegni che non erano intestati al contribuente, tranne uno intestato ad un omonimo ‘NOME COGNOME‘; inoltre, era
totalmente mancate la prova di un rapporto di dipendenza del COGNOME e, ancora, la precedente sentenza della CTR, la n. 33/65/09, sul punto non impugnata, aveva accertato che soltanto un assegno era intestato al COGNOME mentre gli altri erano stati incassati da soggetti terzi a lui non riferibili.
Con il secondo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c., « nullità della sentenza e del procedimento » per violazione dell’art. 36 del d.lgs. n. 546/1992 nonché per « violazione del giudicato interno », per aver la CTR completamente omesso di motivare le ragioni del proprio convincimento circa il quantum della pretesa impositiva perché la Corte, con la sentenza n. 17634/14, aveva demandato al Giudice del rinvio non solo di accertare la natura del reddito ma anche la sua entità, ponendosi in contrasto con quanto accertato dalla precedente CTR e affermato dalla stessa sentenza della Corte secondo cui « le risultanze del brogliaccio non avevano trovato conferma negli accertamenti bancari eseguiti, in quanto per il 1997 un solo assegno risultava riferibile al COGNOME, mentre gli altri titoli risultavano intestati e/o incassati da soggetti a lui non riconducibili ».
Con il terzo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c., omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti riguardo a quanto emerso in ordine agli assegni, che non erano intestati al COGNOME né furono incassati da questi o da persona da lui delegata o legata allo stesso da un rapporto di parentela.
I primi due motivi possono essere esaminati congiuntamente, in quanto strettamente connessi.
Va premesso che è principio consolidato di questa Corte che la riassunzione della causa innanzi al giudice di rinvio instaura un processo chiuso, nel quale è preclusa alle parti, tra l’altro, ogni possibilità di proporre nuove domande, eccezioni, nonché
conclusioni diverse, salvo che queste, intese nell’ampio senso di qualsiasi attività assertiva o probatoria, siano rese necessarie da statuizioni della sentenza della Cassazione (Cass., n. 29879 del 2023; Cass., n. 448 del 2020), e che la riassunzione della causa davanti al giudice di rinvio si configura, dunque, non già come atto di impugnazione, ma come attività d’impulso processuale volta alla prosecuzione del giudizio conclusosi con la sentenza cassata (Cass., 20 n. 37200 del 2022; Cass., n. 25244 del 2013). Inoltre, nel giudizio di rinvio non solo è inibito alle parti di ampliare il thema decidendum , mediante la formulazione di domande ed eccezioni nuove, ma operano anche le preclusioni derivanti dal giudicato implicito formatosi con la sentenza rescindente, onde neppure le questioni rilevabili d’ufficio che non siano state considerate dalla Corte Suprema possono essere dedotte o comunque esaminate, giacché, diversamente, si finirebbe per porre nel nulla o limitare gli effetti della stessa sentenza di cassazione, in contrasto con il principio della sua intangibilità (Cass. n. 24357 del 2023). Parimenti consolidato è il principio secondo cui i limiti dei poteri attribuiti al giudice di rinvio sono diversi a seconda che la pronuncia di annullamento abbia accolto il ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ovvero per vizi di motivazione in ordine a punti decisivi della controversia, ovvero per entrambe le ragioni: nella prima ipotesi, il giudice deve soltanto uniformarsi, ex art. 384, primo comma, c.p.c., al principio di diritto enunciato dalla sentenza di cassazione, senza possibilità di modificare l’accertamento e la valutazione dei fatti acquisiti al processo; mentre, nella seconda, non solo può valutare liberamente i fatti già accertati, ma anche indagare su altri fatti, ai fini di un apprezzamento complessivo in funzione della statuizione da rendere in sostituzione di quella cassata, ferme le preclusioni e decadenze già verificatesi; nella terza, infine, la sua potestas iudicandi , oltre ad estrinsecarsi nell’applicazione del principio di
diritto, può comportare la valutazione ex novo dei fatti già acquisiti, nonché la valutazione di altri fatti, la cui acquisizione, nel rispetto delle preclusioni e decadenze pregresse, sia consentita in base alle direttive impartite dalla decisione di legittimità (Cass., n. 17240 del 2023; Cass., sez. un., n. 8147 del 2023; Cass., n. 448 del 2020; Cass., n. 17790 del 2014). Ancora, nel giudizio di rinvio è precluso qualsiasi esame dei presupposti di applicabilità del principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione, non solo in ordine ai pretesi errores in iudicando commessi dal giudice a quo , relativi al diritto sostanziale, ma anche con riferimento alle violazioni di norme processuali che si assumono poste in essere dal giudice di merito, tutte le volte in cui il principio di diritto sia stato enunciato rispetto a un fatto con valenza processuale (Cass., n. 26305 del 2018; Cass., n. 20474 del 2014; Cass., sez. un., n. 15602 del 2009). La modifica, poi, in tema di giudizio di rinvio, in senso riduttivo dell’originaria impostazione difensiva, tale da renderla incompatibile con la contestazione di fatti o requisiti posti a fondamento della pretesa della controparte, ovvero la mancata riproposizione della contestazione sulla sussistenza di tali requisiti, sollevata nei precedenti gradi del giudizio ed in essi disattesa o dichiarata inammissibile, rende inammissibile l’esame d’ufficio di tali questioni, in quanto ormai espunte dal dibattito processuale (Cass., n. 16450 del 2023).
6. Ciò posto, la sentenza n. 17634/14 di questa Corte ha formulato il seguente giudizio cassatorio: « Col quarto motivo, deducendo error in procedendo, la ricorrente si duole del fatto che i giudici d’appello, ritenendo invalido l’avviso d’accertamento per motivi di carattere sostanziale attinenti alla erroneità della qualificazione della fonte di reddito assunta dall’Agenzia, abbia totalmente annullato l’atto impositivo senza esaminare nel merito la pretesa tributaria riconducendola alla corretta fonte di reddito entro i limiti posti dalle domande delle parti. La censura è fondata nei termini di
cui in prosieguo. Secondo la ormai pacifica giurisprudenza di questo giudice di legittimità il processo tributario non è diretto alla mera eliminazione giuridica dell’atto impugnato, ma ad una pronuncia di merito, sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente che dell’accertamento dell’ufficio, con la conseguenza che il giudice tributario, ove ritenga invalido l’avviso di accertamento per motivi di ordine sostanziale (e non meramente formali), è tenuto ad esaminare nel merito la pretesa tributaria e a ricondurla, mediante una motivata valutazione sostitutiva, alla corretta misura, entro i limiti posti dalle domande di parte (v. tra numerose altre, da ultimo Cass. n. 26157 del 2013). Tanto premesso, occorre considerare che l’annullamento di un avviso di accertamento per motivi sostanziali comprende tutti gli aspetti sostanziali relativi al reddito accertato, ivi compresi la sua natura ovvero la sua entità. Ne consegue che i giudici di appello, avendo ritenuto non sussistente la prova presuntiva del reddito a carico del COGNOME per l’anno in questione siccome accertato nell’atto opposto, avrebbero dovuto in ogni caso verificare se gli elementi indiziari forniti erano (o meno) comunque idonei a fondare la prova presuntiva di un reddito non dichiarato da parte del COGNOME, ancorché, in ipotesi, di natura diversa (ad es. da lavoro dipendente e non di impresa) e/o, eventualmente, di entità diversa da quella indicata nell’avviso opposto .».
7. La CTR ha svolto il suo compito osservando che «.. dalla documentazione allegata a tale PVC, il brogliaccio ritrovato presso RAGIONE_SOCIALE, le scritture riguardanti il Sig.re COGNOME nel periodo maggio dicembre 1997 viene indicato un costo orario di lit. 21.500 (€ 11,10). Inoltre vi sono registrati sul brogliaccio, nr. 43 pagamenti al Sig.re COGNOME i cui importi e la distribuzione temporale rafforzano la nostra convinzione che tali pagamenti della RAGIONE_SOCIALE) non possano essere rappresentative (sic) di un lavoro imprenditoriale, sia perché non si appalta un lavoro a
misura salvo per importi limitati, sia perché non si vede nessuna organizzazione imprenditoriale e rischio di impresa sia la mancanza delle modalità di liquidazione e pagamento di un appalto che viene liquidato periodicamente in base allo stato avanzamento lavori il cui importo accertato in contraddittorio, una parte viene pagata entro i termini di contratto e l’altra a titolo di garanzia al termine del collaudo finale dell’opera, di tutto questo non vi è assolutamente traccia negli atti del processo. Di contro gli importi segnati nel brogliaccio sono determinati in base ad un costo orario fisso nella loro interezza in base alle ore effettuate, senza trattenuta di garanzia. Pertanto il rapporto in base al quale il COGNOME NOME aveva ricevuto le somme accertate è un rapporto di lavoro dipendente. Sicché il reddito accertato con avviso di accertamento NUMERO_DOCUMENTO notificato il 24/12/2004 dall’Agenzia delle Entrate di Brescia viene qualificato come richiesto in via subordinata dal contribuente e dall’Agenzia, reddito di lavoro dipendente ».
Tanto premesso il primo motivo è inammissibile e comunque infondato, il secondo deve essere accolto nei limiti della motivazione che segue.
8.1. Sebbene il ragionamento presuntivo, secondo consolidata giurisprudenza di questa Corte, non possa sottrarsi al controllo in sede di legittimità, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., la critica esula dal concetto di violazione o falsa applicazione quando si concreta in un’attività diretta ad evidenziare soltanto che le circostanze fattuali, in relazione alle quali il ragionamento presuntivo è stato enunciato, avrebbero dovuto essere ricostruite in altro modo ovvero nella mera prospettazione di una inferenza probabilistica semplicemente diversa da quella che si dice applicata dal giudice di merito, senza spiegare e dimostrare perché quella da costui applicata abbia esorbitato dai paradigmi dell’art. 2729, primo comma. In questi casi, infatti, la critica si risolve in realtà in un diverso apprezzamento della ricostruzione della quaestio facti , e, in
definitiva, nella prospettazione di una diversa ricostruzione della stessa quaestio , ponendosi su un terreno che non è quello del n. 3 dell’art. 360 c.p.c. (Cass. sez. un. n. 1785 del 2018).
8.2. Il motivo, pertanto, è inammissibile laddove attraverso il paradigma della violazione di legge si tenta una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito, ciò che è precluso nel giudizio di legittimità (Cass., sez. un., n. 34476 del 2019). Invero, in tema di scrutinio di legittimità del ragionamento sulle prove adottato del giudice di merito, la valutazione del materiale probatorio -in quanto destinata a risolversi nella scelta di uno (o più) tra i possibili contenuti informativi che il singolo mezzo di prova è, per sua natura, in grado di offrire all’osservazione e alla valutazione del giudicante -costituisce espressione della discrezionalità valutativa del giudice di merito ed è estranea ai compiti istituzionali della S.C. (con la conseguenza che, a seguito della riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., non è denunciabile col ricorso per cassazione come vizio della decisione di merito), restando totalmente interdetta alle parti la possibilità di discutere, in sede di legittimità, del modo attraverso il quale, nei gradi di merito, sono state compiute le predette valutazioni discrezionali (Cass. n. 37382 del 2022).
8.3. Oltretutto, non trovano riscontro le affermazioni del ricorrente secondo cui la decisione impugnata sarebbe fondata soltanto sul ‘brogliaccio’, contraddetto dagli accertamenti bancari svolti sugli assegni, e, in ogni caso, mancherebbe la prova del rapporto di subordinazione tra il RAGIONE_SOCIALE e la società: l’accertamento del rapporto, in termini di lavoro subordinato, è stato fondato dal giudice del rinvio su un complesso di elementi documentali (« il brogliaccio ritrovato presso RAGIONE_SOCIALE, le scritture riguardanti il Sig.re COGNOME nel periodo maggio dicembre 1997 viene indicato un costo orario di lit. 21.500..») e di valutazioni secondo l’id quod plerum accidit (« non si appalta un lavoro a misura salvo per
importi limitati, sia perché non si vede nessuna organizzazione imprenditoriale e rischio di impresa sia la mancanza delle modalità di liquidazione e pagamento di un appalto che viene liquidato periodicamente in base allo stato avanzamento lavori il cui importo accertato in contraddittorio, una parte viene pagata entro i termini di contratto e l’altra a titolo di garanzia al termine del collaudo finale dell’opera»), cui si aggiunge l’osservazione che « gli importi segnati nel brogliaccio sono determinati in base ad un costo orario fisso nella loro interezza in base alle ore effettuate, senza trattenuta di garanzia».
8.4. Né l’accertamento del rapporto di lavoro subordinato è precluso dagli esiti delle indagini bancarie sugli assegni emessi dalla società. Va chiarito che, come si desume dalla stessa sentenza n. 17634/14 di questa Corte, in appello l’Ufficio rimarcava che « il contribuente aveva fatto parte per più anni di una squadra di operai retribuita in totale evasione di imposta fino a quando nel 2000 aveva aperto una partita Iva per esercitare l’impresa edile in proprio » e « le parti controvertevano sulla fonte (d’impresa o da lavoro dipendente) del reddito evaso ». Invero, il giudizio della Corte sottintende che fosse emersa comunque l’esistenza di un rapporto tra il RAGIONE_SOCIALE e le società, cosicché, stante la natura di ‘impugnazione/merito’ del giudizio tributario, il giudice era tenuto ad accertarne la reale natura, una volta escluso che il COGNOME agisse come imprenditore, nonché a determinare l’entità dei redditi eventualmente percepiti. Le indagini bancarie, quindi, non inficiano l’accertamento di quel rapporto – addirittura offrono riscontri alle annotazioni del brogliaccio (come chiarito in controricorso, « nel brogliaccio il nome del sig. COGNOME è preceduto da un numero che nelle sue tre cifre finali trova corrispondenza nelle tre cifre finali del numero di matrice degli assegni allegati, la corrispondenza è riscontrabile oltre che per tale fattore anche per la coincidenza
degli importi », pagg. 11 -12) -ma possono rilevare nella quantificazione del reddito percepito dal COGNOME.
8.5. Sotto questo profilo risulta fondato il secondo motivo perché, secondo quanto espressamente statuito dalla Corte nella sentenza n. 17634/14, la CTR doveva anche determinare l’entità del reddito percepito e non dichiarato dal contribuente per il titolo accertato, in relazione all’anno 1997, ma su tale aspetto, nonostante la disputa in causa circa gli importi effettivamente percepiti dal Colferai, la sentenza tace, mostrando una evidente carenza motivazionale, come denunziato dal ricorrente. Non vi è stata, invece, alcuna violazione di un giudicato interno, individuato dal ricorrente nel fatto che, come riportato nella sentenza n. 17634/14, « le risultanze del brogliaccio non avevano trovato conferma negli accertamenti bancari eseguiti, in quanto per il 1997 un solo assegno risultava riferibile al COGNOME, mentre gli altri titoli risultavano intestati e/o incassati da soggetti a lui non riconducibili», perché «il giudicato interno non si determina sul fatto, ma su una statuizione minima della sentenza, costituita dalla sequenza rappresentata da fatto, norma ed effetto, suscettibile di acquisire autonoma efficacia decisoria nell’ambito della controversia» (Cass. n. 32563 del 2024).
Il terzo motivo resta assorbito.
Conclusivamente, accolto il secondo motivo come in motivazione, respinto il primo e assorbito il terzo, la causa deve essere rinviata al giudice del merito.
P.Q.M.
accoglie il secondo motivo di ricorso come in motivazione, rigettato il primo e assorbito il terzo; cassa di conseguenza la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 09/07/2025.