Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 928 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 928 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 14/01/2025
Oggetto:
Società
di
capitali
a
ristretta base
partecipativa
–
Accertamento
parziale –
Accertamento
integrativo
–
Differenze.
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 5313/2017 R.G. proposto da
COGNOME che ha dichiarato di eleggere domicilio in Grumolo Delle Abbadesse (VI), INDIRIZZO presso lo studio dell ‘avv. NOME COGNOME il quale ha indicato recapito PEC, che la rappresenta e difende in virtù di procura speciale allegata alla comparsa di costituzione di nuovo difensore.
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE , in persona del Direttore protempore, rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliata in Roma, alla INDIRIZZO
– controricorrente –
avverso la sentenza della C.t.r. di Venezia-Mestre n. 928/2016, depositata il 14.7.2016 e non notificata.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 3.10.2024 dal Consigliere NOME COGNOME
RITENUTO CHE:
Con separati ricorsi proposti alla Commissione tributaria provinciale di Vicenza, NOME impugnava due avvisi di accertamento con cui l’Agenzia delle entrate , avendo riscontrato, con riferimento agli anni 2006 e 2007, redditi superiori rispetto a quelli dichiarati dalle società RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, di cui la predetta era socia, aveva presunto l’avvenuta distribuzione di utili extrabilancio.
In primo grado, previa riunione dei ricorsi, l’impugnazione veniva accolta, poiché, con riferimento al periodo di imposta 2006, venivano ritenuti insussistenti i presupposti per l’emissione di un accertamento integrativo, in quanto basato su elementi preesistenti e già noti all’Amministrazione finanziaria alla data del primo accertamento e non esplicitati nella motivazione del provvedimento, e, con riferimento ai redditi derivanti dalla presunta distribuzione di utili da parte della MP International RAGIONE_SOCIALE veniva rilevato l’intervenuto annullamento dell’avviso di accertamento emesso nei confronti della società.
Avverso tale decisione proponeva appello l ‘Agenzia delle entrate, limitatamente ai profili dei presupposti legittimanti l’accertamento integrativo e della omessa pronuncia sulla presunta distribuzione di utili extracontabili accertati in capo alla società a ristretta base partecipativa.
I giudici di appello riformavano integralmente la sentenza impugnata, ritenendo che l’accertamento fosse pienamente legittimo, poiché aveva carattere parziale ai sensi dell’art. 41 -bis del d.P.R. n. 600 del 1973 e non carattere integrativo e non necessitava, quindi, dell’indicazione dei nuovi elementi e degli atti o fatti attraverso i quali l’Ufficio ne era venuto a conoscenza; nonché ritenendo sussistenti i presupposti per avvalersi della presunzione di distribuzione degli utili, quali la riscontrata infedeltà ed inattendibilità dei dati di bilancio della società e la ristretta base azionaria.
Avverso tale decisione proponeva ricorso per cassazione COGNOME NOME sulla base di tre motivi, ai quali resisteva con controricorso l’Agenzia delle entrate. Replicava la contribuente depositando una memoria difensiva.
CONSIDERATO CHE:
Con il primo motivo di doglianza, NOME deduce l a violazione dell’art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973, in relazione all’art. 360, n. 3, per travisamento del fatto presupposto e motivazione contraddittoria, avendo la C.t.r. confuso la notifica dell’avviso di accertamento alla società RAGIONE_SOCIALE con la not ifica di quello alla ricorrente medesima per l’anno 2006 e non avendo qualificato quest’ultimo come integrativo, in quanto fondato su fatti già noti all’Amministrazione, in data antecedente all’emanazione dell’avviso notificato il 7.10.2011.
Con il secondo motivo di doglianza, COGNOME NOME deduce l’omessa motivazione su un fatto decisivo del giudizio, oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, n. 5, c.p.c. e la contraddittoria motivazione, avendo la C.t.r. ritenuto applicabile la presunzione di distribuzione degli utili extrabilancio, omettendo di considerare che la contribuente aveva eccepito di non essere amministratore di diritto della società RAGIONE_SOCIALE e di essere estranea alla relativa gestione.
Con il terzo motivo di doglianza, COGNOME NOME deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c., poiché il capo della sentenza che aveva condannato la ricorrente alla refusione delle spese di lite era illegittimo per illegittimità derivata dall’accoglimento degli altri motivi.
Il primo motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.
Giova premettere che le Sezioni Unite di questa Corte hanno precisato che il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360, comma 1,
c.p.c., deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi. Pertanto, nel caso in cui il ricorrente lamenti l’omessa pronuncia, da parte dell’impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande o eccezioni proposte, non è indispensabile che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui all’art. 360, comma 1, n. 4), c.p.c., con riguardo all’art. 112 c.p.c., purché il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorché sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge (Cass. SU n. 17931/2013; Cass. n. 10862/2018; più rigorosa ancora è Cass. n. 11603/2018).
Recentemente è stato, inoltre, affermato che, in tema di ricorso per cassazione, è inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5, c.p.c., non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di legge e dell’omesso esame di fatto decisivo per il giudizio, in quanto una tale formulazione mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse (Cass. n. 3397/2024, Rv. 67012901).
Nel caso di specie, la ricorrente ha dedotto la violazione dell’art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973, con riferimento all’art. 360, n. 3, c.p.c., per poi illustrare un asserito travisamento della data di
notifica dell’avviso di accertamento, lamentando , quindi, la contraddittorietà della motivazione e chiedendo una rivalutazione dei presupposti di fatto alla base dell’accertamento, al fine di verificare se esso avesse natura integrativa o parziale. Dal complesso delle deduzioni, emerge che la censura pone in modo abbastanza chiaro un problema di diritto: se ci si trovi in presenza di un accertamento parziale o integrativo e delle conseguenze che ne discendono. Tale doglianza, riconducibile alla violazione di legge, è ammissibile, mentre gli altri profili risultano inammissibili, in quanto non sufficientemente specifici.
Quanto al profilo della violazione di legge, risulta dagli atti che l’avviso di accertamento oggetto del giudizio è stato emesso successivamente ad un altro emesso in precedenza. Secondo la ricorrente, non si tratterebbe di avviso di accertamento parziale (ex art. 41bis del d.P.R. n. 600 del 1973), ma di accertamento integrativo (ex art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973) e, quindi, sarebbe illegittimo, poiché non vi sarebbero elementi nuovi, non conosciuti dal Fisco al momento del primo accertamento, tali da giustificare il secondo avviso, con conseguente nullità dello stesso.
Orbene, l’art. 41 -bis del d.P.R. n. 600 del 1973 stabilisce che, senza pregiudizio dell’ulteriore azione accertatrice nei termini stabiliti dall’art. 43, i competenti uffici dell’Agenzia delle entrate, qualora dalle attività istruttorie di cui all’art. 32, comma 1, n. da 1) a 4), nonché dalle segnalazioni effettuate dalla Direzione centrale accertamento, da una Direzione regionale ovvero da un ufficio della medesima Agenzia ovvero di altre Agenzie fiscali, dalla Guardia di finanza o da pubbliche amministrazioni ed enti pubblici oppure dai dati in possesso dell’anagrafe tributaria, risultino elementi che consentono di stabilire l’esistenza di un reddito non dichiarato o il maggiore ammontare di un reddito parzialmente dichiarato, che avrebbe dovuto concorrere a formare il reddito imponibile, compresi i redditi da partecipazioni in società, associazioni ed imprese di cui all’art. 5 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con
decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, o l’esistenza di deduzioni, esenzioni ed agevolazioni in tutto o in parte non spettanti, nonché l’esistenza di imposte o di maggiori imposte non versate, escluse le ipotesi di cui agli artt. 36bis e 36ter , possono limitarsi ad accertare, in base agli elementi predetti, il reddito o il maggior reddito imponibili, ovvero la maggiore imposta da versare, anche avvalendosi delle procedure previste dal decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218.
Il successivo art. 43 stabilisce che, fino alla scadenza del termine stabilito nei commi precedenti l’accertamento può essere integrato o modificato in aumento mediante la notificazione di nuovi avvisi, in base alla sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi. Nell’avviso devono essere specificatamente indicati, a pena di nullità, i nuovi elementi e gli atti o fatti attraverso i quali sono venuti a conoscenza dell’ufficio delle imposte.
Entrambi gli istituti, dunque, si caratterizzano per consentire l’emissione di un avviso di accertamento successivo rispetto ad uno precedentemente emesso. Ciò che differenzia, però, l’accertamento parziale, rispetto a quello integrativo, è l’automatism o argomentativo indotto dalla fonte di conoscenza. In altre parole, l’accertamento parziale presuppone una sorta di evidenza della prova in ordine all’esistenza di un reddito non dichiarato o del maggiore ammontare di un reddito parzialmente dichiarato, conseguente a dati provenienti da fonti privilegiate.
A tal riguardo, la Suprema Corte ha affermato che l’accertamento parziale di cui all’art. 41bis , comma 1, del d.P.R. n. 600 del 1973 può essere integrato da un successivo accertamento, senza che sia necessario che vengano indicati gli elementi sopraggiunti, come prescritto per l’accertamento integrativo dall’art. 43 del medesimo d.P.R., che risponde a diverse finalità, sebbene il successivo atto non possa fondarsi su fatti già emersi e non contestati: peraltro, il mancato rispetto delle indicate prescrizioni
può determinare l’illegittimità solo del secondo e non anche del primo accertamento effettuato (Cass. n. 23685/2018, Rv. 65052001).
Anche l’accertamento parziale, poi, può essere seguito da un secondo accertamento e anch’esso, ai fini della validità, dovrà basarsi su fatti nuovi. Tuttavia, in tal caso, il requisito della novità potrà riguardare anche fatti non conosciuti, perché noti a diversa articolazione dell’ufficio fiscale . La Suprema Corte, infatti, ha precisato che l’avviso di accertamento parziale ex artt. 41bis del d.P.R. n. 600 del 1973, e 54, comma 5 del d.P.R. n. 633 del 1972, non impedisce all’Ufficio di procedere ad un ulteriore accertamento, per il medesimo periodo di imposta, nei termini di decadenza previsti dalla legge, purché questo sia fondato su fonti diverse da quelle poste a base del primo o comunque su dati la cui conoscenza, da parte dell’ente impositore, sia ad esso sopravvenuta, non già in applicazione degli artt. 43, comma 4, del d.P.R. n. 600 del 1973, e 57, comma 4, del d.P.R. n. 633 del 1972, in tema di accertamento integrativo, stante la non sovrapponibilità dei due istituti, ma in applicazione del generale principio della tendenziale unicità degli accertamenti, di cui gli strumenti previsti da queste due disposizioni costituiscono deroga, altrimenti pregiudicandosi il diritto del contribuente ad una difesa unitaria e complessiva che tale principio garantisce (Cass. n. 27788/2020, Rv. 65981501). In tale pronuncia, peraltro, si chiarisce che la locuzione che, aprendo l’art. 41 -bis citato, fa salva l’ulteriore azione di accertamento nei termini di decadenza previsti, fa riferimento a pretese dell’ufficio fondate su fonti diverse da quelle prese a base dell’accertamento parziale o comunque su dati la cui conoscenza, da parte dell’ent e impositore, sia sopravvenuta all’accertamento, tali essendo anche quelli noti ad un ufficio fiscale, ma non ancora in possesso di quello che ha emesso l’atto al momento dell’adozione dello stesso.
In senso contrario, del resto, non rileva quanto statuito dall’art. 33 del medesimo decreto, che pone solo un dovere di reciproca
collaborazione tra uffici finanziari e Guardia di finanza, proprio in considerazione della finalità propria dello strumento dell’accertamento parziale, ossia di favorire la sollecita emersione della materia imponibile, che non preclude, pertanto, l’eserciz io dell’ulteriore azione accertatrice. E’ stato, infatti, affermato che, i n tema di accertamento delle imposte sui redditi, costituiscono dati la cui sopravvenuta conoscenza legittima l’integrazione o la modificazione in aumento dell’avviso di accertamento, mediante notificazione di nuovi avvisi, ai sensi dell’art. 43, comma 3, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (e art. 57, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633), anche i dati conosciuti da un ufficio fiscale, ma non ancora in possesso di quello che ha emesso l’avviso di accertamento al momento dell’adozione di esso (Cass. n. 1542/2018, Rv. 64710102).
Nel caso in esame, l’avviso di accertamento impugnato indica espressamente di essere stato emesso ai sensi dell’art. 41 -bis del d.P.R. n. 600 del 1973. Poi, dallo stesso ricorso emerge che l’ufficio non conosceva i fatti, poiché i funzionari che si sono occupati dell’accertamento delle società erano diversi rispetto a quelli che hanno eseguito l’accertamento per i soci persone fisiche.
Risulta, pertanto, ragionevole la valutazione espressa dalla C.t.r., che ha qualificato come parziale l’avviso di accertamento impugnato, considerato che lo stesso è fondato su fatti non conosciuti in precedenza dall’ufficio che ha provveduto sul primo accertamento. Non trova, quindi, applicazione il disposto dell’art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973.
Il secondo motivo è inammissibile e, comunque, infondato.
Ed invero, l’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv. in l. n. 134 del 2012, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia
carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Pertanto, l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. n. 17005/2024, Rv. 67170601).
11. Nel caso in esame, la contribuente, pur lamentando l’omesso esame del fatto storico relativo alla estraneità della contribuente alla gestione societaria, invocando l’art. 360, n. 5, c.p.c., non indica la parte del testo della sentenza o degli atti processuali da cui tale fatto risulti o sia stato dedotto nelle fasi di merito, né deduce che lo stesso abbia costituito oggetto di discussione.
Né, peraltro, il suindicato fatto storico ha carattere decisivo ai fini della definizione della controversia, considerato che, come affermato recentemente dalla Suprema Corte, la previsione di cui all’art. 39, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 600 del 1973, legittima la presunzione di attribuzione pro quota ai soci degli utili extra bilancio prodotti da società di capitali a ristretta base azionaria, con la conseguente inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, il quale non può limitarsi a denunciare la propria estraneità alla gestione e conduzione societaria, ma deve dimostrare – eventualmente anche ricorrendo alla prova presuntiva – che i maggiori ricavi non sono stati effettivamente realizzati dalla società e che quest’ultima non li ha distribuiti, ma accantonati o reinvestiti, ovvero che degli stessi se ne è appropriato altro soggetto (Cass. n. 21158/2024, Rv. 67165001). Nello stesso senso, anche Cass. n. 7170/2022, Rv. 66408201, secondo cui, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, il socio di società di capitali a ristretta base partecipativa, che ricopra anche l’incarico di amministratore, può superare la presunzione di distribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati, non limitandosi a dedurre la propria
estraneità alla gestione per l’esistenza di un amministratore di fatto, ma dimostrando la mancata distribuzione degli utili extracontabili oggetto dell’accertamento tributario perché sottratti dal gerente di fatto.
Sicché, la presunzione riguarda il socio di società di capitali a ristretta base ed ha ad oggetto la distribuzione del maggior reddito accertato in proporzione alla quota sociale posseduta. Il socio contribuente potrà superare la presunzione, provando che il maggior reddito accertato extrabilancio non sia stato distribuito, bensì reinvestito o accantonato, ma a nulla rileva che egli non fosse amministratore e che fosse o meno estraneo alla gestione della società.
12. Parimenti inammissibile, e comunque, infondato è anche il terzo motivo, poiché il sindacato della Corte di cassazione in tema di spese processuali è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le stesse non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, per cui vi esula, rientrando nel potere discrezionale del giudice di merito, la valutazione dell’opportunità di compensarle in tutto o in parte, sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca che in quella di concorso di altri giusti motivi (cfr. Cass. 17 ottobre 2017, n. 24502; Cass. 31 marzo 2017, n. 8421).
Con il motivo in esame, la ricorrente si limita a lamentare l ‘illegittimità della condanna alle spese, emessa nei suoi confronti dalla C.t.r., per ‘illegittimità derivata’ dall’accoglimento del primo o del secondo motivo. La doglianza appare, quindi, inammissibile operando una inversione logica (prima ancora che giuridica): essa, infatti, non contiene una specifica censura alla statuizione sulle spese operata dal giudice di merito (che ha condannato la contribuente facendo uso dell’ordinario criteri o della soccombenza), ma fa discendere l’illegittimità di tale statuizione dal prospettato,
successivo accoglimento dei motivi posti a fondamento del ricorso per cassazione.
Sulla base di tutte le suesposte considerazioni, il ricorso va, pertanto, rigettato e la parte ricorrente va condannata al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese relative al presente giudizio di legittimità, che si liquidano come in dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater del d.P.R. n. 115 del 2002, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali per il raddoppio, a carico della ricorrente, del contributo unificato, ove dovuto (Cass. SU n. 4315/2020, Rv. 657198-03).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna la parte ricorrente al pagamento in favore d ell’Agenzia delle entrate delle spese del giudizio, che liquida in € 7.000,00, oltre accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione