Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 33432 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 5 Num. 33432 Anno 2024
Presidente: NOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 19/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 24257/2017 R.G. proposto da :
Agenzia delle Entrate , elettivamente domiciliata in Roma in INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO) che la rappresenta e difende
-ricorrente-
CONTRO
COGNOME NOME
-intimato- avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Puglia, sez. distaccata di FOGGIA n. 1221/2017 depositata il 10/04/2017;
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12/09/2024 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
NOME COGNOME svolgente l’attività di panettiere, impugnò l’avviso di accertamento (per IRPEF, IRAP, IVA), relativo al periodo di imposta 2005, con il quale l’Agenzia delle Entrate rettificò il reddito dichiarato sulla scorta di una maggiore resa della farina per confezionare il prodotto ed in ogni caso in considerazione della gestione ‘perlomeno inverosimile ed antieconomica’.
Il giudice di prime cure accolse il ricorso ritenendo che l’attività non potesse essere ritenuta antieconomica visto che era in linea con gli studi di settore e che altri elementi presuntivi, in virtù dei quali era stato accertato un maggiore reddito, non erano gravi, precisi e concordanti.
Avverso la predetta decisione interpose appello l’Agenzia e la C.T.R. lo respinse.
Nel dettaglio il giudice di seconde cure affermò ‘ invero il contribuente non ha dichiarato risultati antieconomici della propria attività essendo questi in linea con le previsioni degli studi di settore. Quanto alle presunzioni che hanno portato l’ufficio all’accertamento di un maggiore reddito è da dire che l’ufficio non ha valutato nel determinare il ricarico il giusto peso dello sfrido, della merce rimasta invenduta, nonché delle vendite al banco comprensive dell’IVA. Tale insufficiente valutazione rende incerte le presunzioni in base alle quali l’ufficio ha accertato i maggiori redditi. Si ribadisce infine che l’attività non risulta antieconomica visto che il contribuente ha dichiarato redditi in linea con gli studi di settore’.
Avverso la prefata decisione ricorre l’Agenzia delle Entrate con due motivi, il contribuente è rimasto intimato.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 36, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, e dell’art. 39, comma 1, lett. d) del d.P.R. n. 600 del 1973, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 e 4 c.p.c.
Si evidenzia che, diversamente da quanto affermato dal giudice di merito, la circostanza secondo cui il ricorrente non avesse dichiarato risultati antieconomici, in quanto non in linea con gli studi di settore, non era in alcun modo ragione idonea a far venir meno l’accertamento che ‘ben può essere effettuato anche in presenza di una contabilità formalmente regolare, i dati della quale d’altra parte, nel caso di specie, evidenziavano appunto ricavi in nero’ .
Si sostiene, quindi, che l’aver respinto l’appello sulla base di tale assunto renderebbe nulla la sentenza essendo motivata su una base inconsistente ed inidonea allo scopo, sicché la motivazione sarebbe non meramente apparente ma inesistente.
Con il secondo motivo si denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia atteso che il giudice di merito avrebbe ignorato il suo obbligo di quantificare la residua pretesa fiscale.
Il primo motivo del ricorso è fondato.
Deve premettersi che questa Corte ha affermato come i parametri o studi di settore previsti dall’art. 3, commi 181 e 187, della l. n. 549 del 1995, rappresentando la risultante dell’estrapolazione statistica di una pluralità di dati settoriali acquisiti su campioni di contribuenti e dalle relative dichiarazioni, rilevano valori che, quanto eccedono il dichiarato, certamente integrano il presupposto per il legittimo esercizio da parte dell’Ufficio dell’accertamento analitico-induttivo, ex art. 39, comma 1, lett. d, del d.P.R. n. 600 del 1973, che deve essere necessariamente svolto in contraddittorio con il contribuente, sul quale, nella fase
amministrativa e, soprattutto, contenziosa, incombe l’onere di allegare e provare, senza limitazioni di mezzi e di contenuto, la sussistenza di circostanze di fatto tali da allontanare la sua attività dal modello normale al quale i parametri fanno riferimento, sì da giustificare un reddito inferiore a quello che sarebbe stato normale secondo la procedura di accertamento tributario standardizzato, mentre all’ente impositore fa carico la dimostrazione dell’applicabilità dello “standard” prescelto al caso concreto oggetto di accertamento (Cass. n. 14288 del 2016). Deve, ancora, premettersi che nell’accertamento mediante studi di settore, il presupposto delle gravi incongruenze non può fondarsi solo sulle soglie legali quantitative di scostamento, dovendosi, invece, procedere ad una valutazione caso per caso, che tenga conto anche di indici di natura relativa, da adattare a plurimi fattori propri della singola situazione economica, del periodo di riferimento e, in generale, della storia commerciale del contribuente, oltre che del mercato e del settore di operatività, poiché anche scostamenti minimi possono assumere rilevanza se accompagnati da indici gravi e significativi di un maggior reddito non dichiarato (Cass.n. 16816 del 2024).
Deve premettersi, ancora, che in materia di IVA, l’Amministrazione finanziaria, in presenza di contabilità formalmente regolare ma intrinsecamente inattendibile per l’antieconomicità del comportamento del contribuente, può desumere in via induttiva, ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 600 del 1973 e dell’art. 54, commi 2 e 3, del d.P.R. n. 633 del 1972, sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, il reddito del contribuente utilizzando le incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, incombendo su quest’ultimo l’onere di
fornire la prova contraria e dimostrare la correttezza delle proprie dichiarazioni.
Questa Corte ha ancora affermato che il calcolo del reddito effettuato mediante lo studio di settore, a seguito dell’instaurazione del contraddittorio con il contribuente, è idoneo ad integrare presunzioni legali che sono, anche da sole, sufficienti ad assicurare valido fondamento all’accertamento tributario, ferma restando la possibilità, per l’accertato, di fornire la prova contraria, in fase predibattimentale ed anche in sede contenziosa” (Cass. n. 24330 del 2019; Cass. n. 21824 del 2020).
Premesso quanto innanzi, nella specie, il giudice di merito ha ritenuto illegittimo l’accertamento escludendo la sussistenza di una attività antieconomica da parte contribuente essendo in linea con le previsioni degli studi di settore ed ha escluso che gli indizi, presi in considerazione dall’Agenzia, fossero idonei a suffragare l’avvenuto accertamento del maggior reddito, non essendo stato valutato ‘il giusto peso dello sfrido, della merce rimasta invenuta nonché delle vendite al banco comprensive dell’IVA’.
La circostanza secondo cui il contribuente non ha svolto attività antieconomica poiché in linea con le previsioni degli studi di settore non costituisce circostanza idonea ad elidere la legittimità dell’accertamento effettuato.
Deve infatti ribadirsi che gli studi di settore costituiscono, invero, come si evince dall’art. 62 sexies del d.l. 30 agosto 1993, n. 331, convertito in legge 29 ottobre 1993, n. 427, solo uno degli strumenti utilizzabili dall’Amministrazione finanziaria per accertare in via induttiva, pur in presenza di una contabilità formalmente regolare, ma intrinsecamente inattendibile, il reddito reale del contribuente: tale accertamento, infatti, può essere presuntivamente condotto anche sulla base del riscontro di gravi incongruenze tra i ricavi, i
compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, a prescindere, quindi, dalle risultanze degli specifici studi di settore e dalla conformità alle stesse dei ricavi aziendali dichiarati (Cass. n. 20060 del 2014; Vedi Cass. n. 27617 del 2018).
Così facendo la Commissione tributaria regionale, lungi dal vagliare e confutare tutti gli elementi di fatto indicati dall’Agenzia delle Entrate a sostegno della legittimità dell’accertamento (effettuato sulla base della documentazione contabile del contribuente dalla quale, pur ‘formalmente regolare’ emergevano ‘ ricavi in nero’), si è limitata a valorizzare la coerenza dei risultati dell’attività del contribuente con gli studi di settore, negando apoditticamente che gli elementi addotti dall’Ufficio potessero configurare presunzioni dotate dei requisiti di gravità precisione e concordanza, per poi AFFERMARE genericamente che l’Ufficio non avesse valutato , nel determinare il ricarico, il giusto peso dello sfrido, della merce rimasta invenduta nonché delle vendite al banco comprensive d’IVA.
Trattasi di motivazione che, da un lato, è apparente, perché si limita a mere affermazioni apodittiche, senza spiegare le ragioni delle stesse sulla base degli elementi acquisiti; e, dall’altro, errata in diritto perché non ha tenuto conto degli elementi presuntivi indicati in sede di avviso di accertamento, peraltro regolarmente trascritti ai fini dell’autosufficienza del ricorso.
2. Il secondo motivo è assorbito.
Si ritiene comunque opportuno in relazione a quest’ultima doglianza ribadire che il giudice tributario, nell’ambito di un processo a cognizione piena diretto ad una decisione sostitutiva tendente all’accertamento sostanziale del rapporto controverso, quando ravvisi l’infondatezza parziale della pretesa dell’Amministrazione, non deve, né può, limitarsi ad annullare “in toto” l’atto impositivo, ma deve
accertare e quantificare entro i limiti posti dal “petitum” delle parti l’entità della pretesa fiscale, dandone un contenuto quantitativo diverso da quello sostenuto dai contendenti, avvalendosi degli ordinari poteri di indagine e di valutazione dei fatti e delle prove consentiti dagli artt. 115 e 116 c.p.c. in tal modo determinando l’ammontare effettivo delle imposte e delle sanzioni dovute dal contribuente, senza che ciò violi il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato e senza che ciò costituisca attività amministrativa di nuovo accertamento, rappresentando invece soltanto l’esercizio dei poteri di controllo, di valutazione e di determinazione del “quantum” della pretesa tributaria.
In conclusione, il primo motivo di ricorso è accolto, assorbito il secondo, e per l’effetto deve essere cassata la decisione impugnata, e rinviata la causa alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Puglia, sezione distaccata di Foggia, in diversa composizione, per nuovo esame e per le spese del presente procedimento.
P.Q.M.
Accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Puglia, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma, il 12/09/2024.