Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 11752 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 11752 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 05/05/2025
Accertamento ex art. 39, comma 1, lett. D) d.p.r. 600/73 – studi di settore.
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 23203/2022 R.G. proposto da: COGNOME (CODICE_FISCALE), rappresentato e difeso anche disgiuntamente dagli avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME del foro di Agrigento, giusta procura speciale in atti
-ricorrente –
CONTRO
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Direttore generale pro tempore , rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato presso i cui uffici in Roma, INDIRIZZO è domiciliata
-controricorrente – avverso la sentenza n. 1330/2022 della Commissione tributaria regionale per la Sicilia, sez. 19, depositata in data 15.2.2022, non notificata;
udita la relazione svolta all’udienza camerale del 20.3.2025 dal Cons. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
1. NOME NOME impugnava l’avviso di accertamento n. CODICE_FISCALE relativo all’anno di imposta 2010, con il quale l’Agenzia delle Entrate di Agrigento, previo invito al contraddittorio, accertava, ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. D) del D.P.R. n.
600/73, maggiori ricavi pari ad euro 38.362,00, un maggior reddito di impresa pari ad euro 49.115,00 e di conseguenza intimava il pagamento di una maggior imposta pari ad euro 20.348,00 e sanzioni per euro 19.763,00.
La C.T.P. di Agrigento, nella resistenza dell’Agenzia delle Entrate, accoglieva il ricorso, ritenendo che l’accertamento era fondato sullo studio di settore, applicato in maniera astratta e dunque su semplici presunzioni, prive di agganci alla situazione aziendale concreta e che l’Ufficio non aveva fornito prove per contrastare le contestazioni del ricorrente.
2.La decisione veniva riformata dalla C.T.R. della Sicilia, adita dall’Agenzia delle Entrate, la quale, ritenuto legittimo l’operato dell’Agenzia delle Entrate, rigettava l’originario ricorso.
3.Avverso la precitata sentenza ha proposto il Messina, affidato a due motivi.
L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso -rubricato « error in iudicando. Violazione e falsa applicazione dell’art.54 d.p.r. 633/73 ed errata determinazione del reddito a mezzo studi di settore ( art. 39, primo comma, lettera d) del D.P.R. n. 600/73 e dell’art. 54 del D.P.R. 633/1972 », il ricorrente deduce che l’avviso di accertamento si basava su dati presuntivi e sull’applicazione di coefficienti matematici che nulla avevano a che fare con la realtà aziendale; che l’A.F. non aveva specificato i presupposti che consentivano di attivare il procedimento analitico o induttivo; che l’avviso era illegittimo per assoluto difetto di motivazione, atteso che, in presenza di una contabilità formalmente regolare, non offriva alcun riscontro probatorio a sostegno delle rettifiche operate. Il giudice del gravame aveva affermato che ‘ il compimento di operazioni antieconomiche come nella descrizione contabile e gestionale prospettata nei conti fiscali della ricorrente vale a integrare,
qualora il contribuente non fornisca una giustificazione razionale della propria scelta, gli elementi indiziari richiesti dalla legge al fine dell’ammissibilità dell’accertamento tecnico induttivo’ , nonostante esso ricorrente avesse messo in evidenza che gli studi di settore, per la loro astrattezza, non si prestavano ad una automatica applicazione senza un riscontro concreto e quindi con l’esame pratico di tutte quelle situazioni endogene ed esogene al contesto in cui di fatto opera l’impresa, come chiarito da copiosa giurisprudenza di legittimità. Sempre secondo il ricorrente, la sentenza, pur non esaminando compiutamente la lamentata inapplicabilità dello studio di settore e l’incapacità di costituire strumento per l’accertamento del reddito, avrebbe fondato sulla antieconomicità della gestione la legittimità dell’avviso di accertamento, senza tenere presente che la Corte di Cassazione, in merito alla grave incongruenza che conferirebbe sostegno allo studio di settore, aveva precisato che la nozione di ‘grave incongruenza’ non può essere ricavata avendo riguardo in via assoluta a precise soglie quantitative fisse di scostamento, essendo invece la nozione di natura relativa, da adattare ai plurimi fattori propri della singola situazione economica del periodo di riferimento ed in generale della stessa storia commerciale del contribuente destinatario dell’accertamento, oltre che del mercato e del settore di operatività. Prosegue, citando giurisprudenza di questa Corte in materia di studi di settore e lamenta che l’Ufficio prima e la C.T.R. poi non abbiano preso in considerazione la peculiarità della sua situazione, che era del tutto diversa da quella rappresentata dallo studio di settore, né la chiusura dell’attività al 31.12.2011 e neppure la crisi del settore e la conseguente mancanza di economicità della stessa.
Il motivo difetta di specificità, atteso che il ricorrente, anziché confrontarsi con le diffuse e circostanziate argomentazioni contenute nella sentenza impugnata, tutte invero riferite alla
concreta realtà aziendale, si limita alla reiterazione delle difese formulate nei gradi di merito, con plurime e sovrabbondanti citazioni di precedenti giurisprudenziali e circolari dell’Agenzia delle Entrate, accompagnate da riferimenti del tutto generici alle dichiarazioni rese in fase precontenziosa, a suo dire «chiare e precise», alla «specifica realtà aziendale», alla «solida documentazione», alla «territorialità ed alla localizzazione dell’impresa», alla «peculiarità della situazione», alla circostanza della «cessazione dell’attività nell’anno successivo», alla «crisi del settore».
2.2. Questa Corte ha infatti chiarito che nel ricorso per cassazione, il vizio di violazione e falsa applicazione di legge ex art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., giusta il disposto dell’art. 366, comma 1, n. 4), c.p.c., dev’essere dedotto, a pena d’inammissibilità, non solo con l’indicazione delle norme che si assumono violate, ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni, contenute nella sentenza impugnata, che si assumono in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (tra le tante, Cass. 20870/2024).
2.3. Peraltro, la doglianza appare oltremodo infondata, atteso che la C.T.R. ha preso accuratamente in esame la concreta attività del contribuente, ritenendo, in primo luogo, che lo studio di settore individuato dall’Agenzia delle Entrate era applicabile all’attività esercitata dall’appellato, il quale non aveva evidenziato i ricavi imputabili alle attività non prevalenti, alcune delle quali superiori al 30% di quelli complessivi e, pertanto, soggetti all’obbligo di presentazione dello studio di settore. Ha poi valutato lo
scostamento del 25%, già in sé non trascurabile, ma anche accompagnato da altre gravi incongruenze, indicate nell’avviso ed effettivamente sussistenti, di cui dava conto (in conformità, ex multis , a Cass. n. 16816/2024) : anomalie nell’adempimento degli obblighi fiscali connessi alla regolare contabilizzazione e dichiarazione dei dati, con particolare riguardo al dato ‘personale addetto all’attività’ di cui al quadro A dello studio di settore; un rapporto tra ricavi realizzati e costi affrontati per il personale (dipendente e non) che evidenziava l’esistenza di un comportamento antieconomico, dato che nell’anno di imposta considerato, a fronte di una spesa per lavoro dipendente di euro 19.802,00, veniva dichiarato un reddito d’impresa di soli 10.753,00 euro. Ha inoltre evidenziato che dai dati a disposizione dell’amministrazione finanziaria risultava che il sostentamento del nucleo familiare, composto da coniuge privo di reddito e tre figli a carico, sarebbe stato garantito con circa mille euro netti al mese, incompatibile con le spese di gestione e manutenzione degli immobili e dei veicoli intestati al contribuente. Ha inoltre ritenuto che le incongruenze dei ricavi reiterate nel tempo, dal 2008 al 2011, dimostrassero l’antieconomicità dell’attività, indizio che, anche secondo la Suprema Corte, era idoneo a far dubitare fortemente della veridicità delle operazioni dichiarate, con conseguente spostamento dell’onere della prova sul contribuente anche in presenza di una contabilità formalmente regolare. Ha infine rilevato che il reddito dichiarato di euro 10.753,00, sotto i mille euro al mese, appariva assolutamente inverosimile in relazione all’attività esercitata ed agli emolumenti corrisposti ai propri dipendenti.
E’ giunta pertanto alla logica conclusione che sussistessero i presupposti legittimanti il ricorso all’accertamento analitico induttivo, in presenza di operazioni antieconomiche ed in difetto di giustificazione razionale da parte del contribuente.
2.4 Il giudice del merito, diversamente da quanto assume il ricorrente, ha pertanto analizzato tutti gli aspetti concreti della vicenda, applicando in modo conforme a diritto le regole di riparto dell’onere della prova in materia di accertamento analitico -induttivo, cui può affiancarsi lo strumento dello studio di settore, più volte ribaditi da questa Corte, secondo cui, in tema di accertamento induttivo dei redditi, ai sensi dell’art. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973, l’Amministrazione finanziaria può fondare il proprio accertamento sia sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi e i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili “dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio dell’attività svolta”, sia sugli studi di settore, nel quale ultimo caso l’Ufficio non è tenuto a verificare tutti i dati richiesti per uno studio generale di settore, potendosi basare anche solo su alcuni elementi ritenuti sintomatici per la ricostruzione del reddito del contribuente (Cass. n. 33340/2019). L’iter argomentativo adottato dalla C.T.R. appare pertanto del tutto coerente con i principi più volte ribaditi da questa Corte in materia, secondo cui l’accertamento operato sulla base della sola applicazione degli studi di settore impone, a pena di nullità, l’obbligo di un preventivo contraddittorio con il contribuente, in quanto il sistema delle presunzioni semplici su cui gli studi si fondano – la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata in relazione ai soli standard in sé considerati richiede un percorso di adeguamento dell’elaborazione statistica alla concreta realtà economica del contribuente, il cui esito confluisce nella motivazione, la quale deve ricomprendere le ragioni per le quali i rilievi del destinatario dell’attività accertativa sono stati disattesi; al contrario, il predetto obbligo non occorre se l’accertamento trova fondamento -come nel caso in esame anche su ulteriori elementi giustificativi, come reiterata antieconomicità dell’attività o irregolarità contabili (tra le tante, Cass. n. 9554/2024).
Con il secondo motivo, rubricato « error in iudicando ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. per aver omesso l’esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Violazione e falsa applicazione dell’art. 39 lettera d) del D.P.R. n. 600/73 in mancanza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi e i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dagli studi di settore elaborati ai sensi dell’art. 62 bis del presente decreto», il ricorrente deduce che il giudice d’appello non avrebbe affrontato la questione, logicamente preliminare e decisiva per il giudizio, dell’adeguatezza dello studio di settore alla realtà economica dell’impresa e non avrebbe svolto la dovuta indagine in ordine alla fondatezza degli elementi addotti dal ricorrente, prima in sede precontenziosa e poi in fase giudiziale, per contrastare l’applicabilità dello studio di settore e del cluster . Inoltre, la C.T.R. non avrebbe dato risposta all’eccezione dell’appellato di irrilevanza degli scostamenti contestati in quanto determinati dalle specifiche, dedotte e già ritenute provate dai primi giudici, caratteristiche operative.
Il motivo è inammissibile.
4.1 L’articolo 360, comma 1, n. 5, c.p.c., nella sua attuale formulazione, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e che abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia.
4.2 Questa Corte ha chiarito che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie
esaminate (Cassazione, Sezioni Unite n. 8053/2014). Sotto altro profilo, la Corte ha chiarito che il vizio in questione può integrarsi solamente in presenza dell’omessa valutazione di una questione di fatto, non potendo essere oggetto di censura l’omesso esame di una questione giuridica. Essendo le questioni di diritto estranee all’ambito di applicazione dell’articolo 360, comma 1, n. 5), c.p.c., per ‘fatto’ decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti si intende “un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico” (Cassazione, n. 21152/2014), un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante (Cassazione, Sezioni Unite n. 5745/2015).
4.3. La questione dell’adeguatezza o meno dello studio di settore rispetto alla realtà aziendale non integra un fatto storico. Peraltro, il giudice di merito ha espressamente affrontato la questione a pagina 3 della sentenza, paragrafo 1. Neppure la valutazione di rilevanza o irrilevanza dello scostamento del 25% costituisce fatto storico. Anche tale questione è stata peraltro espressamente affrontata ai paragrafi 2 e seguenti di pagina 3 e la parte ricorrente neppure specifica in cosa consistessero le ‘specifiche, dedotte e già ritenute provate dai primi giudici, caratteristiche operative’ che il giudice del gravame non avrebbe in tesi preso in considerazione.
4.4. Né il ricorrente può aspirare ad ottenere un’inammissibile rivalutazione del complessivo materiale probatorio, che spetta soltanto al giudice del merito. A tal riguardo, questa Corte ha infatti più volte ribadito che esula dal vizio di legittimità ex art. 360, n. 5 c.p.c. qualsiasi contestazione volta a criticare il “convincimento” che il giudice di merito si è formato, ex art. 116, c. 1 e 2 c.p.c., in esito all’esame del materiale probatorio ed al conseguente giudizio di prevalenza degli elementi di fatto, operato mediante la valutazione della maggiore o minore attendibilità delle fonti di prova, essendo esclusa, in ogni caso, una
nuova rivalutazione dei fatti da parte della Corte di legittimità.
(Cass. n. 15276/2021).
Il ricorso va conclusivamente rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso;
condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, che liquida in euro 4.100,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. 115/2002, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente principale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma del comma 1 -bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 20.3.2025.