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Accertamento induttivo: quando è legittimo?

Una contribuente ha impugnato un avviso di accertamento per costi non dedotti relativi a un fornitore estero non pagato. La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, confermando la legittimità dell’operato dell’Agenzia delle Entrate. La decisione stabilisce che un accertamento induttivo può validamente fondarsi su presunzioni semplici, come l’illogicità economica del mancato incasso di un ingente credito da parte di un fornitore che ha cessato l’attività.

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Pubblicato il 15 settembre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Accertamento induttivo: la Cassazione conferma la legittimità basata su presunzioni

L’accertamento induttivo rappresenta uno degli strumenti più incisivi a disposizione dell’Amministrazione Finanziaria per contrastare l’evasione fiscale. Con una recente ordinanza, la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sulla validità di tale metodo, chiarendo quando può essere legittimamente fondato su presunzioni semplici. Il caso analizzato riguarda la deducibilità di costi relativi a un fornitore non pagato, una situazione che ha portato a un contenzioso fino al terzo grado di giudizio.

I fatti di causa

Una contribuente si vedeva notificare un avviso di accertamento con cui l’Agenzia delle Entrate recuperava a tassazione IRPEF, IRAP e IVA. La rettifica traeva origine dall’analisi della contabilità della contribuente, dalla quale emergeva il mancato pagamento di fatture emesse da un fornitore estero. L’Amministrazione Finanziaria, di conseguenza, eliminava i relativi costi, considerandoli non deducibili.

La contribuente impugnava l’atto, ma sia la Commissione Tributaria Provinciale che quella Regionale confermavano la pretesa del Fisco. Giunta in Cassazione, la ricorrente affidava la sua difesa a tre motivi di ricorso, incentrati principalmente sulla violazione delle garanzie procedurali e sull’illegittimità del metodo presuntivo adottato dall’Agenzia.

L’analisi della Corte di Cassazione: i motivi del ricorso

La Suprema Corte ha esaminato nel dettaglio le doglianze della contribuente, rigettandole integralmente. Vediamo i punti salienti del ragionamento dei giudici.

La violazione del contraddittorio e del termine dilatorio

Il primo motivo di ricorso lamentava la violazione del termine dilatorio di 60 giorni, previsto dallo Statuto del Contribuente, che deve intercorrere tra la chiusura della verifica e l’emissione dell’avviso di accertamento.

La Corte ha ritenuto il motivo infondato, specificando che tale garanzia si applica solo in caso di verifiche che si concludono con un processo verbale di constatazione. Nel caso di specie, trattandosi di un “accertamento a tavolino”, ovvero di un controllo basato sulla documentazione in possesso dell’ufficio, non è prevista la redazione di tale verbale e, di conseguenza, non si applica il termine dilatorio.

Inoltre, i giudici hanno escluso la violazione del principio del contraddittorio preventivo, poiché era pacifico che la contribuente fosse stata invitata a un confronto e che fossero seguiti ben quattro incontri regolarmente verbalizzati.

L’accertamento induttivo basato su presunzioni semplici

Il cuore della controversia risiedeva nel secondo motivo, con cui si contestava all’Agenzia di aver basato la ripresa a tassazione su mere presunzioni semplici. La contribuente sosteneva che mancassero prove dirette a sostegno dell’indeducibilità dei costi.

Anche su questo punto, la Cassazione ha dato torto alla ricorrente. I giudici hanno sottolineato che la Commissione Tributaria Regionale aveva correttamente valutato nel merito la fondatezza degli elementi portati dall’Agenzia. In particolare, due fatti sono stati ritenuti decisivi:

1. Il fornitore estero aveva cessato la propria attività internazionale quasi due anni prima della verifica.
2. Non era credibile che lo stesso fornitore avesse rinunciato a incassare un credito di oltre 200.000 euro prima di cessare l’attività.

Questi elementi, sebbene indiretti, costituivano presunzioni gravi, precise e concordanti, sufficienti a sostenere la ricostruzione dell’Agenzia e a ritenere l’operazione commerciale sottostante non genuina.

Le motivazioni della decisione

La Corte di Cassazione ha ribadito un principio consolidato in materia tributaria: l’accertamento induttivo può legittimamente fondarsi anche su presunzioni semplici, come previsto dall’art. 39 del D.P.R. 600/1973 e dall’art. 2727 del Codice Civile. L’Amministrazione Finanziaria non è tenuta a fornire la prova diretta dell’inesistenza dei costi, potendo invece basare la propria pretesa su un ragionamento logico-induttivo fondato su fatti noti e circostanziati. La valutazione di tali fatti, operata dal giudice di merito, non è censurabile in sede di legittimità se, come in questo caso, è adeguatamente motivata e priva di vizi logici.

Conclusioni

Questa ordinanza offre importanti spunti pratici per contribuenti e professionisti. In primo luogo, conferma che le garanzie procedurali, come il termine dilatorio di 60 giorni, hanno un ambito di applicazione specifico e non si estendono agli accertamenti documentali “a tavolino”. In secondo luogo, e più significativamente, ribadisce la forza probatoria delle presunzioni nel processo tributario. Un contribuente non può limitarsi a presentare una contabilità formalmente corretta se le operazioni in essa registrate appaiono economicamente illogiche o contraddittorie. In tali circostanze, l’onere di fornire la prova contraria per superare le presunzioni dell’Agenzia ricade interamente sul contribuente stesso.

Quando non si applica il termine dilatorio di 60 giorni prima di un avviso di accertamento?
Questo termine non si applica nel caso di “accertamento a tavolino” (controllo documentale), poiché la sua operatività presuppone la notifica di un verbale di chiusura delle operazioni, un atto non previsto in questa specifica tipologia di verifica fiscale.

Un accertamento fiscale può essere fondato solo su presunzioni semplici?
Sì, la Corte di Cassazione ha confermato che l’accertamento induttivo può essere legittimamente basato anche su presunzioni semplici, a condizione che queste siano gravi, precise e concordanti, consentendo all’amministrazione di ricostruire il reddito del contribuente in modo logico e coerente.

Perché il costo relativo a un fornitore non pagato è stato ritenuto indeducibile in questo caso?
Il costo è stato considerato indeducibile perché gli elementi presuntivi raccolti dall’Agenzia delle Entrate rendevano l’operazione non credibile. Nello specifico, il fatto che il fornitore avesse cessato la propria attività internazionale senza incassare un credito di notevole importo (oltre 200 mila euro) è stato considerato un comportamento economicamente illogico, sufficiente a fondare la rettifica.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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