Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 10029 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 10029 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 16/04/2025
ORDINANZA
sul ricorso n. 27439/2021 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE nella persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, giusta procura speciale in calce al ricorso per cassazione, dall’Avv. NOME COGNOME unitamente e disgiuntamente, agli Avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME con domicilio eletto presso lo studio di questi ultimi due, in Roma, INDIRIZZO
Pec: EMAIL
– ricorrente –
Agenzia delle Entrate, nella persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici è elettivamente domiciliata, in Roma, INDIRIZZO
– controricorrente –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della LOMBARDIA n. 1129/2021, depositata in data 23 marzo 2021, non notificata;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13 marzo 2025 dal Consigliere NOME COGNOME
RITENUTO CHE
La Commissione tributaria regionale ha accolto l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate nei confronti della sentenza di primo grado che aveva accolto il ricorso proposto dalla società RAGIONE_SOCIALE avente ad oggetto l’avviso di accertamento emesso per l’anno d’imposta 2014, con recupero di maggiori Ires, Irap e Iva, in ragione della ritenuta e riscontrata inattendibilità della contabilità e ricostruzione induttiva del reddito fino a euro 77.818,00, a fronte di una perdita dichiarata di euro 667,00.
I giudici di secondo grado hanno affermato che l’Ufficio aveva operato correttamente dal punto di vista metodologico garantendo l’esercizio del diritto di difesa e del diritto al contraddittorio e che se era vero che l’inoltro del questionario era stato motivato dalle anomalie emerse in ambito «spesometro», ciò non poteva tradursi in una preclusione sostanziale per l’Ufficio di potere effettuare le dovute valutazioni sulla documentazione disponibile, peraltro inoltrata dalla parte, nel rispetto delle prerogative difensive; ciò che era avvenuto era che, avviata l’interlocuzione con la parte privata sull’anno d’imposta 2014, l’analisi della documentazione aveva fatto emergere una serie di
incongruenze nei dati contabili, tali da giustificare la conclusione presuntiva di inattendibilità sostanziale della contabilità così da legittimare la ricostruzione induttiva dei ricavi e del reddito della contribuente, il tutto sempre nell’ambito dello s tesso procedimento e sempre nel contraddittorio con la parte privata e il professionista incaricato dalla stessa, che aveva interloquito con l’Ufficio anche quando l’attività procedimentale si era allargata alla verifica di tutta la documentazione resa disponibile, né il professionista aveva mai rifiutato l’interlocuzione, né la parte privata aveva disconosciuto l’operato del proprio consulente; la ricostruzione del reddito con metodo induttivo appariva legittima (non risultando convincente l’intervenuta modifica del sistema contabile, in quanto erano emerse altre anomalie con riguardo a dati infrannuali) alla luce della inattendibilità sostanziale dei dati contabili ed effettuata su base analitica perché era partita proprio dai dati delle rimanenze e dei ricavi, la cui entità e il cui rapporto giustificavano la presunzione di cessione in nero dei beni ; l’Ufficio aveva spiegato i criteri adottati, aderenti ai dati disponibili indicati dalla società e ragionevoli in quanto si era tenuto conto di tutti i costi esposti e dichiarati dalla società contribuente, coerenti negli esiti con le emergenze dello studio di settore; i costi erano stati tutti considerati, né la parte ne aveva indicati o provati o quantificati di ulteriori e il coefficiente di redditività utilizzato era spiegato nella sua origine ed era concretamente agganciato all’attività della società e al suo andamento nei due anni precedenti; la società, invece, non aveva fornito alcuna spiegazione in ordine alle incongruenze dei valori dei ricavi rispetto alle rimanenze, né le incongruenze segnalate, la mancata registrazione di fatture attive e il mancato deposito del bilancio presso il registro delle imprese delineavano un comportamento trasparente e corretto; la ricostruzione dell’Ufficio era pienamente coerente con la situazione di fatto in cui la società si trovava nel 2014 perché la ricostruzione dei ricavi era stata
fatta sul valore delle rimanenze finali del 2013, poi azzeratesi nel corso del 2014, ovvero assumendo che si fosse interrotta l’ordinaria attività di costruzioni di immobili e, nel corso del 2014, si fosse provveduto a rivendere i beni rimanenti senza darne evidenza fiscale e, in tale ottica, era evidente che si erano incassati importi piccoli in relazione ai materiali e beni di volta in volta ceduti.
La società RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione con atto affidato a due motivi e memoria.
L ‘Agenzia delle Entrate resiste con controricorso .
CONSIDERATO CHE
1. Il primo mezzo deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione dell’art. 10 della legge n. 212 del 2000 e dell’art. 39, comma 2, lett. d), del d.P.R. n. 600 del 1973 e art. 55 del d.P.R. n. 633 del 1972, dell’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973 e dell’art. 1, nn. 635-636, della legge n. 190 del 2014. La sentenza impugnata non aveva considerato le doglianze esposte dal punto di vista procedurale, normativo e giuridico, che erano state esposte nel ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, evidenziando le irregolarità e i vizi procedurali scaturenti dalle attività poste in essere dall’Ufficio, che aveva sviato in un eccesso di potere trasformando il controllo da «spesometro» in accertamento ex art. 39, comma 2, lett. d), del d.P.R. n. 600 del 1973 e art. 55 del d.P.R. n. 633 del 1972, finalizzato alle ricostruzione indiretta dei ricavi, quando per la fattispecie «spesometro» la società, in aderenza alle norme, aveva presentato spontaneamente dichiarazione integrativa. La email dell’11 dicembre 2018, richiamata dai giudici di appello, era di diverso tenore ed era stato l’Ufficio stesso a ricordare la possibilità di presentare una dichiarazione integrativa prima d ell’emissione dell’atto di accertamento, rendendo il procedimento definito e chiuso. L’Ufficio doveva attivare un nuovo procedimento ex artt. 32 e 60 del d.P.R. n.
603 del 1973 e 51 del d.P.R. n. 633 del 1972 e non avrebbe dovuto utilizzare dati di un procedimento che doveva essere considerato chiuso e il principio della nullità derivata imponeva di considerare nullo l’avviso di accertamento emesso sulla scorta dei documenti e delle risultanze acquisite per il tramite di un atto istruttorio giuridicamente viziato e, dunque, inesistente.
1.1 Il motivo è inammissibile, in quanto si tratta di doglianza diretta, con evidenza, a censurare una erronea ricognizione della fattispecie concreta, di necessità mediata dalla contestata valutazione delle risultanze probatorie di causa, che non costituiscono vizio di violazione di legge (Cass., 19 agosto 2020, n. 17313). Ed infatti, è inammissibile il ricorso per cassazione con cui si deduca, apparentemente, una violazione di norme di legge mirando, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito (Cass., 4 aprile 2017, n. 8758).
1.2 La sentenza impugnata, correttamente, ha affermato che l’Ufficio aveva operato in modo legittimo dal punto di vista metodologico garantendo l’esercizio del diritto di difesa e del diritto al contraddittorio e che sostanzialmente la presentazione della dichiarazione integrativa non precludeva l’inizio o la prosecuzione di accessi, ispezioni e verifiche o altre attività amministrative di controllo e accertamento; ed infatti l’analisi della documentazione aveva fatto emergere una serie di incongruenze nei dati contabili, tali da giustificare la conclusione presuntiva di inattendibilità sostanziale della contabilità così da legittimare la ricostruzione induttiva dei ricavi e del reddito della contribuente, il tutto sempre nell’ambito dello stesso procedimen to e sempre nel contraddittorio con la parte privata e il professionista incaricato dalla stessa, che aveva interloquito con l’Ufficio anche quando l’attività procedimentale si era allargata alla verifica di tutta la documentazione resa disponibile; la ricostruzione del reddito con
metodo induttivo era legittima alla luce della inattendibilità sostanziale dei dati contabili ed effettuata su base analitica perché era partita proprio dai dati delle rimanenze e dei ricavi, la cui entità e il cui rapporto giustificavano la presunzione di cessione in nero dei beni.
1.3 Ciò in conformità alla giurisprudenza di questa Corte che ha affermato che, ai sensi dell’art. 39, comma secondo, lett. d), d.P.R. n. 600/1973, la determinazione del reddito di impresa può essere compiuta dall’amministrazione finanziaria prescindendo dalle presunzioni dotate dei caratteri della gravità, precisione e concordanza, quando le omissioni e le false o inesatte indicazioni accertate ai sensi del precedente comma ovvero le irregolarità formali delle scritture contabili risultanti dal verbale di ispezione sono così gravi, numerose e ripetute da rendere inattendibili nel loro complesso le scritture stesse per mancanza delle garanzie proprie di una contabilità sistematica; si tratta, dunque, di una metodologia di controllo che può essere attivata dall’Amministrazione finanziaria soltanto al ricorrere di precise condizioni caratterizzate da irregolarità estreme o comunque gravissime ed è in tali circostanze che i verificatori hanno facoltà di prescindere, in tutto o in parte, dalle risultanze del bilancio e delle scritture contabili nei casi in cui siano esistenti e di utilizzare, oltre che prove dirette, anche elementi indiziari connotati da una valenza dimostrativa non particolarmente pregnante, vale a dire presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, c.d. presunzioni semplicissime; in questo contesto, il discrimine tra l’accertamento condotto con il metodo analitico-induttivo e con il metodo induttivo puro va ricercato nella parziale od assoluta inattendibilità dei dati risultanti dalle scritture contabili; ed invero, nel primo caso, la incompletezza, falsità od inesattezza degli elementi indicati non è tale da consentire di prescindere dalle scritture contabili, essendo legittimato l’Ufficio accertatore a completare le lacune riscontrate utilizzando ai fini della dimostrazione della esistenza di componenti
positivi di reddito non dichiarati ovvero della inesistenza di componenti negativi dichiarati anche presunzioni semplici rispondenti ai requisiti previsti dall’art. 2729 cod. civ.; nel secondo caso, invece, le omissioni o le false o inesatte indicazioni risultano tali da inficiare la attendibilità – e dunque la utilizzabilità, ai fini dell’accertamento – anche degli altri dati contabili (apparentemente regolari), con la conseguenza che in questo caso l’Amministrazione finanziaria può prescindere in tutto od in parte dalle risultanze del bilancio e delle scritture contabili in quanto esistenti ed è legittimata a determinare l’imponibile in base ad elementi meramente indiziari anche se inidonei ad assurgere a prova presuntiva ex artt. 2727 e 2729 cod. civ.; si tratta, infine, di una questione che attiene alla corretta sussunzione nel paradigma normativo della norma censurata della fattispecie in esame e non di una valutazione di merito (Cass., 18 dicembre 2019, n. 33604, in motivazione).
1.4 Ciò precisato, il giudice del gravame, nel caso in esame, contrariamente a quanto affermato dalla società ricorrente, ha tenuto conto delle ragioni fondanti la pretesa nell’avviso di accertamento, prendendo in considerazione la fattispecie concreta, come prospettata nell’avviso di accertamento, ai fini della qualificazione della natura induttiva dell’accertamento compiuto; peraltro, nella motivazione della sentenza, come sopra diffusamente rilevato, è riportato il percorso logico seguito per addivenire alla conclusione che, nella fattispecie, l’accertamento eseguito aveva natura induttiva e ciò in ragione della espressa censura sollevata dai contribuenti nell’atto di appello, con la quale era stata espressamente dedotta l’illegittimità dell’accertamento induttivo operato ai sensi dell’art. 39, secondo comma, lett. d) del d.P.R. n. 600/1973; vi è, in sostanza, un accertamento in fatto, non sindacabile in questa sede, in ordine alla verifica della assoluta inattendibilità delle scritture contabili, tenuto conto, per come affermato dai giudici di secondo grado, del fatto che nell’avviso di accertamento era stata riscontrata l’inattendibilità sostanziale dei dati
contabili e che tale verifica era stata effettuata su base analitica perché era partita proprio dai dati delle rimanenze e dei ricavi, la cui entità e il cui rapporto giustificavano la presunzione di cessione in nero dei beni. Non è condivisibile, in proposito, la prospettazione della società ricorrente, secondo cui l’Ufficio doveva attivare un nuovo procedimento ex artt. 32 e 60 del d.P.R. n. 603 del 1973 e 51 del d.P.R. n. 633 del 1972 e non avrebbe dovuto utilizzare dati di un procedimento che doveva essere considerato chiuso (che richiama, peraltro, impropriamente sia il principio della nullità derivata che imponeva di considerare nullo l’avviso di accertamento emesso sulla scorta dei documenti e delle risultanze acquisite per il tramite di un atto istruttorio giuridicamente viziato, sia la categoria della inesistenza dell’atto), dovendosi rimarcare che la legge n. 190 del 2014 ha previsto, con l’art. 1, commi 634-637, delle specifiche modalità con cui l’Agenzia delle Entrate mette a disposizione del contribuente gli elementi e le informazioni riguardanti possibili anomalie relative alle tipologie di redditi e con cui il contribuente può richiedere informazioni o segnalare all’Agenzia delle Entrate eventuali elementi, fatti e circostanze dalla stessa non conosciuti ed ha determinato le modalità con cui il contribuente può regolarizzare errori od omissioni e beneficiare della riduzione delle sanzioni previste per le violazioni stesse; il legislatore, in particolare, ha disposto che i contribuenti che hanno avuto conoscenza degli elementi e delle informazioni rese disponibili dall’Agenzia delle entrate possono regolarizzare gli errori e le omissioni eventualmente commessi mediante il ravvedimento operoso, disciplinato dall’articolo 13 del decreto legislativo n. 472 del 1997, presentando una dichiarazione integrativa ai sensi dell’articolo 2, comma 8, del d.P.R. n. 322 del 1998 e versando le maggiori imposte dovute, i relativi interessi e le sanzioni per infedele dichiarazione in misura ridotta in ragione del tempo trascorso dalla commissione delle violazioni stesse, così come previsto dal citato decreto legislativo al
fine di introdurre nuove e più avanzate forme di comunicazione tra l’Amministrazione fiscale e il contribuente, stimolare l’assolvimento degli obblighi tributari e favorire l’emersione spontanea delle basi imponibili (art. 1, commi 634 e 635, legge n. 190 del 2014). Tale comportamento può essere posto in essere a prescindere dalla circostanza che la violazione sia già stata constatata ovvero che siano iniziati accessi, ispezioni, verifiche o altre attività amministrative di controllo, delle quali i soggetti interessati abbiano avuto formale conoscenza, salvo la formale notifica di un atto di liquidazione, di irrogazione delle sanzioni o, in generale, di accertamento e il ricevimento delle comunicazioni di irregolarità di cui agli articoli 36bis del d.P.R. n. 600 del 1973 e 54bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972 e degli esiti del controllo formale di cui all’articolo 36ter del d. P.R. n. 600 del 1973 (art. 1, comma 637, legge n. 190 del 2014). I giudici di secondo grado, dunque, condivisibilmente, hanno ritenuto l’operato dell’Ufficio corretto e trasparente, nel rispetto del diritto di difesa e del contraddittorio, e hanno affermato che non sussisteva alcuna malafede da parte dell’Ufficio, tenuto conto del comportamento del professionista incaricato che aveva fornito spiegazioni e giustificazioni in ordine alle incongruenze contabili riscontrate dall’Ufficio e che non aveva mai rifiutato l’interlocuzione, né l’operato del consulente era stato mai formalmente disconosciuto dalla società contribuente, nel pieno rispetto dei principi della tutela dell’affidamento e della buona fede. Peraltro, nemmeno rileva la dedotta violazione del principio di collaborazione e buona fede nei rapporti tra contribuente e Amministrazione finanziaria, stante che, come affermato da questa Corte, l’applicazione del principio di affidamento e buona fede non può essere, utilmente, invocata di fronte, come nel caso di specie, ad aspetti vincolati della normativa tributaria, poiché ciò comporterebbe la violazione di fondamentali principi di valenza costituzionale,
attinenti all’indisponibilità della obbligazione tributaria (fr. Cass., 26 febbraio 2020, n. 5185, in motivazione).
Il secondo motivo deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione di legge per erronea applicazione del combinato disposto degli artt. 42 e 70 del d.P.R. n. 600 del 1973, nonché degli artt. 56 e 75 del d.P.R. n. 633 del 1972. L’avviso di accertamento era nullo per sostanziale inesistenza dei presupposti di fatto fondanti la pretesa tributaria, siccome reperiti mediante atto istruttorio illegittimo, né l’ottemperanza all’invito da parte della società contribuente aveva sanato l’invito giuridicamente inesistente. L’avviso di accertamento era, altresì, nullo per la violazione del principio di inutilizzabilità delle prove acquisite in violazione di un divieto di legge.
2.1 Il motivo è inammissibile nella parte in cui, nella sua tecnica di formulazione, rivolge la censura direttamente al provvedimento impositivo.
2.2 Come questa Corte ha già precisato, il motivo di ricorso attinente direttamente all’atto di accertamento è inammissibile, in quanto l’atto di accertamento non è atto del processo, bensì atto, la cui impugnazione è oggetto del processo (Cass., 27 marzo 2013, n. 7717; Cass., 7 maggio 2007, n. 10295; Cass., 13 marzo 2009, n. 6134).
2.3 Il motivo, tuttavia, è pure infondato, nella parte in cui deduce l ‘inutilizzabilità delle prove acquisite in violazione di un divieto di legge, in quanto, per come già precisato in sede di esame del primo motivo, la sentenza impugnata, correttamente, aveva affermato che l’Ufficio aveva operato in modo legittimo dal punto di vista metodologico garantendo l’esercizio del diritto di difesa e del diritto al contraddittorio, che sostanzialmente la presentazione della dichiarazione integrativa non precludeva l’i nizio o la prosecuzione di accessi, ispezioni e verifiche o altre attività amministrative di controllo e accertamento e che l’analisi della documentazione aveva fatto emergere una serie di incongruenze nei dati contabili, tali da giustificare la conclusione presuntiva di
inattendibilità sostanziale della contabilità così da legittimare la ricostruzione induttiva dei ricavi e del reddito della contribuente, il tutto sempre nell’ambito dello stesso procedimento e sempre nel contraddittorio con la parte privata e il professionista incaricato dalla stessa, che aveva interloquito con l’Ufficio anche quando l’attività procedimentale si era allargata alla verifica di tutta la documentazione resa disponibile, con il conseguente corollario che la ricostruzione del reddito con metodo induttivo era legittima alla luce della inattendibilità sostanziale dei dati contabili.
Per le ragioni di cui sopra, il ricorso deve essere rigettato e la società ricorrente va condannata al pagamento delle spese processuali, sostenute dalla Agenzia controricorrente e liquidate come in dispositivo, nonché al pagamento dell’ulteriore importo, previsto per legge e pure indicato in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento, in favore della Agenzia controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 5.900,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis , dello stesso articolo 13, ove dovuto.
Così deciso in Roma, in data 13 marzo 2025.