Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 17087 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 17087 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 25/06/2025
Oggetto: II.DD.
– IVA –
avvisi di accertamento
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 7886/2018 R.G. proposto da COGNOME NOME, RAGIONE_SOCIALE, in proprio e n.q. di aventi causa dalla società RAGIONE_SOCIALE, cancellata in data 30.3.2017, rappresentate e difese dall’Avv. NOME COGNOME (PEC: EMAIL), elettivamente domiciliate presso lo studio dell’Avv. NOME COGNOME in Roma, INDIRIZZO
-ricorrenti –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del Direttore legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliate in Roma, INDIRIZZO
-controricorrente –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Basilicata n. 69/1/2017, depositata il 2.2.2017 e non notificata. Udita la relazione svolta nell’adunanza camerale del 24 aprile 2025 dal consigliere NOME COGNOME
Rilevato che:
Con sentenza della Commissione tributaria regionale della Basilicata n. 69/1/2017, depositata il 2.2.2017 veniva accolto l’ appello proposto dalla società RAGIONE_SOCIALE e dalle socie NOME COGNOME e NOME COGNOME avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Potenza n. 88/3/2015 avente ad oggetto tre avvisi di accertamento notificati dall’Agenzia delle Entrate, il primo alla società per II.DD. e IVA, interessi e sanzioni e i restanti alle socie per trasparenza in relazione ai rispettivi redditi da partecipazione, relativamente al periodo d’imposta 2010.
Il giudice di primo grado, riuniti i ricorsi introduttivi, li accoglieva negando la legittimità degli accertamenti, fondati sulla ricostruzione induttiva ex art. 39, comma 2, del d.P.R. n. 600/1973 in capo alla società di un volume d’affari maggiore rispetto al dichiarato e sulla consequenziale imputazione per trasparenza di tale ricostruzione nei confronti delle socie. La decisione veniva riformata in appello dalla CTR sul presupposto che la società aveva omesso di redigere ed esibire le rimanenze relative agli anni di imposta 2008-10, circostanza che legittimava la ricostruzione induttiva dei ricavi.
Avverso la sentenza d’appello hanno proposto ricorso per Cassazione NOME COGNOME e NOME COGNOME in proprio e quali aventi causa della società, cancellata dal registro delle imprese in data 30.3.2017, deducendo tre motivi, cui replica l’Agenzia dell’Entrate con controricorso.
Considerato che:
Con il primo motivo le ricorrenti prospettano, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., la violazione dell’art. 39, comma 2, del d.P.R. n. 600/1973, per aver il giudice di seconde cure ritenuto legittimo l’accertamento nonostante la norma asseritamente violata non contempli il ricorso al metodo induttivo per l’omessa redazione ed esibizione del dettaglio delle rimanenze, nonché la pretesa violazione del divieto di doppia imposizione per non avere la CTR considerato le minori rimanenze già tassate negli anni di imposta precedenti.
1.1. Da un lato, secondo le ricorrenti, la contabilità semplificata prevista per le imprese minori consisterebbe solo nella tenuta dei registri IVA acquisti e vendite e non anche delle distinte analitiche, la cui mancata acquisizione, relativamente alle rimanenze annotate in modo corretto nel registro acquisti, non legittimerebbe, pertanto, il ricorso all’accertamento induttivo.
1.2. Dall’altro , si censura, sotto il diverso profilo della duplicazione dell’imposizione, che la CTR nel confermare gli avvisi di accertamento non abbia considerato «i minori acquisti da computare nel 2010 perché già tassati anticipatamente negli anni 2008 e 2009 secondo il diverso metodo induttivo utilizzato per tali anni» (cfr. p. 7 ricorso).
Il motivo è affetto da concorrenti profili di inammissibilità e infondatezza.
2.1. In tema di imposte sui redditi di impresa, questa Corte (cfr. Cass. ordinanza n. 1861 del 27/01/2025; Cass. ordinanza n. 29105 del 13/11/2018) ha più volte affermato che le imprese minori, le quali fruiscono del regime di contabilità semplificata, ai sensi dell’art. 18 del d.P.R. n. 600 del 1973, sono tenute ad indicare ogni anno nel registro degli acquisti, ai fini IVA, il valore delle rimanenze di magazzino, distinguendo i beni per categorie omogenee, del medesimo tipo e della stessa quantità, secondo la normativa sulla valutazione delle rimanenze, non potendosi limitare ad annotare solo quello globale. In assenza di tali indicazioni – che, ove fatte oggetto di una
richiesta da parte dei verificatori, possono essere fornite dal contribuente anche in sede procedimentale durante l’accesso, l’ispezione e la verifica – l’Amministrazione finanziaria può ritenere inattendibile la contabilità e procedere all’accertamento induttivo.
Il giudice di seconde cure, accertata l’omessa redazione ed esibizione del dettaglio delle rimanenze relative agli anni 2008, 2009 e 2010, ha fatto, dunque, corretta applicazione della norma affermando, conformemente all’interpretazione costante del giudice di legittimità, che « l’omessa esibizione, in sede di verifica, del prospetto analitico delle rimanenze iniziali e finali, non consentendo all’Amministrazione finanziaria di effettuare un controllo sulla corretta quantificazione e contabilizzazione di tali dati, autorizza la ricostruzione induttiva dei ricavi d’impresa, anche attraverso l’utilizzo di presunzioni» (cfr. p. 4 della sentenza impugnata).
2.2. In ordine al secondo profilo di doglianza, deve considerarsi coerente e privo di vizi logici il ragionamento del giudice di seconde cure, il quale ha ritenuto corretta la ricostruzione dei ricavi operata sulla base degli acquisti effettuati lasciando inalterate le esistenze iniziali e le rimanenze finali dichiarate, avendo accertato che «al fine di evitare una doppia imposizione, per la rideterminazione dei ricavi accertati è stato scomputato dal maggior volume d’affari la quota d’incremento delle rimanenze già sottoposte a tassazione» ( ibidem , p. 4).
A fronte di tale statuizione, le ricorrenti si limitano a contrapporvi la propria originaria prospettazione già vagliata dal giudice di merito, secondo cui la ricostruzione induttiva del 2010 avrebbe dovuto tener conto delle minori rimanenze già tassate negli anni precedenti e allegando che «tali circostanze sono state valutate in maniera erronea e superficiale in sede di giudizio di secondo grado» (cfr. p. 7 del ricorso).
La prospettazione non offre tuttavia riscontro della decisività e delle evidenze oggettive che, qualora presenti nella documentazione prodotta nei gradi di merito, avrebbero potuto supportare il motivo di
ricorso, il quale con tutta evidenza difetta, sotto il profilo della lamentata duplicazione d’imposta, del necessario requisito della specificità e localizzazione. Si ribadisce (cfr. Cass. SS. UU. n. 8950/2022) che, al fine di sostenere prima e dimostrare poi la denunciata ingiustizia della sentenza di secondo grado era onere delle ricorrenti indicare puntualmente il contenuto dei documenti richiamati all’interno della censura e segnalare specificamente la loro presenza negli atti del giudizio di merito, carenze che rendono la censura estremamente generica e certamente non coincidente con i precisi canoni di ammissibilità richiesti pacificamente dalla giurisprudenza della Suprema Corte.
Con il secondo motivo le ricorrenti prospettano, in rapporto all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., l’omes sa motivazione in relazione ad un punto controverso decisivo, e censurano, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione degli artt. 39, primo e secondo comma, del d.P.R. n. 600/1973, 53 del d.P.R. n. 633/1972, nonché 99 e 112 cod. proc. civ. per la ritenuta non corrispondenza tra chiesto e pronunziato.
Il motivo è inammissibile.
4.1. La censura è onnicomprensiva e compendia un coacervo di paradigmi processuali di doglianza che spaziano dalla violazione di legge alla censura motivazionale, fino alla nullità della sentenza per omessa pronuncia.
Va ribadito al proposito che il giudizio per cassazione è un giudizio a critica vincolata, nel quale le censure alla pronuncia di merito devono trovare collocazione entro un elenco tassativo di motivi, in quanto la Corte di cassazione (cfr. Cass. 28 novembre 2014 n. 25332) non è mai giudice del fatto in senso sostanziale ed esercita un controllo sulla legalità e logicità della decisione che non consente di riesaminare e di valutare autonomamente il merito della causa. Ne consegue che la parte non può limitarsi a censurare la complessiva valu-
tazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendovi la propria diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione degli accertamenti di fatto compiuti.
4.2. Infatti, il giudizio di cassazione (v. Cass. 22 settembre 2014 n. 19959) è un giudizio delimitato e vincolato dai motivi di ricorso, che assumono una funzione identificativa condizionata dalla loro formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi tassative formalizzate dal codice di rito. Ne consegue che il motivo del ricorso deve necessariamente possedere i caratteri della tassatività e della specificità ed esige una precisa enunciazione, di modo che il vizio denunciato rientri nelle categorie logiche previste dall’art. 360 cod. proc. civ., sicché è inammissibile la critica generica della sentenza impugnata, formulata con un unico motivo sotto una molteplicità di profili tra loro confusi e inestricabilmente combinati, non collegabili ad alcuna delle fattispecie di vizio enucleata dal codice di rito.
4.3. Il mezzo di impugnazione in disamina è inestricabilmente contraddittorio fin dalla sua formulazione, perché se vi è omessa motivazione non vi è omessa pronuncia e se la censura è declinata come vizio motivazionale non può logicamente e utilmente contenere anche una deduzione di violazione di legge, oltre che di omessa pronuncia da parte del giudice su parte della domanda.
Inoltre, la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato è stata dedotta con riferimento al n. 3 dell’art. 360 cod. proc. civ. primo comma mentre avrebbe dovuto essere censurata in relazione al n. 4, paradigma processuale pertinente ai fini della costruzione del motivo di ricorso.
4.4. Infine, il corpo della censura chiaramente prospetta una richiesta di rivalutazione del compendio probatorio che non può essere accolta in sede di legittimità.
Con il terzo e ultimo motivo di ricorso le ricorrenti denunciano l’ «omesso esame di un fatto decisivo della controversia -violazione e falsa applicazione degli artt. 99 e 112 cod. proc. civ. per la non corrispondenza tra chiesto e pronunciato».
6. Il motivo è inammissibile.
6.1. La doglianza, oltre a non individuare il paradigma processuale di censura rilevante, si riferisce ad un presunto vizio motivazionale e, allo stesso tempo, alla lamentata mancata corrispondenza tra chiesto e pronunciato, quest’ultima erroneamente denunciata con riferimento al n. 3 del primo comma dell’art. 360 cod. proc. civ..
6.2. Il motivo, nel quale non viene neppure indicato il fatto decisivo controverso il cui esame sarebbe stato omesso, è in realtà incentrato sulla denuncia dell’omessa pronuncia «in merito ai motivi di illegittimità dell’accertamento per errata e falsa applicazione dell’art. 41 bis d.P.R. 600/1973» (cfr. p. 13 del ricorso). Tale censura, che deduce l’illegittima applicazione dell’accertamento parziale, è inammissibile perché difetta di specificità, non dando prova della tempestiva proposizione della questione in primo grado e quindi nella riproposizione in appello.
Deve, dunque, essere data continuità al costante orientamento di questa Corte sui limiti di allegazione in sede di legittimità (cfr. già Cass. sentenza n. 12025 del 12/09/2000), secondo cui, laddove una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga detta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di Cassazione di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare nel merito la questione stessa.
In conclusione, il ricorso dev’essere rigettato e le spese di lite, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
La Corte:
rigetta il ricorso e condanna le ricorrenti in solido alla rifusione delle spese di lite, liquidate in favore della controricorrente in euro 5.900 per compensi, oltre spese prenotate a debito.
Si dà atto del fatto che, ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, sussistono i presupposti per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 24.4.2025