Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 12806 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 12806 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: CORTESI NOME
Data pubblicazione: 13/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso n.r.g. 11093/2021, proposto da:
RAGIONE_SOCIALE , in persona del Direttore pro tempore , rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura generale dello Stato e domiciliata presso i suoi uffici in ROMA, INDIRIZZO
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rapp.te pro tempore NOME COGNOME rappresentata e difesa, per procura speciale allegata al controricorso, dall’Avv. NOME COGNOME domiciliata presso il suo indirizzo di posta elettronica certificata
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 594/2021 della Commissione tributaria regionale della Campania, depositata il 20 gennaio 2021 e notificata il 9 marzo 2021;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 14 aprile 2025 dal consigliere dott. NOME COGNOME
Rilevato che:
L’Agenzia delle entrate notificò a RAGIONE_SOCIALE un avviso di accertamento con il quale riprendeva a tassazione maggiori ricavi -e conseguente maggior reddito d’impresa a fini Irap, Ires e Iva -per l’anno d’imposta 2013.
Tale avviso scaturiva da un accertamento condotto con metodo induttivo, sulla scorta di elementi rivelatori di incongruenza ed antieconomicità della redditività dell’impresa ; ne era derivata, in particolare, una rideterminazione dei costi, ricalcolati su una percentuale di incidenza dell’80% . Venivano inoltre recuperati costi non deducibili.
La contribuente impugnò l’avviso innanzi alla C.T.P. di Salerno, che respinse il ricorso.
Con la sentenza indicata in epigrafe, la C.T.R. della Campania, adìta con gravame della contribuente, ha integralmente riformato la precedente decisione.
I giudici d’appello hanno ritenuto fondate le doglianze della società in ordine alla carenza argomentativa dell’atto impositivo e della sentenza di primo grado, entrambi supportati da ll’assunto , indimostrato, in base al quale l’antieconomicità dell’attività d’impresa poteva desumersi dalla sproporzione fra volume d’affari e utile di esercizio.
Al contrario, secondo i giudici d’appello, era emerso che l’attività esercitata era in linea con quanto previsto dagli studi di settore di
riferimento, i ricavi erano congrui, l’analisi economica era normale e gli indici di coerenza erano risultati soddisfatti per dieci parametri su undici. Difettavano, pertanto, elementi dotati di gravità, precisione e concordanza tali da supportare l’accertamento induttivo disposto sul rilievo dell’ inattendibilità delle scritture contabili.
L’Agenzia delle entrate ha impugnato la sentenza d’appello con ricorso per cassazione affidato a due motivi.
La società contribuente ha resistito con controricorso.
Considerato che:
Il primo motivo denunzia nullità della sentenza per motivazione apparente.
L’Agenzia ricorrente, dopo aver riportato stralci della motivazione della sentenza impugnata, assume che i giudici d’appello avrebbero acriticamente recepito gli argomenti difensivi della contribuente, in particolare omettendo di svolgere considerazioni sul fatto che, a fronte di un utile di eserc izio per € 9.354,00, la società avesse dichiarato un volume d’affari di € 377.219,00.
Il secondo motivo denunzia violazione dell’art. 109 del TUIR e dell’art. 2697 cod. civ.
La sentenza impugnata è criticata laddove, pur in presenza di una situazione connotata da macroscopica antieconomicità e del riscontro di un utile assolutamente esiguo in rapporto agli ingenti costi sostenuti, ha ritenuto insussistente la denunziata incongruenza.
Secondo l’Agenzia delle entrate, inoltre, il ricorso all’accertamento induttivo doveva ritenersi legittimo sul rilievo dell’esiguità dell’utile , in mancanza di prova, da parte del contribuente onerato, delle relative ragioni.
Infine, i giudici d’appello avrebbero errato nel non considerare che, in punto ai costi recuperati a tassazione, la contribuente non aveva dato adeguata prova del requisito di inerenza.
Il primo motivo non è fondato.
3.1. Questa Corte ha ripetutamente affermato che il difetto di motivazione della sentenza ricorre allorquando il giudice -in violazione di un preciso obbligo di legge, costituzionalmente imposto (art. 111, comma sesto, Cost.) e fissato dall’art. 132, secondo comma, num. 4), cod. proc. civ. e dall’omologa previsione contenuta nell’art. 36, comma 2, n. 4), del d.lgs. n. 546/1992 per il processo tributario -omette di esporre (anche concisamente) i motivi in fatto e diritto della decisione.
Ciò si verifica quando il giudice non illustra le ragioni e l’iter logico seguito per pervenire alla decisione assunta, ovvero non chiarisce su quali prove ha fondato il proprio convincimento e sulla base di quali argomentazioni è pervenuto alla propria determinazione, in tal modo consentendo anche di verificare se abbia effettivamente giudicato iuxta alligata et probata , e senza che a tal fine l’interprete debba integrare la decisione con le più varie, ipotetiche congetture (v. Cass. n. 30178/2023; Cass. n. 5335/2018; Cass. n. 2876/2017).
È poi noto, in tal senso, che la sanzione di nullità colpisce non solo le sentenze del tutto prive di motivazione dal punto di vista grafico o quelle che presentano un «contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili» ovvero una «motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile» (cfr. Cass. Sez. U, n. 8053/2014), ma anche quelle sorrette da una motivazione che, dietro la parvenza di una giustificazione della decisione assunta, è tuttavia tale da non consentire «di comprendere le ragioni e, quindi, le basi della sua genesi e l’iter logico seguito per pervenire da essi al risultato enunciato» (così Cass. n. 4448/2014).
3 .2. Si è in presenza, dunque, di una ‘motivazione apparente’ quando la stessa, pur essendo graficamente (e, quindi, materialmente) esistente, non rende tuttavia percepibili le ragioni della decisione, perché consiste di argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l’iter logico seguito per la formazione del convincimento, di talché essa non consente alcun effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture, così da non attingere la richiamata soglia del ‘minimo costituzionale’.
In tale caso, la mera apparenza della motivazione è causa di nullità della sentenza, in quanto ne comporta il venir meno della finalità sua propria, che è quella di esternare un «ragionamento che, partendo da determinate premesse pervenga con un certo procedimento enunciativo», logico e consequenziale, «a spiegare il risultato cui si perviene sulla res decidendi » (così Cass., Sez. U, n. 22232/2016).
3.3. Tale situazione non si è configurata nel caso di specie.
La motivazione della sentenza, infatti, è pienamente comprensibile; i giudici d’appello, in particolare, dopo aver preannunziato la sussistenza di una ‘ragione più liquida’ idonea a supportare la statuizione sulla vicenda, hanno evidenziato i motivi per i quali hanno ritenuto che non sussistesse l’ incongruenza ravvisata dall’Ufficio quale presupposto per l’ accertamento condotto con metodo induttivo.
In tal senso, del resto, è significativo il fatto che la ricorrente abbia potuto contestare tale decisione nel merito, con argomenti che ne designano la piena comprensibilità.
È invece fondato il secondo motivo.
4.1. La giurisprudenza di questa Corte afferma da tempo che i ricavi possono essere ritenuti falsi in base alla loro sproporzione per difetto rispetto ai costi, ed in tale contesto è ammissibile un accertamento di tipo induttivo, il quale tenga conto delle poste passive indicate dal contribuente, per ricostruire i ricavi effettivi; trattasi, in tal caso, non già di accertamento induttivo tout court , ma di accertamento analitico – induttivo, che è sempre legittimo quando l’esposizione dei ricavi sia talmente ridotta, rispetto ai costi, da condurre a ritenere antieconomica la gestione (in termini, più di recente, Cass. n. 9664/2024; si vedano anche, fra le altre, Cass. n. 23550/2014; Cass. n. 16642/2011; Cass. n. 26130/2007; Cass. n. 21165/2005).
Costituisce, altresì, principio consolidato quello secondo cui, una volta contestata dall’Erario l’antieconomicità di un comportamento posto in essere dal contribuente, poiché assolutamente contrario ai canoni dell’economia, incombe sul medesimo contribuente l’onere di fornire, al riguardo, le necessarie spiegazioni, essendo – in difetto pienamente legittimo il ricorso all’accertamento induttivo da parte dell’amministrazione, ai sensi degli artt. 39 del d.P.R. n. 600/1973 e 54 del d.P.R. n. 633/1972 (cfr., fra le altre, Cass. n. 35713/2022; Cass. n. 21128/2021).
4.2. La sentenza impugnata si è discostata da tali principii.
Per un verso, infatti, i giudici d’appello hanno ritenuto che il rilievo della sproporzione dei costi non giustificasse, di per sé solo, il ricorso erariale all’accertamento ex art. 39 .
Per altro verso, poi, pur emergendo dal testo dell’atto impositivo che l’Ufficio aveva rappresentato alla contribuente l’elevatissima incidenza dei costi e un utile assai modesto a fronte del volume d’affari accertato, senza ricevere indicazioni al riguardo, essi non hanno
condotto il loro accertamento nel rispetto dell’indicato criterio di riparto dell’onere della prova .
La fondatezza del motivo comporta l’accoglimento del ricorso in parte qua ; consegue la cassazione della sentenza impugnata, con rinvio al giudice d’appello , affinché, in diversa composizione, decida uniformandosi ai richiamati principii, provvedendo anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso in relazione al secondo motivo, respinto il primo, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte di Giustizia tributaria di secondo grado della Campania -sezione staccata di Salerno.
Così deciso in Roma, il 14 aprile 2025.