Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 16898 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 16898 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 24/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 7233/2022 R.G. proposto da:
COGNOME rappresentato e difeso, per procura speciale a margine del ricorso, dall’avv. NOME COGNOME (pec: avv.EMAIL);
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE , in persona del Direttore pro tempore , rappresentata e difensa dell’Avvocatura Generale dello Stato (pec:
Oggetto
: TRIBUTI –
accertamento induttivo
EMAIL), presso cui è elettivamente domiciliata in Roma, alla INDIRIZZO
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 7208/02/2021 della Commissione tributaria regionale della SICILIA, depositata in data 11/08/2021;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio non partecipata del 24 aprile 2025 dal Consigliere relatore dott. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
La controversia ha ad oggetto l’impugnazione di un avviso di accertamento di un maggior reddito d’impresa ai fini IRES, IRAP ed IVA che l’amministrazione finanziaria emetteva nei confronti della ditta NOME COGNOME esercente attività di ‘bar e caffè’ per l’anno d’imposta 2006. La CTP accoglieva il ricorso del contribuente. Con la sentenza in epigrafe indicata la CTR accoglieva l’appello dell’Agenzia delle Entrate. Il giudice di appello riteneva corretto l’espletamento dell’accertamento induttivo da parte dell’Ufficio in ragione della mancata presentazione della dichiarazione dei redditi per l’anno di riferimento e corretta la ricostruzione del reddito effettuata prendendo a base quello dichiarato nell’anno precedente dovendosi ritenere costanti i ricavi nel corso del tempo.
Avverso tale statuizione il contribuente propone ricorso per cassazione affidato a quattro motivi, cui l’Agenzia delle Entrate replica con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo mezzo di cassazione il ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 36 del d.lgs. n. 546 del 1992, per non avere il giudice d’appello spiegato i motivi per i quali ha ritenuto e dichiarato legittima e fondata la ricostruzione induttiva dei presunti ricavi
accertati basati sulla comunicazione annuale dei dati IVA per il periodo dal 15/02/2005 al 31/12/2005, in assenza di dichiarazione dei redditi per l’anno di imposta 2006, nonostante le puntuali eccezioni di parte privata in merito.
Con il secondo motivo di ricorso deduce ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la «Violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c. nonché violazione e/o falsa applicazione delle norme di cui all’art. 39 co. 2 del D.P .R. n. 600/73», per avere la CTR omesso di verificare se l’Agenzia delle Entrate aveva fornito la prova della legittimità e della fondatezza della pretesa erariale contenuta nell’avviso di accertamento prima di richiedere all’istante la prova del contrario e per avere del tutto ignorato le argomentazioni di parte privata, relative alla totale assenza di attività per l’anno in questione, provata dalla scadenza delle licenze cui l’attività di bar era collegata e dalla cessazione della partita IVA.
Con il terzo motivo di ricorso viene dedotta ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973, per non avere la CTR considerato l’avviso di accertamento privo di motivazione.
Con il quarto motivo di ricorso il ricorrente lamenta ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ., in quanto la CTR non ha condannato l’Agenzia al pagamento delle spese legali.
Ragioni di ordine logico giuridico impongono il preliminare esame del terzo motivo di ricorso, incentrato sul difetto di motivazione dell’avviso di accertamento impugnato, che è infondato e va rigettato.
5.1. Per consolidato orientamento di questa Corte l’avviso di accertamento tributario ha carattere di “provocatio ad opponendum”, sicché l’obbligo di sua motivazione è soddisfatto ogni qualvolta l’Amministrazione abbia posto il contribuente in grado di
conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali, e, quindi, di contestarne efficacemente l'”an” ed il “quantum debeatur” (cfr., ex multis , Cass. n. 730/2025; n. 9008/2017).
5.2. In buona sostanza, l’obbligo motivazionale dell’accertamento è assolto quando il contribuente è stato posto nella condizione di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali, al fine di contestare efficacemente l’an ed il quantum dell’imposta; ne consegue, quindi, che il requisito motivazionale esige, oltre alla puntualizzazione degli estremi soggettivi e oggettivi della posizione creditoria dedotta, soltanto l’indicazione dei fatti astrattamente giustificativi di essa per delimitare l’ambito delle ragioni adducibili dall’ente impositore nell’eventuale successiva fase contenziosa, restando, poi, affidate al giudizio di impugnazione dell’atto le questioni riguardanti l’effettivo verificarsi dei fatti stessi e la loro idoneità a dare sostegno alla pretesa impositiva.
5.3. Ed è quanto accaduto nel caso di specie in cui, in situazione di omessa presentazione della dichiarazione reddituale, l’Agenzia delle entrate ha ricostruito il reddito della ditta accertata sulla base di quanto dichiarato nell’anno d’imposta precedente e di ciò ha espressamente dato atto nell’atto impositivo, che è allegato al ricorso, in tal modo assolvendo all’onere motivazionale e restando riservata all’eventuale successivo giudizio impugnatorio l’accertamento della fondatezza di tale pretesa.
Il primo e secondo motivo di ricorso, che possono essere esaminati congiuntamente in quanto strettamente connessi tra loro, sono inammissibili ed infondati.
6.1. Nel primo motivo il ricorrente censura la sentenza impugnata per difetto assoluto di motivazione in quanto i giudici di appello non avrebbero tenuto in considerazione la circostanza relativa al mancato svolgimento dell’attività nell’anno d’imposta accertato, dedotta nei
giudizi di merito e documentata attraverso la produzione della dichiarazione di cessazione della partita IVA, dell’attestazione del Comune di Piraino del 19/06/2006, in cui si attesta che l’attività di somministrazione all’interno del villaggio turistico ove aveva sede l’attività non era più esercitata dal contribuente a far data dal 31/12/2005, dalla licenza rilasciata al contribuente avente scadenza alla data del 31/12/2005 e dalla licenza rilasciata, invece, ad altro soggetto, tale NOME COGNOME con scadenza al 31/12/2006.
6.2. Nel secondo motivo sostiene che era onere dell’amministrazione finanziaria fornire la prova della legittimità e della fondatezza della pretesa erariale contenuta nell’avviso di accertamento prima di richiedere al contribuente la prova del contrario.
6.3. Afferma, inoltre, sotto il diverso profilo della violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., che la CTR aveva del tutto ignorato la circostanza che nell’anno d’imposta accertato il contribuente non aveva svolto alcuna attività, come risultante dalla scadenza delle licenze cui l’attività di bar era collegata e dalla cessazione della partita IVA.
Orbene, la censura di omessa motivazione è manifestamente infondata atteso che è sufficiente una semplice lettura della sentenza impugnata per appurare come la stessa esibisca una motivazione effettiva, sia dal punto di vista grafico che contenutistico, ben al di sopra del minimo costituzionale, ex art. 111, sesto comma, Cost., idonea a palesare il ragionamento logico-giuridico ad esso sotteso, dovendosi per l’effetto escludersi ogni ipotesi di omessa motivazione o di motivazione meramente apparente (arg. da Cass., Sez. U, n. 8053/2014).
Manifestamente infondata è anche la violazione dell’art. 2697 cod. civ. dedotta nel secondo motivo di ricorso, posto che «La violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c. si configura nell’ipotesi
in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era gravata in applicazione di detta norma, non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, abbia ritenuto erroneamente che la parte onerata avesse assolto tale onere, poiché in questo caso vi è un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c.» (Cass. n. 17313/2020; conf. Cass. n. 26739/2024). A ciò aggiungasi che l’amministrazione finanziaria ha correttamente fornito la prova della pretesa erariale, fondata sulla ricostruzione induttiva del reddito d’impresa per omessa presentazione della dichiarazione annuale, e che, pertanto, spettava al contribuente fornire la prova dell’infondatezza di tale pretesa.
Sotto tale ultimo profilo, sostiene il ricorrente, in entrambi i motivi, di aver provato l’infondatezza della pretesa erariale depositando in giudizio documentazione che attestava il mancato esercizio dell’attività nell’anno oggetto di accertamento, che però i giudici di appello avevano del tutto omesso di valutare.
9.1. La censura formulata sia nel primo che nel secondo motivo è però inammissibile perché la stessa, come si è sopra anticipato richiamando Cass. n. 17313/2020, doveva essere proposta attraverso il corretto paradigma normativo, ovvero mediante la deduzione del vizio logico di motivazione ex art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., per avere i giudici di appello omesso l’esame di un fatto storico risultante dagli atti processuali, che abbia formato oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo. Il ricorrente ha invece dedotto, nel primo motivo, la nullità della sentenza impugnata per difetto assoluto di motivazione, che è detto del tutto infondato, e, nel secondo motivo, la violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. Ma anche tale censura è infondata posto che, secondo un consolidato
orientamento di questa Corte (cfr. Cass. n. 6774/2022; n. 26739/2024) una censura relativa alla violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. può porsi soltanto se si alleghi che il giudice di merito abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione, e non per dedurre una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito o, come nel caso di specie, l’omessa considerazione di specifiche circostanze di fatto.
10. Ciò precisato, pare necessario osservare che i motivi, pur ove riconvertiti nel vizio di cui al n. 5 del primo comma dell’art. 360 cod. proc. civ., alla stregua di Cass., Sez. Un., n. 17931 del 2013 (richiamata anche in Cass., Sez. U, n. 1785 del 2018, par. 4.1.3.), non si sottraggono comunque al vizio di inammissibilità per difetto di specificità degli stessi, avendo il ricorrente del tutto omesso di indicare il momento ed il luogo di produzione della documentazione cui ha fatto riferimento nelle due censure, che non è desumibile né dal contenuto del ricorso né dagli atti depositati, non facendosi menzione di tali documenti né nel ricorso di primo grado, né nelle controdeduzioni depositate in appello, allegati al ricorso in esame.
11. Manifestamente infondato è il quarto motivo di ricorso con cui si deduce l’erroneità della statuizione sulle spese processuali adottata dai giudici di appello, che, invece, è rispettosa sia del principio di soccombenza, che regola le spese di lite, sia del disposto di cui all’art. 15, comma 2-sexies, del d.lgs. n. 546 del 1992. Al riguardo questa Corte ha recentemente riaffermato che « Nel processo tributario, all’Amministrazione finanziaria che sia stata assistita in giudizio da propri funzionari o da propri dipendenti, in caso di vittoria della lite,
spetta la liquidazione delle spese, la quale deve essere effettuata mediante applicazione della tariffa ovvero dei parametri vigenti per gli avvocati, con la riduzione del venti per cento dei compensi ad essi spettanti, atteso che l’espresso riferimento ai compensi per l’attività difensiva svolta, ora contenuto nell’art. 15, comma 2-bis, del d.lgs. n. 546 del 1992, ma comunque da sempre previsto da detto articolo, conferma il diritto dell’ente alla rifusione dei costi sostenuti e dei compensi per l’assistenza tecnica fornita dai propri dipendenti che siano legittimati a svolgere attività difensiva nel processo» (Cass. n. 1019/2024).
In estrema sintesi, il ricorso va rigettato ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali nella misura liquidata in dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese processuali che liquida in euro 5.900,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 24 aprile 2025.