Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 11087 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 5 Num. 11087 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 28/04/2025
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 21950/2018 R.G. proposto da:
COGNOME (CODICE_FISCALE, rappresentato e difeso per procura speciale in atti dall’avv. NOME COGNOME del foro di Roma ed elettivamente domiciliato presso lo studio di quest’ultimo, in INDIRIZZO
-ricorrente –
CONTRO
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Direttore generale pro tempore , rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, INDIRIZZO, è domiciliata;
-controricorrente – avverso la sentenza n. 377/2018 della Commissione tributaria regionale del Lazio, depositata in data 25.1.2018;
udita la relazione svolta alla pubblica udienza del giorno 19.3.2025 dal Cons. NOME COGNOME udito il P.M. in persona del Sostituto
Procuratore Generale NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito per il ricorrente l’avv. NOME COGNOME udito per la controricorrente l’Avvocato dello Stato NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
1.Con avviso di accertamento n. NUMERO_DOCUMENTO/2014, preceduto da invito a comparire n. TK7I00042/2012, l’Agenzia delle Entrate Direzione provinciale di Roma, accertava nei confronti di COGNOME NOME, medico odontoiatra, compensi non dichiarati per euro 10.758,00 per l’anno di imposta 2009 e procedeva al recupero a tassazione delle imposte Irpef e Irap evase.
La Commissione Tributaria Provinciale di Roma, adita dal COGNOME -il quale lamentava il difetto di contraddittorio endoprocedimentale, l’assenza dei presupposti per l’accertamento induttivo ed il difetto di motivazione dell’atto impugnato -respingeva il ricorso e condannava il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
La Commissione Tributaria Regionale del Lazio, (d’ora in poi C.T.R.) respingeva il gravame proposto dal COGNOME, ritenendo condivisibile la statuizione adottata in primo grado e precisando, previo riassunto del contenuto dei motivi di gravame, che il principio del contraddittorio endoprocedimentale era stato rispettato a mezzo dell’invito a comparire; che gli elementi evidenziati dagli accertatori integravano i presupposti per procedere all’accertamento induttivo, di cui all’art. 39, comma 1, lettera d) del d.p.r. n. 600/73 e che ricadeva pertanto sul contribuente l’onere della prova contraria; che le fatture inserite dall’appellante nel rigo G09 della dichiarazione erano state correttamente inserite dall’A.F. nel rigo G07.
2.Avverso la precitata sentenza COGNOME Massimo ha proposto ricorso, basato su cinque motivi.
L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con primo motivo -rubricato « difetto di motivazione : violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della legge n. 241/1990 (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.); violazione e falsa applicazione degli articoli 5, 6, 7, 10 e 12 della legge 212/2000 (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.) e dell’art. 32, quarto comma, D.P.R. 600/73. Omesso esame di circa un fatto decisivo della controversia (art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.)» – il ricorrente lamenta una prolissa pseudo ricostruzione dei presupposti giuridici della controversia, integrante motivazione meramente apparente, poiché non chiarirebbe in alcun modo quale sarebbe stata la condotta del ricorrente che aveva giustificato l’accertamento. Assume che la motivazione contenuta a pagina 4 della sentenza impugnata, di cui riporta uno stralcio, sarebbe concettualmente inconsistente, essendo priva di agganci alla concreta vicenda sottoposta all’esame del giudice.
Il motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.
Innanzitutto va ricordato che, ai sensi dell’art. 360, comma 4, c,p,c,. « Quando la pronuncia di appello conferma la decisione di primo grado per le stesse ragioni, inerenti ai medesimi fatti, poste a base della decisione impugnata, il ricorso per cassazione può essere proposto esclusivamente per i motivi di cui al primo comma, numeri 1), 2), 3) e 4). Tale disposizione non si applica relativamente alle cause di cui all’articolo 70, primo comm a». Ne consegue che il vizio di ‘omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti’ non può essere fatto valere, a meno che la parte non dimostri, mediante trascrizione e raffronto delle motivazioni delle sentenze di primo e secondo grado, che le rispettive decisioni non si fondano sulle stesse ragioni inerenti ai medesimi fatti, onere che la parte ricorrente non ha assolto. La doglianza è pertanto per tale parte inammissibile.
Per quanto attiene invece al lamentato difetto di motivazione, va rilevato che, essendosi in presenza di una sentenza e dunque di un atto giurisdizionale, non può neppure ipotizzarsi la dedotta violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990, né la violazione dello Statuto del contribuente, trattandosi di norme riguardanti gli atti amministrativi, dal che l’infondatezza della doglianza.
Con il secondo motivo -rubricato « mancato espletamento del contraddittorio preventivo: violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della legge n. 241/1990 (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.; violazione e falsa applicazione degli articoli 5, 6, 7, 10 e 12 della legge 212/2000 (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.); dell’art. 12 della legge n. 212/2000, dell’art. 32, quarto comma, D.P.R. 600/73. Omesso esame di circa un fatto decisivo della controversia (art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.)» deduce che, a seguito della produzione della documentazione richiesta, l’Ufficio si era limitato a spiccare l’avviso di accertamento impugnato, senza alcuna forma di vero contraddittorio. La C.T.R. aveva dunque erroneamente affermato che il contraddittorio era stato concretamente instaurato, giusto l’invito a comparire e, in risposta allo stesso, l’esibizione della documentazione richiesta. Tale motivazione, a dire del ricorrente, sarebbe del tutto erronea già nella forma sintattica, posto che nella frase manca il soggetto dell’azione, il che evidenzierebbe anche la fragilità della pretesa erariale, ma sarebbe erronea anche sotto il profilo sostanziale, atteso che si tratterebbe di mere formule di stile, visto che non ne scaturiva alcuna conseguenza concreta sulla posizione del ricorrente. Piuttosto, un contraddittorio avrebbe potuto ritenersi sussistente solo se dopo il deposito dei documenti l’Ufficio avesse comunicato in anticipo le contestazioni che avrebbe inteso poi riportare nell’avviso di accertamento e ciò non era avvenuto, con la conseguenza che l’atto era viziato ab origine per totale assenza di contraddittorio.
Il motivo è inammissibile. Anche in questo caso va ricordato che, ai sensi dell’art. 360, comma 4, c,p,c,. « Quando la pronuncia di appello conferma la decisione di primo grado per le stesse ragioni, inerenti ai medesimi fatti, poste a base della decisione impugnata, il ricorso per cassazione può essere proposto esclusivamente per i motivi di cui al primo comma, numeri 1), 2), 3) e 4). Tale disposizione non si applica relativamente alle cause di cui all’articolo 70, primo comm a». Ne consegue che il vizio di ‘omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti’ non può essere fatto valere, a meno che la parte non dimostri, mediante trascrizione e raffronto delle motivazioni delle sentenze di primo e secondo grado, che le rispettive decisioni non si fondano sulle stesse ragioni inerenti ai medesimi fatti, onere che la parte ricorrente non ha assolto.
Inoltre, il motivo non si confronta con le ragioni argomentative esposte nella sentenza impugnata. Invero, la C.T.R., oltre ad affermare che il contraddittorio preventivo era stato garantito mediante l’invito a comparire, ha altresì dato conto nella motivazione che l’accertamento non si è basato esclusivamente sugli studi di settore, ma anche sull’esame della situazione economico finanziaria, finalizzata a commisurare la sua concreta realtà economica, evidenziando che vi erano numerosi elementi idonei a ritenere non congruo il reddito dichiarato, quali il riscontro di un’attività diversa da quella dichiarata, l’indicazione, nella sezione dei beni strumentali dello studio di settore presentato, di un numero di cespiti inferiore rispetto a quello indicato nello studio di settore dell’anno successivo, nonché modalità di fatturazione non rispondenti al disposto di cui all’art, 21 del d.p.r. 633/72, circostanza quest’ultima – precisa la C.T.R.-, integrante grave irregolarità che legittima l’amministrazione finanziaria a ricorrere all’accertamento induttivo del reddito imponibile, ai sensi dell’art. 39, comma 1, lettera d) del D.P.R. 600/73. Tale completa
ricostruzione, non efficacemente contrastata dalla doglianza formulata dal ricorrente, rende conto di un’attività accertativa riconducibile al paradigma dell’art. 39, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 600 del 1973, per il quale non è previsto il contraddittorio endoprocedimentale, trattandosi di accertamento ‘a tavolino’ riguardante tributi non armonizzati (cfr. Sezioni Unite n. 24823/2015) e rispetto alla quale l’analisi standardizzata opera in funzione ad un tempo di conferma degli indici stessi e di completamento della ricostruzione analitico induttiva dei ricavi.
Con il terzo motivo -rubricato « Difetto di motivazione sulla esatta individuazione dello studio di settore: violazione e falsa applicazione degli articoli 112 e seguenti del codice di procedura civile (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.). Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio (art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c .» -il ricorrente sostiene che a, fronte della deduzione, contenuta a pagina 2 dell’atto di appello, secondo cui « aveva compilato correttamente lo studio di settore esattamente corrispondente al codice di attività ATECO denunciato all’Agenzia delle Entrate per il periodo di imposta 2009, cioè lo studio TARGA_VEICOLO », la C.T.R. si sarebbe limitata ad affermare apoditticamente che « era stata materialmente riscontrata una tipologia di attività ( studi odontoiatrici) diversa da quella dichiarata (altri studi medici specialistici e poliambulatori)» , senza fornire una risposta, anche sintetica ed anzi limitandosi al prevedibile quanto illegittimo ‘copia incolla’ delle deduzioni dell’Erario. Sarebbe pertanto evidente la violazione del principio che impone al giudice di pronunciare su tutte le domande azionate.
Il motivo è inammissibile. Secondo la tesi del ricorrente la motivazione della sentenza in merito allo studio di settore da esso compilato integrerebbe al contempo un’omessa pronuncia ed una motivazione apparente.
Questa Corte ha più volte chiarito che ricorre la violazione dell’articolo 112 cod. proc. civ. quando manchi del tutto la pronuncia del giudice del merito (cd. omessa pronuncia) sulla domanda (o su un capo di essa) o su un’eccezione ritualmente proposte: «i vizi di omessa pronuncia e di omessa motivazione su un punto decisivo della controversia sono assai diversi. Con il primo si lamenta la completa omissione del provvedimento indispensabile per la soluzione del caso concreto che deve essere fatta valere esclusivamente a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per violazione dell’art. 112 c.p.c., (quindi, né con la denuncia di violazione di norme di diritto sostanziale né attraverso il vizio di motivazione). Il secondo, invece, presuppone che la questione oggetto di doglianza sia stata presa in esame dal giudice di merito, ma in modo non corretto, cioè senza adeguata motivazione, e va denunciato ricorrendo all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Dopo la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omessa pronunzia deve sostanziarsi nella totale carenza di considerazione della domanda e dell’eccezione sottoposta all’esame del giudice, il quale manchi completamente di adottare un qualsiasi provvedimento, quand’anche solo implicito di accoglimento o di rigetto, invece indispensabile per la soluzione del caso concreto; al contrario, il vizio motivazionale previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, presuppone che un esame della questione oggetto di doglianza via sia stato, ma che esso sia affetto dalla totale pretermissione di uno specifico fatto storico oppure si sia tradotto nella mancanza assoluta di motivazione, nella motivazione apparente, nella motivazione perplessa o incomprensibile o nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili»(Cass. 04/08/2021, n. 22204, Cass. n. 27551/2024).
Il motivo è pertanto inammissibile, atteso che con esso si deducono vizi tra loro incompatibili.
Con il quarto motivo -rubricato « violazione e falsa applicazione degli articoli 62 bis e seguenti del D.L. 30 agosto 1993 n. 331 convertito in Legge 29 ottobre 1993 n. 427 ( art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.)» -si assume che la C.RAGIONE_SOCIALE avrebbe errato a ritenere corretto l’operato dell’ufficio, in quanto esso ricorrente aveva correttamente scelto lo studio di settore relativo agli studi medici specialistici, semplicemente perché nel periodo controverso svolgeva la propria attività di odontoiatra all’interno di uno studio medico polispecialistico. Osserva, al riguardo, che tra i due studi di settore non vi era invero alcuna differenza sostanziale, se non quella relativa al diverso regime dei beni strumentali e che al più poteva ritenersi integrato un mero errore materiale, che non poteva certo scatenare l’aggressione dell’Erario, che si fonda quasi sempre su meri pretesti. Il pretesto sarebbe, nel caso di specie, costituito da due fatture di spesa, relative all’acquisto di materiale odontoiatrico, che la C.T.R. riteneva irrilevanti ai fini della determinazione del reddito laddove invece la questione riguardava la congruità o meno dello studio di settore, che sarebbe risultato congruo se le fatture fossero state correttamente qualificate indicatori di costo per beni acquistati.
Il motivo è inammissibile, atteso che la Corte di cassazione non è legittimata a compiere una rivalutazione degli atti processuali, dei fatti o delle prove, potendo solo controllare che la motivazione della sentenza oggetto di impugnazione sia lineare e scevra di vizi logici. (cfr. Cass. Civ. ordinanza 20 luglio 2021, n. 20753). Peraltro, è la stessa parte ricorrente ad evidenziare che i due studi di settore presentano un diverso regime dei beni strumentali, il che integra di per sé una sostanziale differenza, né spiega per quale motivo un soggetto che pacificamente svolge l’attività di odontoiatra dovrebbe utilizzare uno studio di settore diverso da quello specificamente previsto per la suddetta attività sol perché esercitata all’interno di un poliambulatorio.
Con il quinto motivo -rubricato « erroneità della sentenza nella parte in cui ha omesso di compensare le spese di lite. Violazione e falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c. (art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.). Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio ( art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.)» -il ricorrente lamenta la rigida applicazione della regola della soccombenza da parte della C.T.R., evidenziando che, a prescindere dall’esito del giudizio, sussistevano ampie e giustificate ragioni che avrebbero potuto e dovuto condurre ad una statuizione di compensazione delle spese processuali, ragioni che potevano essere compendiate, ad esempio, nella particolare complessità e novità delle questioni trattate, nonché negli elementi istruttori acquisiti, che rendevano certamente non temeraria la sua posizione processuale ovvero ancora nella circostanza per cui l’instaurazione della lite era riconducibile anche alla negligenza della controparte. Inoltre, la C.T.R. aveva omesso di adottare una specifica motivazione a fondamento della condanna al pagamento delle spese processuali e neppure aveva tenuto conto della prassi secondo cui, in caso di soccombenza dell’amministrazione finanziaria, la regola solitamente applicata era quella della compensazione o al più di una condanna meramente simbolica.
Il motivo è inammissibile. Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, mentre l’esercizio da parte del giudice di merito del potere di disporre la compensazione è stato, nel tempo, sottoposto a un controllo stringente (dalla formulazione dell’art. 92 c.p.c., alla riforma contenuta nella I. 28 dicembre 2005 n. 263 a quella della legge 18 giugno 2009 n. 69 sino al d.l. 12 settembre 2014 n. 132), con conseguente sindacabilità della motivazione posta a base dell’esercizio di quel potere, il mancato esercizio dello stesso non può essere dedotto quale motivo di illegittimità della pronuncia di merito che ha applicato il principio della soccombenza ( ex plurimis , Cass. n. 4750/2018).
Il ricorso va conclusivamente rigettato.
Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso;
condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 2.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 19.3.2025.