Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 18762 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 5 Num. 18762 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 09/07/2025
Accertamento induttivo
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 15277/2017 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME in forza di procura in calce al ricorso, elettivamente domiciliata in Roma alla INDIRIZZO
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Direttore pro tempore , domiciliata in Roma alla INDIRIZZO presso l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende;
-controricorrente –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania n. 11685/2016 depositata in data 21/12/2016; udita la relazione della causa tenuta nella pubblica udienza del 23/05/2025 dal consigliere dott. NOME COGNOME udito il sostituto Procuratore generale, dott. NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso; uditi l’Avv. COGNOME e l’avv. COGNOME per l’Avvocatura Generale dello Stato.
FATTI DI CAUSA
L’ Agenzia delle entrate, Direzione provinciale di Benevento, emetteva avviso di accertamento con metodo induttivo nei confronti della società RAGIONE_SOCIALE per l ‘ anno di imposta 2009, recuperando maggiori ricavi rilevanti a fini Ires, Irap e Iva, determinati in base a una percentuale di ricarico del 15 per cento rispetto ai costi.
La Commissione tributaria provinciale di Benevento (CTP) accoglieva il ricorso ritenendo che la mancata risposta al questionario fosse giustificata dalla mancata prova della corretta notifica dell’invito a esibire la documentazione contabile e che fosse ingiustificato l’utilizzo della percentuale di redditività del 15% applicata dall’ufficio.
La Commissione tributaria regionale della Campania (CTR) accoglieva l’appello erariale e, riformando la sentenza di primo grado, rigettava il ricorso introduttivo della società contribuente, compensando le spese di lite.
In particolare riteneva che dai documenti prodotti dall’ufficio emergesse la prova della rituale notifica dell’invito a produrre documentazione al legale rappresentante della società e che ciò quindi legittimasse il ricorso all’accertamento induttivo ai sensi dell’art. 39, comma 2, lettera d)bis d.P.R. n. 600 del 1973; che la mancata produzione di documentazione determinava in generale un sospetto in ordine all’attendibilità delle scritture rendendo grave la presunzione delle attività non dichiarate, desumibile dal raffronto tra le percentuali
di ricarico applicate e quelle medie del settore; evidenziava che nel caso di specie l’ufficio aveva applicato una percentuale di redditività del 15% ai dati contenuti nel bilancio di esercizio presentato dalla società alla Camera di Commercio; tale percentuale era quella normalmente praticata nel settore di appartenenza e trovava la sua fonte nel d.P.C.M. del 28 luglio 1989; evidenziava ancora che i primi giudici non avevano correttamente applicato il principio di ripartizione dell’onere della prova in quanto in caso di accertamento induttivo l’ufficio può legittimamente ricostruire i ricavi d ‘ impresa sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o di cui sia venuto a conoscenza, gravando poi sul contribuente l’onere di provare la ricorrenza di elementi atti a dimostrare che il reddito presuntivamente definito non sia stato prodotto o sia stato prodotto in misura inferiore; che ciò nel caso di specie non era avvenuto in quanto il contribuente non aveva fornito specifici elementi atti a personalizzare lo scostamento derivante dalla considerazione della percentuale di settore.
Contro tale sentenza la società contribuente propone ricorso affidato a otto motivi.
L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso.
La causa è stata rimessa alla pubblica udienza del 23/05/2025.
Il PM, in persona del sostituto Procuratore generale dott. NOME COGNOME, ha rassegnato conclusioni scritte per il rigetto del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Occorre premettere che i motivi di ricorso devono essere individuati in quelli, numerati, elencati ed esposti dalla pagina 4 in poi del medesimo, essendo da considerare generico e inammissibile il richiamo ai motivi di appello di cu a pagina 3 e, al più, rappresentando una mera sintesi dei successivi motivi i generici capi A) e B) di pagina 3.
Con il primo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5) c.p.c., si deduce insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, deducendo una erronea percezione dei fatti di causa e la mancanza di prova delle affermazioni dell’ufficio, censurando la percentuale di redditività e contestando il metodo accertativo dell’agenzia .
2.1. Il motivo è inammissibile per plurime concorrenti ragioni.
In primo luogo, in seguito alla riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., disposta dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica del rispetto del «minimo costituzionale» richiesto dall’art. 111, sesto comma, Cost., che viene violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero si fondi su un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, o risulti perplessa ed obiettivamente incomprensibile, purché il vizio emerga dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (Cass., Sez. U., 7/04/2014, n. 8053; Cass. 3/03/2022, n. 7090).
In secondo luogo, il motivo è inammissibile perché, anche a voler prescindere dalla rubrica, il mezzo espone critiche in fatto ed in diritto, queste ultime sia di carattere sostanziale che processuale, contemporaneamente e senza alcuna gradazione o distinzione tra loro, dando luogo ad una sostanziale mescolanza e sovrapposizione di censure, con l’inammissibile prospettazione della medesima questione sotto profili incompatibili (Cass. 23/10/2018, n. 26874; Cass. 23/09/2011, n. 19443; Cass. 11/04/2008, n. 9470), non risultando specificamente separati la trattazione delle doglianze relative
all’interpretazione o all’applicazione delle norme di diritto appropriate alla fattispecie e dei profili attinenti alla ricostruzione del fatto (Cass. 11/04/2018, n. 8915; Cass. 23/04/2013, n. 9793).
Si tratta quindi di censure non ontologicamente distinte dalla stessa ricorrente e non autonomamente individuabili, senza un inammissibile intervento di selezione e ricostruzione del mezzo d’impugnazione da parte di questa Corte.
Con il secondo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3) c.p.c., si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 53, 57 e 58 del d.lgs. n. 546 del 1992 e dell’art. 342 c.p.c.
3.1. La società ricorrente espone diverse censure, tutte di ordine processuale.
Con la prima si duole dell’errore dei giudici che non hanno ritenuto inammissibile l’appello erariale per l ‘ assoluta genericità delle censure essendosi l’Agenzia limitata a riprodurre i motivi dell’accertamento senza sottoporre a vaglio critico la sentenza della Commissione tributaria provinciale.
La censura è infondata, poiché per costante orientamento di questa Corte, nel processo tributario , ove l’Amministrazione finanziaria si limiti a ribadire e riproporre in appello le stesse ragioni ed argomentazioni poste a sostegno della legittimità del proprio operato, come già dedotto in primo grado, in quanto considerate dalla stessa idonee a sostenere la legittimità dell’avviso di accertamento annullato (come affermato dalla stessa odierna ricorrente), è da ritenersi assolto l’onere d’impugnazione specifica previsto dall’art. 53 del d.lgs. n. 546 del 1992 (Cass. 25/02/2022, n. 6309; Cass. 22/03/2017, n. 7369; Cass. 29/02/2012, n. 3064).
Con la seconda censura si deduce che l’appello era inammissibile non avendo l’ufficio impugnato tutte le ragioni che avevano indotto la CTP ad accogliere il ricorso originario.
La censura è inammissibile, poiché a fronte della chiara esposizione della CTR dalla quale emerge che i primi giudici avevano annullato l’avviso nel merito, statuizione censurata dalla difesa erariale, la stessa ricorrente non indica alcuna altra concorrente ratio decidendi della sentenza di primo grado.
Con la terza censura si deduce che l’appello era inammissibile anche ai sensi dell’art. 57, comma 1, d.lgs. n. 546 del 1992 in quanto in sede di appello l’Agenzia non può proporre per la prima volta eccezioni processuali e di merito mai proposte durante il processo di primo grado.
La censura è inammissibile, perché formulata in modo del tutto astratto e senza neanche indicare quali siano le doglianze nuove evidenziate dall’ufficio nel proprio atto di appello.
Con un ‘ ulteriore censura si deduce la violazione dell’art. 58, comma 1, d.lgs. n. 546 del 1992, che prevede il divieto di nuove prove disposte dal giudice.
Anche tale censura è del tutto inammissibile in quanto si limita alla mera indicazione della norma che asserisce violata ma senza specificare quali siano le nuove prove introdotte dal giudice nel processo di appello, circostanza che non risulta evidenziata dalla sentenza né evincibile dalla scarna esposizione dello svolgimento del processo.
La censura è altresì comunque infondata in diritto, ove si riferisca a documenti prodotti dalla parte, in quanto per costante giurisprudenza di questa Corte, alla luce del principio di specialità espresso dall’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992 -in forza del quale, nel rapporto fra norma processuale civile ordinaria e norma processuale tributaria, prevale quest’u ltima-, nel grado di appello del giudizio tributario non opera la preclusione di cui all’art. 345, terzo comma, c. p.c., essendo la materia reg olata dall’art. 58, comma 2, del citato d.lgs., che consente
alle parti di produrre liberamente nuovi documenti in sede di gravame, persino se preesistenti al giudizio di prime cure, senza richiedere che la mancata produzione nel grado pregresso sia stata determinata da causa ad esse non imputabile (cfr. Cass. 8/05/2024, n. 12498; Cass. 28/06/2022, n. 20613; Cass. 21/10/2021, n. 29470; Cass. 24/06/2021 n. 18103).
Con il terzo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3) c.p.c., si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 42 d.P.R. n. 600 del 1973, dell’art. 56 d.P.R. n. 633 del 1973, dell’art. 7 della legge n. 212 del 2000, dolendosi che i giudici della CTR non abbiano esaminato né si siano pronunciati sulla nullità dell’atto di accertamento in quanto del tutto carente di motivazione, mancando, nel caso di specie, l’indicazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche della pretesa.
4.1. Il motivo è inammissibile in quanto si risolve in una generica esposizione in diritto delle disposizioni che regolano la motivazione dell’ avviso di accertamento ai fini delle imposte dirette e dell’Iva ma senza alcun riferimento al caso concreto, mancando una specifica censura riconducibile all’avviso di accertamento impugnato.
Inoltre, la Commissione tributaria regionale ha ampiamente esaminato nel merito la pretesa tributaria, ritenendo implicitamente esaustiva la motivazione dell’avviso, quindi evidentemente confrontandosi con il suo contenuto.
Con il quarto motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 39 d.P.R. n. 600 del 1973, dell’art. 54 d.P.R. n. 633 del 1972 e dell’art. 2979 c.c. ( recte , 2729 c.c., indicato poi nel corpo del motivo), dolendosi che i giudici della CTR non abbiano esaminato l’eccezione per cui l’avviso di accertamento violava le predette disposizioni, in quanto l’ufficio avrebbe operato un accertamento di tipo analitico ma che in
relazione ai ricavi è senz’altro di tipo induttivo, agendo sulla scorta di un’unica presunzione, affermata ma non provata, mentre la legge richiede il concorso di una pluralità di presunzioni e per di più gravi, precise e concordanti mentre l’avviso di accertamento nel caso di specie si basa su presunzioni semplici.
5.1. Il motivo è infondato, in quanto i giudici d’appello hanno univocamente e del tutto chiaramente verificato che si fosse in presenza di un accertamento di tipo induttivo ai sensi dell’art. 39, comma 2, lettera d)bis del d.P.R. n. 600 del 1973, giustificato dalla circostanza della deliberata omessa risposta alla richiesta dell’ufficio di rispondere al questionario previsto dall’art. 32 n. 4 del medesimo d.P.R. e di produrre documentazione contabile, ostacolando la verifica dell’ufficio e ingenerando un sospetto in ordine alla inattendibilità delle scritture.
Tale disposizione consente espressamente all’ufficio di avvalersi di presunzioni prive dei requisiti di cui all’art. 39, comma 1, lettera d) d.P.R. n. 600 del 1973.
Con il quinto motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3) c.p.c., si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in quanto l’ufficio non avrebbe prodotto alcuna prova a sostegno della propria pretesa tributaria, e nel corpo del motivo si evidenzia altresì la violazione dell’art. 115 c .p.c., in quanto i giudici della CTR non avrebbero esaminato la documentazione probatoria prodotta dal contribuente che aveva condotto all’accoglimento del ricorso da parte della CTP.
6.1. Il motivo è inammissibile in quanto in tema di ricorso per cassazione, la violazione dell’art. 2697 c.c. si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti
costitutivi ed eccezioni mentre, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunziare che il giudice, contraddicendo espressamente o implicitamente la regola posta da tale disposizione, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dall’art. 116 c.p.c. (Cass. 23/10/2018, n. 26769; Cass. 15/10/2024, n. 26739).
Il motivo, del tutto generico e senza alcun riferimento agli atti processuali, non risponde a tali paradigmi.
Con il sesto motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3) c.p.c., si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 75, comma 4, d.P.R. n. 917 del 1986, in quanto i giudici dell’appello non hanno riconosciuto i relativi costi con ciò applicando la maggiore imposta sui ricavi lordi.
7.1. Anche tale motivo è inammissibile.
In primo luogo, l’invocato art. 75 t.u.i.r. nel testo vigente ratione temporis si riferisce a tutt’altra fattispecie.
Ove la censura intende invece riferirsi, come pare evincersi dal suo sebbene sintetico contenuto, al l’ art. 75 t.u.i.r., il cui originario contenuto è stato sostanzialmente trasfuso nell’attuale art. 109 t.u.i.r., il motivo è comunque inammissibile in quanto la parte omette del tutto di indicare se e come abbia proposto tale questione nel corso del giudizio.
Soccorre sul punto il consolidato orientamento secondo il quale, qualora una questione giuridica – implicante un accertamento di fatto non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che la proponga in sede di legittimità, onde non incorrere nell’inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di
allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di specificità del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, per consentire alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la censura stessa (Cass. 22/12/2005, n. 28480).
Nel caso di specie, di tale deduzione non vi è traccia nella sentenza; la ricorrente non ha indicato se e dove abbia dedotto la circostanza ma si è limitata ad affermare che l’ufficio non avrebbe riconosciuto i costi.
8. Con il settimo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3) c.p.c., si deduce violazione e falsa applicazione della legge n. 241 del 1990, della legge n. 212 del 2000, dell’art. 97 della Costituzione, in quanto i giudici della CTR non hanno rilevato che nessun atto citato nelle motivazioni dell’accertamento è stato allegato allo stesso nè è stato prodotto nel corso del giudizio di primo grado.
8.1. Il motivo è inammissibile mancando del tutto in esso un utile riferimento normativo, tale non potendosi considerare l’indicazione di interi plessi legislativi.
Il motivo è altresì inammissibile per le medesime ragioni esposte nel motivo che precede in quanto la parte omette del tutto di riferire se e come abbia proposto tale doglianza nel corso del giudizio di merito.
Il motivo infine sconta ulteriore ragione di inammissibilità per la sua assoluta genericità in quanto non riassume, trascrive, richiama l’avviso di accertamento in questione, non risultando quindi adempiuto l’onere di cui all’art. 366, primo comma, n. 6, c.p.c., di specifica indicazione, a pena d’inammissibilità del ricorso, degli atti processuali e dei documenti sui quali il ricorso si fonda, nonché dei dati necessari all’individuazione della loro collocazione quanto al momento della produzione nei gradi dei giudizi di merito (Cass. 15/01/2019, n. 777; Cass. 18/11/2015, n. 23575; Cass., S.U., 03/11/2011, n. 22726).
Invero tale onere (ribadito ed aggravato, con l’inserimento altresì della necessaria illustrazione del contenuto rilevante degli stessi atti processuali e documenti, dall’art. 3, comma 27, del d.lgs. 10 ottobre 2022 n. 149, applicabile tuttavia ai giudizi introdotti con ricorso notificato a decorrere dal 1° gennaio 2023, ex art. 35, comma 5, del medesimo d.lgs.), anche interpretato alla luce dei principi contenuti nella sentenza della Corte EDU, sez. I, 28 ottobre 2021, r.g. n. 55064/11, non può ritenersi rispettato qualora il motivo di ricorso non indichi specificamente i documenti o gli atti processuali sui quali si fondi; non ne riassuma il contenuto o ne trascriva i passaggi essenziali; né comunque fornisca un riferimento idoneo ad identificare la fase del processo di merito in cui essi siano stati prodotti o formati (cfr. Cass., Sez. U., 18/03/2022, n. 8950; Cass. 14/04/2022, n. 12259; Cass. 19/04/2022, n. 12481; Cass. 02/05/2023, n. 11325)
Con l’ottavo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4) c.p.c., si deduce nullità della sentenza ex artt. 36, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992, 112 c.p.c., e 118 disp. att. c.p.c.
9.1. Il motivo è inammissibile in quanto è contraddittoria la denuncia, in un unico motivo e senza alcuna gradazione, dei due distinti vizi di omessa pronuncia e di omessa motivazione su un punto decisivo della controversia. Il primo, infatti, implica la completa omissione del provvedimento indispensabile per la soluzione del caso concreto e si traduce in una violazione dell’art. 112 c.p.c., che deve essere fatta valere esclusivamente a norma dell’art. 360, n. 4, c.p.c., e non con la denuncia della violazione di norme di diritto sostanziale, ovvero del vizio di motivazione ex art. 360, n. 5, c.p.c., mentre il secondo presuppone l’esame della questione oggetto di doglianza da parte del giudice di merito, seppure se ne lamenti la soluzione in modo giuridicamente non corretto ovvero senza adeguata giustificazione, e va denunciato ai sensi dell’art. 360 n. 5 (Cass. 05/03/2021 n. 6150;
Cass. 18/06/2014, n. 13866 nonché di recente Cass. 19/05/2025, n. 13279).
In secondo luogo, la sentenza risulta compiutamente motivata ben al di là del cosiddetto minimo costituzionale entro il quale è possibile dedurre il vizio di motivazione ai sensi di Cass., Sez. U., 07/04/2014, n. 8053.
Infine, è del tutto generica la deduzione dell’omessa pronuncia, mancando la parte di specificare quali siano «le eccezioni e la documentazione probatoria presentata dal contribuente» sulle quali i giudici d’appello non si sarebbero pronunciati nonché per quali ragioni essi sarebbero incorsi in ultrapetizione.
10. Il ricorso va quindi complessivamente respinto.
Alla soccombenza segue la condanna alle spese liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna RAGIONE_SOCIALE al pagamento delle spese di lite in favore dell’Agenzia delle entrate, spese che liquida in euro 2.500,00 oltre spese prenotate a debito.
A i sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, in data 23 maggio 2025.