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Accertamento induttivo: la Cassazione sui dati Cli.Fo

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza 20357/2024, ha stabilito che un accertamento induttivo può legittimamente basarsi sui dati dell’elenco clienti e fornitori (Cli.Fo). Ha inoltre chiarito che, per gli accertamenti a tavolino su tributi armonizzati come l’IVA, l’onere del contraddittorio preventivo è attenuato se il contribuente, dopo aver ricevuto una richiesta di documenti, non risponde e non specifica quali difese avrebbe opposto.

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Pubblicato il 6 dicembre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Accertamento Induttivo: Legittimo l’Uso dei Dati Clienti-Fornitori

L’accertamento induttivo rappresenta uno degli strumenti più incisivi a disposizione dell’Agenzia delle Entrate. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione, la n. 20357 del 23 luglio 2024, ha fornito chiarimenti cruciali sulla legittimità di tali accertamenti quando si basano su dati esterni al contribuente, come l’elenco clienti e fornitori (noto come Cli.Fo), e sui limiti del contraddittorio preventivo. Questa pronuncia offre spunti fondamentali per comprendere i confini del potere impositivo e i diritti del contribuente.

I Fatti del Caso: un Accertamento Basato su Dati Esterni

Il caso ha origine da un avviso di accertamento notificato a un socio di una società in nome collettivo (SNC). L’Agenzia delle Entrate contestava l’esistenza di ricavi non dichiarati, basando le proprie conclusioni su una discordanza tra quanto dichiarato dalla società e quanto risultava dall’elenco clienti e fornitori (Cli.Fo) comunicato dai clienti della stessa società. In sostanza, i clienti avevano dichiarato di aver ricevuto fatture per importi superiori a quelli che la società aveva registrato come ricavi.

La Decisione della Commissione Tributaria Regionale

Inizialmente, la Commissione Tributaria Regionale (CTR) aveva dato ragione al contribuente, annullando l’atto impositivo. Secondo i giudici di secondo grado, l’accertamento non era valido per due ragioni principali:
1. Origine dei dati: Si fondava su dati contabili non della società accertata, ma dei suoi clienti.
2. Mancanza di contraddittorio: Non vi era stato un effettivo contraddittorio, poiché la richiesta di esibire i registri IVA era stata seguita dall’emissione dell’avviso di accertamento dopo soli 15 giorni, un tempo ritenuto insufficiente.

La CTR aveva concluso che non sussistevano ‘presunzioni gravi, precise e concordanti’ tali da giustificare la pretesa fiscale.

L’accertamento induttivo secondo la Corte di Cassazione

L’Agenzia delle Entrate ha impugnato la decisione della CTR dinanzi alla Corte di Cassazione, la quale ha ribaltato il verdetto, accogliendo due dei tre motivi di ricorso. L’analisi della Suprema Corte si è concentrata su due aspetti fondamentali: il valore probatorio dei dati esterni e l’applicazione del principio del contraddittorio.

Il Valore Probatorio dell’Elenco Clienti-Fornitori (Cli.Fo)

La Corte ha affermato un principio chiave: i dati provenienti dagli elenchi clienti e fornitori possiedono valore probatorio e possono legittimamente fondare un accertamento induttivo. Contrariamente a quanto sostenuto dalla CTR, non si tratta di ‘mere annotazioni’, ma di informazioni che ‘corrispondono a fatture regolarmente registrate’ da altri soggetti passivi IVA. Tali elenchi, quindi, costituiscono un elemento presuntivo valido per ricostruire il reddito del contribuente, spostando su quest’ultimo l’onere di fornire la prova contraria e giustificare le eventuali discordanze.

I Limiti del Contraddittorio Preventivo negli Accertamenti a Tavolino

Sul secondo punto, relativo alla violazione del contraddittorio, la Cassazione ha operato un’importante distinzione. L’accertamento in questione era un ‘accertamento a tavolino’, cioè basato sull’analisi di documenti in ufficio, e non un’indagine con accesso presso la sede del contribuente. In questi casi, la regola generale che impone un termine dilatorio di 60 giorni prima di emettere l’avviso non si applica automaticamente.

Tuttavia, poiché l’accertamento riguardava un tributo armonizzato a livello europeo come l’IVA, il principio del contraddittorio preventivo deve essere garantito. La Corte ha però precisato che il contribuente che lamenta la violazione di tale principio ha l’onere di dimostrare in concreto quali argomenti e prove avrebbe potuto presentare per difendersi. Nel caso specifico, la società aveva ricevuto una richiesta formale di esibire i registri IVA tramite PEC, ma non aveva dato alcun riscontro. Di conseguenza, non poteva lamentarsi della mancata instaurazione di un dialogo che essa stessa aveva evitato.

le motivazioni

La Suprema Corte ha motivato la sua decisione cassando la sentenza della CTR e rinviando la causa a un’altra sezione della Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado. Le motivazioni si fondano sulla errata interpretazione, da parte dei giudici di merito, della normativa sulle presunzioni tributarie e sul contraddittorio. La Cassazione ha ritenuto che la CTR avesse erroneamente svalutato il potere probatorio dei dati del Cli.Fo, che costituiscono un elemento presuntivo legittimo ai sensi dell’art. 39 del D.P.R. 600/1973. Inoltre, ha censurato l’applicazione rigida del principio del contraddittorio, sottolineando come la sua violazione debba essere eccepita dal contribuente dimostrando un pregiudizio effettivo e concreto, cosa non avvenuta nel caso di specie, data l’inerzia del contribuente a fronte di una richiesta formale dell’Amministrazione finanziaria.

le conclusioni

L’ordinanza in esame consolida un orientamento giurisprudenziale di grande importanza pratica. Per i contribuenti, la lezione è duplice: primo, le discordanze tra le proprie dichiarazioni e i dati comunicati da terzi (clienti, fornitori) possono essere utilizzate dall’Agenzia delle Entrate come base solida per un accertamento induttivo. Secondo, ignorare le richieste di documenti da parte del Fisco è una strategia rischiosa, poiché preclude la possibilità di lamentare in seguito una violazione del diritto di difesa. Per l’Amministrazione finanziaria, la pronuncia conferma la legittimità dell’uso di strumenti di controllo incrociato, pur nel rispetto sostanziale, e non meramente formale, del diritto al contraddittorio.

Un accertamento fiscale può basarsi esclusivamente sui dati provenienti dall’elenco ‘Clienti-Fornitori’ (Cli.Fo)?
Sì. La Corte di Cassazione ha stabilito che i dati rinvenuti nell’elenco fornitori inviato dai clienti all’Agenzia delle Entrate non sono mere annotazioni, ma corrispondono a fatture registrate e hanno valore probatorio. Possono quindi costituire un elemento presuntivo sufficiente per un accertamento, invertendo l’onere della prova a carico del contribuente, che dovrà giustificare le discrepanze.

Il contraddittorio preventivo è sempre obbligatorio per gli accertamenti ‘a tavolino’?
Per gli accertamenti ‘a tavolino’ (cioè senza accesso in azienda), il termine dilatorio di 60 giorni previsto dall’art. 12, comma 7, della Legge 212/2000 non si applica. Tuttavia, se l’accertamento riguarda tributi ‘armonizzati’ come l’IVA, il principio del contraddittorio deve essere rispettato. Il contribuente che ne lamenta la violazione deve però dimostrare in concreto quali argomentazioni avrebbe potuto addurre per difendersi.

Cosa succede se un contribuente non risponde a una richiesta di documenti da parte dell’Agenzia delle Entrate?
Se il contribuente non esibisce i documenti richiesti, come i registri IVA, non solo l’Amministrazione può procedere con un accertamento basato su altri elementi (come il Cli.Fo), ma il contribuente stesso perde la possibilità di contestare efficacemente una violazione del contraddittorio. La sua inerzia indebolisce la sua posizione difensiva, poiché non può dimostrare quale contributo avrebbe potuto fornire se avesse partecipato alla fase pre-accertativa.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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